[X] Around your fingers

Titolo: Around your fingers
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Seishiro Sakurazuka
Parte: 1/1
Rating: NC17
Parole: 5663 (LibreOffice)
Note: omosessualità, NSFW, botte da orbi, spoiler su X16 e 17, per il P0rn Fest #5 @

Around your fingers
[P0rn Fest #5] X, Seishiro Sakurazuka/Subaru Sumeragi, “Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai” (Fabrizio de André)

«Posso sapere perché siamo qui?» chiese Subaru seccamente, accavallando le gambe sotto il tavolino del bar, un ginocchio contro l’intarsio di ferro battuto.
Seishiro sorrise, osservandone il movimento – dall’ultima volta che l’aveva visto (vuoi perché ne era uscito sanguinante) sembravano essersi assottigliate ancora di più.
«Beh, l’espresso è ottimo» commentò lui, portandosi la tazzina alle labbra.
Rigidamente seduto sulla sedia – così in tensione da cominciare a sentire i crampi alle spalle – Subaru lo osservò sorbire il caffè con tutta la diffidenza di cui era capace. Chiunque, probabilmente, si sarebbe ritratto con la coda fra le gambe, ma il gelo a ondate che Subaru si sforzava di emanare sembrava mettere l’assassino tremendamente a suo agio.
Suo malgrado, il ragazzo sorrise a sua volta.
«Immagino tu sappia che non ho alcuna intenzione di concederti un appuntamento.»
Seishiro lo spiò da sopra la tazzina con un interesse tutto nuovo negli occhi. Ironia. Questa non la ricordava nel pacchetto.
«E chi ti dice che voglia chiedertene uno. Quanta presunzione» sbuffò. Il viso dall’altro capo del tavolo, però, rimase serio.
«E anche se fosse,» specificò Seishiro, quasi a voler far dispetto al suo silenzio «dubito verrei a chiedere il tuo permesso.»
«Ti ricordavo più educato» disse Subaru freddamente.
«Mi ricordavi diverso.»
Oh, questa sì che era cattiva – qualche anno fa gli avrebbe addirittura fatto male. Ma Subaru chiuse gli occhi nel vento, l’aroma del caffè che ancora indugiava sul palato.
«Sei invecchiato.»
«Prego?»
«Ho sempre pensato che la magia che vi scorre nel sangue vi rendesse immutabili. Ci sono scritte tante cose, sui rotoli che studiavo da bambino per guardarmi dal vostro clan… Eppure sei cambiato anche tu.»
«La storia insegna che gran parte di quei rotoli diceva un sacco di baggianate, mi pare… Ma debbo dire che il tempo ha fatto bene anche a te. Sei cresciuto, Subaru-kun. Proprio un bel ragazzo.»
«Questo non è un gioco, Seishiro-san. Dimmi perché siamo qui.»
Seishiro si alzò dal tavolo fissandolo negli occhi, per infilarsi nel bar deserto. Irritato, con le guance rosse dal freddo, Subaru lo seguì a passi lenti, stringendosi nel impermeabile. Rimase a guardare Seishiro in tralice mentre lui si infilava dietro all’elegante bancone di marmo per scegliere un bicchiere dallo scaffale alle sue spalle. Con noncuranza, stappò una bottiglia d’acqua e se ne versò un sorso generoso, poi spinse un bottone per aprire il registratore di cassa. Subaru aprì le labbra per protestare.
«Offro io,» disse lui amabilmente, lasciando scivolare una banconota nel vano di plastica.
Subaru strinse le labbra fino a farle sbiancare, ma Seishiro lo ignorò deliberatamente. Calpestò le foglie secche e la polvere che il vento aveva disseminato sul pavimento e varcò di nuovo la soglia.
Subaru rimase un passo dietro di lui, masticando disapprovazione e veleno. Seishiro si voltò ridacchiando.
«Che ci facciamo qui. Direi quel che fanno i Sette Angeli e i Sette Sigilli, per quanto alcuni di loro si intestardiscano a dire che il futuro della Terra non rientra nella sfera dei loro interessi» commentò, avvicinandosi.
Subaru si morse con forza una guancia quando Seishiro prese a svolgere delicatamente la benda che gli copriva l’occhio destro. Pronto a scansarsi (ma mai abbastanza pronto, e mai abbastanza veloce) si fermò quando Seishiro gli trattenne forte il polso. Sotto la garza, il cerotto protettivo volò alla prima raffica senza drammatiche conseguenze – la palpebra, attraversata dalla traccia obliqua e rosata dei punti di sutura, esibiva l’occhio vuoto. Il chirurgo aveva fatto un lavoro impeccabile.
Carezzò un sorriso sulla punta della lingua e lo ricacciò in gola nel poggiargli una mano sulla guancia, lasciando scivolare un dito laddove i denti di Subaru trattenevano la carne.
Adesso, guardavano il mondo dalla stessa prospettiva, dalla stessa metà dello specchio, dallo stesso riflesso incompleto, sovrapposti senza poter combaciare.
«Guarda un po’, uno dei Sette Angeli che mi fa la partaccia. Sei dentro la mia kekkai, ed è tutto quello che devi sapere.»
«Non mi hai mai reso le cose così facili» borbottò Seishiro, poco convinto.
«Sorprendente, non è vero?» sibilò Subaru, con il pollice di lui che gli sfiorava l’angolo delle labbra.
«A dir poco» rimbombò tranquilla la sua voce, fra i palazzi e le case.
«Bene, cominciamo?» gli chiese Subaru, due parole secche e fredde come l’inverno mentre si allontanava e riavvolgeva la garza al proprio posto. Sopra le loro teste, la stella della kekkai torreggiava pesante, perdendosi a vista d’occhio.
«On asanmagini unhatta.»
Il primo ofuda tagliò l’aria in due come un coltello – Subaru spiccò un salto per evitarlo. Galleggiò in aria per una decina di secondi, prima che un’altra pergamena gli passasse sibilando nell’incavo del braccio. Il terzo ofuda tranciò un grosso lembo di benda che sventolava malamente dietro la sua nuca, e solo allora Subaru scese in picchiata verso Seishiro con una miriade di ofuda fra le dita.
«On bazalagini harajihattayasowaka!» recitò fra i denti, la carta affilata che si apriva in mille ali di shikigami.
Seishiro, rimasto in piedi al proprio posto come se nulla di quanto stesse accadendo gli riguardasse in prima persona, accennò un gesto con la mano. La polvere ancora a terra si sollevò in cerchio, rivelando la sua barriera, e gli spiriti vi si infransero sopra come carta straccia.
Subaru atterrò in punta di piedi, gettandosi una breve occhiata alle spalle, per scoprire migliaia e migliaia di pergamene che si sollevavano per arrivargli addosso come un’onda anomala.
Schizzò in alto nel tentativo di cavalcarla, e intravide di sfuggita Seishiro che, probabilmente colto dalla stessa intuizione, si faceva beffe di lui saltando più in alto e più veloce. Subaru storse le labbra e si gettò in quell’ingorgo nero per sfondarne i ranghi.
«On!»
Due file di talismani bianchi presero a vorticargli attorno ai polsi e alle caviglie mentre i bordi taglienti di quelli di Seishiro tranciavano stoffa e pelle qua e là.
Qualche metro più su, lui stava osservando la situazione dall’altro senza poter scovare l’avversario.
«Ma cosa diavolo sta fac—»
Non ebbe il tempo di finire la frase, che la sua cortina di ofuda esplose dal centro, disponendosi in docile resa attorno ai contorni della barriera di Subaru: un pentacolo.
Sinceramente divertito, Seishiro rise di gusto nello scorgere le pergamene di Subaru ancorate al suolo in posizione strategica a formare il simbolo di magia bianca che tanto aveva inorgoglito il clan Sumeragi attraverso i secoli. Come a voler rimarcare il concetto, planò a poggiare i piedi nel centro.
«I miei complimenti,» sciorinò l’assassino «Avevo dimenticato quanto tu fossi migliorato.»
«Piantala con le cortesie!» scattò Subaru.
«D’accordo» disse Seishiro, scrollando le spalle. Agitò la mano e lasciò cadere con noncuranza cinque dei suoi ofuda. Un attimo dopo, le linee nere del suo pentacolo si inscrissero su quelle di Subaru, tranciando la barriera come carta velina.
«Maledizione!» gridò il ragazzo, contro la fitta di dolore che gli trapassava il petto: l’incantesimo di Seishiro si era aggrappato all’aura oscura che indugiava sui marchi, e adesso saliva lungo tutto il corpo come un fil di ferro arroventato.
Trattenendo uno spasmo, Subaru affondò due dita in una tasca e scagliò due pergamene per interrompere i mantra di Seishiro. La carta passò sibilando fra le dita giunte, e l’assassino fu costretto a scioglierle in uno schizzo di sangue.
«Giochi sporco?» lo provocò.
«Così parrebbe. E mi sembra che tu faccia altrettanto!» gli urlò lo sciamano di rimando, volando rasoterra e stando ben attento a non dargli le spalle.
«Io non sono un Sumeragi!» puntualizzò Seishiro. I tagli sui polpastrelli sanguinavano ancora, sgocciolando sull’asfalto, ma lui sembrò ignorarli e si pulì distrattamente sulla camicia.
«E solo per questo pensi che dovrei porgerti l’altra guancia?» ribatté Subaru amaramente, prendendo la rincorsa per correre lungo le finestre di un grattacielo, il vento e l’umidità che gli frustavano la faccia. Seishiro si lanciò in un balzo a inseguirlo, scorgendo di tanto in tanto il suo riflesso distorto su centinaia e centinaia di finestre.
Ormai sul pennone dell’edificio, Subaru spuntò da una coltre di foschia e di nuvole, ritrovandosi faccia a faccia con l’altro uomo.
«Un tempo era quello che ti riusciva meglio» rispose Seishiro, senza inflessione.
Non avrebbe dovuto, eppure fu abbastanza: Subaru sgranò gli occhi, il cuore compresso in una morsa, quelle parole che gli toglievano il fiato in uno schiocco di dolore sordo in tutte le ossa. Durò meno di un secondo, e fu completamente irrazionale, ma rimase pietrificato – e un Sakurazukamori era in grado di uccidere in molto meno.
Si rese pienamente conto di essere ancora vivo – e di essere stato scagliato con violenza – solo quando si ritrovò a volare attraverso un complesso di uffici, in una scia di sangue e pezzi di vetro, schedari, cemento, fogli di carta, scrivanie e sedie, bicchieri di caffè e cavi del telefono.
Perforò l’altro lato del palazzo pieno di lividi e con il sangue che gli si allargava in bocca da chissà che ferita. Sospeso in aria, sputò un miscuglio viscoso di sangue, calcestruzzo e saliva, poi alzò la testa in cerca di Seishiro con gli occhi che gli lacrimavano.
Ed eccolo lì, una spanna sopra la sua testa (come sempre), un sorriso infantile sulle labbra, imparato a memoria dai quadri o dalle facce altrui, chissà, e lo sguardo spaiato e senza luce e mai come in quel momento Subaru si diede del folle e dell’illuso.
Mentre il vento fischiava contro il peso inerte del suo corpo in caduta libera, Subaru si fece afferrare per il bavero della giacca. Vicinissimo, il viso di Seishiro era una macchia appannata e senza forma – la testa gli girava vorticosamente, un dolore lancinante batteva da qualche parte dietro la nuca e un’ondata di nausea gli torceva lo stomaco.
Tutto riacquistò vagamente senso quando sentì le ginocchia piegarsi fra le macerie, sul piano solido e orizzontale dei suolo: Seishiro gli stava tirando i capelli; gli sembrò che la testa fosse attaccata al collo soltanto per volontà della sua mano.
Alzò gli occhi e lo fissò.
«“Kamui” mi ha detto di un tuo desiderio di cui io non so assolutamente nulla. Voglio sapere qual è.»
Subaru tossì.
Non vedeva quasi più nulla, l’occhio cieco gli faceva così male che gli sembrava che la testa stesse per esplodere. Sentiva solo pezzi sparsi del proprio corpo, accartocciato in un angolo slogato e innaturale. Gli sembrò di espettorare sangue e bile. Senza smettere di guardarlo – sperando che lo stesse davvero guardando – Subaru si disse di essersi già arreso a se stesso. Non era obbligato ad arrendersi anche davanti a lui.
«Crepa.»
Gli sembrò di strozzarsi sull’ultima sillaba – il mondo perse l’equilibrio, ma sentì, in un punto fermo della mente addormentata, il crac della kekkai che si ripiegava in frantumi.

*

«Ahi.»
Aprì gli occhi a fatica, accorgendosi a malapena di essere stato lui a parlare. Il bianco del soffitto lo accecò – fu tentato di riaffondare la testa nel cuscino, e solo allora si accorse che era proprio quello a non suonargli familiare. Il materasso sotto la schiena non era il suo.
Subito si puntellò con le braccia e saltò a sedere, ignorando le braccia che, doloranti, tremavano sotto il suo stesso peso.
Era sotto due strati di coperte, e le lenzuola sotto i palmi delle mani erano fredde – probabilmente non si era mosso nemmeno di un centimetro mentre era rimasto svenuto, però sembrava fosse rimasto solo. Non sapeva se esserne sollevato o meno, dato che non riconosceva nulla della stanza.
In quel preciso momento, ricordò di avere uno stomaco, e di averlo sconvolto raddrizzandosi troppo di fretta. L’ondata di nausea lo coprì di sudore freddo. Si portò una mano alla bocca e balzò giù dal letto. Barcollò, ma vide che proprio di fronte a lui si apriva la porta di un piccolo bagno.
«Non sei un Drago del Cielo per niente,» constatò Seishiro dalla cucina «niente di rotto e niente lesioni interne, solo qualche livido—» ma si interruppe quando udì il primo conato provenire dal bagno.
Fece una corsa e lo trovò a vomitare inginocchiato di fronte al gabinetto. Seishiro si piegò dietro di lui e gli tenne la fronte con una mano. Il corpo di Subaru, colto di sorpresa, cercò di scuotersi la sua presa di dosso in un mezzo spasmo, ma un altro conato gli contrasse talmente tanto le viscere che, se non si fosse abbandonato contro il palmo della sua mano, sarebbe caduto in avanti.
Quando ebbe finito, si allontanò bruscamente, pallido come un cadavere, gli occhi chiusi e le labbra bianche.
«Non mi toccare» sbottò, una volta recuperato il fiato per parlare. Seishiro trattenne a stento una risatina mentre lo tirava in piedi tenendolo per le spalle. Nonostante la buona volontà, Subaru fu costretto ad aggrapparsi due secondi a lui nello sforzo di non cadere, e Seishiro lo lasciò appoggiarsi al bordo del lavandino solo quando fu certo che non sarebbe finito lungo disteso sul pavimento. Poi, canticchiando, aprì l’armadietto dei medicinali e scartò per lui uno spazzolino da denti.
«Tieni,» disse «non l’ho avvelenato, era sigillato.»
Subaru glielo strappò di mano senza dire una parola. Per quale dannato motivo era lui a sentirsi in difetto, quando era lui ad averlo ridotto così, e adesso faceva il buon benefattore all’unico scopo di umiliarlo e farlo infuriare?
E infuriato si voltò, appunto, per lavarsi i denti a fondo.
Seishiro non si mosse: ascoltò placidamente l’acqua che scorreva, lo strofinio monocorde delle setole e solo quando Subaru poggiò lo spazzolino gli toccò un braccio per condurlo a piccoli passi fuori dalla stanza.
«La cena è pronta, se hai fame.»
«Cosa?!»
Subaru lo guardò sbigottito, ma Seishiro non fece una piega, né aggiunse parola quando lui lo seguì effettivamente in sala da pranzo senza altre proteste. La tavola era apparecchiata, la cena già servita e l’ospite sempre più sgomento. Seishiro gli spostò la sedia senza nemmeno deriderlo, come Subaru aveva sperato che facesse, e lui si sedette.
Lo osservò prendere posto di fronte a lui con la calma più signorile del mondo.
«Spero sia di tuo gradimento» gli augurò, prendendo silenziosamente le posate.
Atterrito, Subaru lo imitò abbassando lo sguardo sul piatto, chiedendosi disperatamente che diavolo fosse quella cosa travestita da umana normalità che stavano inscenando in quel momento. Con il polso flesso a reggere la forchetta, scorse un livido nerastro che si allargava in corrispondenza dell’osso – se provava a stringere con troppa forza, la mano cominciava a tremare.
«Adesso basta.»
Lanciò a terra la forchetta con il boccone ancora infilzato nei rebbi e spinse la sedia all’indietro. Cadde con un tonfo sul pavimento.
«Mangia composto.»
«Vai all’inferno!»
Strattonò violentemente un lembo della tovaglia e trascinò a terra ogni cosa in un fracasso di cocci, pestando con odio i pezzi di ceramica e di cibo. Solo allora Seishiro si alzò in piedi, guardandolo in faccia.
«Gradirei di sapere se hai finito di giocare con le bambole.»
Per la prima volta, l’assassino si ritrovò ad esaminare Subaru con attenzione.
Aveva parlato con calma, centellinando ogni parola, la voce addestrata al controllo da anni di mantra e inchini, ma quella cosa pesante ed estranea che era esplosa, e che in nessun modo Seishiro riusciva a decifrare, gli faceva gli occhi lucidi di febbre e gli dilatava le narici.
«Non capisco di cosa tu stia parlando.»
«Cosa stiamo facendo. Dimmelo. Non ho intenzione di recitare un altro teatrino» sibilò, cercando in ogni modo di frustare almeno a parole quel viso immobile. Mentiva – almeno in parte, e consapevolmente, oltretutto – a un bugiardo navigato, perché uno dei teatrini era già in piedi, ed era Seishiro ad avergliene insegnato le battute e le smorfie. Stavolta, però, non avrebbe certo recitato per i suoi comodi. Qualunque essi fossero.
«Tanto per cominciare, ero sicuro che stessimo cenando.»
«Ma davvero!» esclamò Subaru, acre «Ero convinto si trattasse del solito gioco del gatto e del topo!»
«Ti aspettavi qualcosa di diverso, forse?»
«Avresti potuto uccidermi, per dirne una» lo rimbeccò Subaru, con l’aria di chi avrebbe voluto incenerirlo se solo avesse potuto.
Seishiro si arrestò un istante.
«Ma mio caro…» recuperò subito il sorriso, prima ancora che Subaru potesse notarne l’assenza «Ho ucciso tua sorella. Anche tu avresti potuto. E con tutte le ragioni, per giunta.»
E il fatto che la ragione e la logica fossero sue, invece, umiliavano Subaru come Seishiro non poteva neppure lontanamente immaginare.
Sentì la faccia bruciare di collera e di vergogna e disgusto – strinse un pugno, e si maledisse: il dolore gli attraversò il corpo come una scarica elettrica. Incurante del suo disagio, Seishiro si chinò a raccogliere la tovaglia da terra, lasciandovi sopra quattro impronte vagamente insanguinate. Subaru si morse il labbro e, voltandosi, aprì la porta della camera da letto e se la sbatté alle spalle, lasciandolo con i cocci e tutto il resto.
Si sedette sull’angolo del letto con la testa fra le mani e un groppo in gola – dalla sala, Seishiro raccoglieva le stoviglie in un fracasso assordante di vetro e porcellana.
Sì alzò, si chiuse a chiave nel bagno e, aperto il rubinetto più che poté, raccolse a due mani uno scroscio di acqua fredda affondandovi il viso. Nello specchio, le gocce correvano a piccoli rivoli sulle guance arrossate. Si vide spettinato e perdente e senza vie d’uscita, chiuso in quattro metri di stanza non sua, solo coi suoi cocci e quel desiderio che era come amaro nel sangue.
Peggio di così poteva sicuramente andare.

*

Quando socchiuse la porta, Seishiro era seduto su una sedia ad ammirare la precisione del suo operato: la tovaglia era probabilmente nell’asciugatrice e i cocci nella pattumiera. Si accorse del suo sguardo truce nello spiraglio e lo ignorò spudoratamente. Subaru osservò distrattamente i polsini della camicia slacciati e la sottile traccia ferruginosa sul risvolto. Alzò gli occhi al cielo nella penombra, già maledicendosi per quello che aveva intenzione di dire.
«Fammi vedere le dita.»
Seishiro fu incapace di trattenersi.
«Spero tu sappia di essere un pessimo vendicatore. Il delitto d’onore ha vita dura con te, Subaru-kun.»
«Non accetterò nessuna predica sull’onore dalle tue labbra» lo rimbeccò il ragazzo, facendosi avanti. Non aveva nessuna intenzione di raccogliere la provocazione fino in fondo.
«Hai una cassetta di pronto soccorso?»
«Bagno di servizio, secondo scaffale dal basso» brontolò lui, i tagli sui polpastrelli che cominciavano ad arrossarsi.
Subaru sparì e riapparve con un po’ di garza sterile e del disinfettante. Seduto a tre quarti e con un gomito che sporgeva oltre lo schienale della sedia, Seishiro ne contemplò i passi, fino a che lo sciamano non gli si parò di fronte, rigirandosi la garza fra le dita nel più antigienico sfoggio di primo soccorso mai visto. Senza commenti, si sedette di traverso sulle sue ginocchia e gli afferrò una mano.
«Dobbiamo parlare» disse seccamente, come chi sente la voce morire in gola. Sembrò che solo allora si fosse accorto davvero di quanto fossero vicini, e di quanto Seishiro lo guardasse senza battere ciglio. Un brivido gli camminò dietro la nuca, così distintamente che temette Seishiro potesse sentirglielo nei muscoli delle gambe.
Con sua somma disperazione, Seishiro non disse niente: rilassò la mano, toccandogli il mento, due dita sulle sue labbra come se fossero capitate lì per caso.
Subaru restituì l’occhiata con la spavalderia del condannato, ma fu un attimo: aveva le ferite di Seishiro a fior di labbra, e persino lui dovette trattenere un moto di stupore quando lo guardò chiudere gli occhi e lo sentì chiudere la bocca in un bacio lieve sulla pelle mal rimarginata.
Con il cuore in gola, fece scivolare la mano su quella di lui; baciò il secondo dito e il terzo e il quarto e una delle ferite gli lasciò un alone di sangue impercettibile su un labbro, ma nessuno se ne curò. Subaru la leccò via con la punta della lingua e mordicchiò l’indice che gli accarezzava le labbra.
Seishiro trattenne un gemito di dolore vagamente sdegnato quando Subaru succhiò lentamente il polpastrello ferito e lo lasciò andare non appena lui accennò a ritirare la mano, tirandosi dietro un sottilissimo filo di saliva. Aprì gli occhi e sentì il cuore sprofondare quando vide Seishiro sporgersi in avanti a baciargli le labbra, prima in uno schiocco secco, poi di nuovo. Stavolta, però, Subaru lo afferrò per i capelli, e Seishiro affondò nella sua bocca in un mezzo respiro strozzato.
A sentire quella specie di singhiozzo sulla punta della lingua, Subaru rabbrividì da capo a piedi; qualcosa in fondo allo stomaco gli si sciolse, e decise di prendergli il viso con tutte e due le mani per tenerselo stretto addosso prima che Seishiro cambiasse idea.
«Subaru-kun—» grugnì lui, seguendo la sua bocca mentre Subaru gettava la testa all’indietro, baciandogli a caso il labbro inferiore e il mento e il collo, senza sapere che già il suo nome stirato in cinque sillabe stravolte, come mai Subaru aveva sognato in vita sua, gli aveva sradicato di dosso quel po’ di reticenza che gli era rimasta «—che stai facendo?»
«Improvviso» gli rispose Subaru senza fiato, sbottonandogli in fretta la camicia.
«Oh-» fece Seishiro distrattamente, allentando il nodo della cravatta e artigliandogli le spalle per non farlo cadere. Cercò di sfilargli l’impermeabile, ma erano così vicini che riuscì soltanto a scoprirgli la schiena e a lasciarlo con un gomito incastrato in una manica.
Subaru protestò fra un bacio e l’altro, sollevandosi a fatica dalle sue ginocchia per gettare l’impermeabile sgualcito ai suoi piedi. Si lasciò cadere su di lui e si accorse a malapena che Seishiro gli stava sfilando i calzini e le ciabatte.
Si presero cinque secondi di pausa quando presero atto che non avrebbero avuto aria ancora per molto, in quelle condizioni.
Subaru si morse l’angolo delle labbra, che ormai tendevano al rosso scuro, tentando di dare ai suoi respiri una parvenza di contegno: a giudicare da come sentiva scottare le guance, tutto il leggendario pallore di casa Sumeragi sembrava essere completamente svanito.
Quello che lo stupiva – e continuava ad agitargli le viscere come se avesse ancora sedici anni – erano gli occhi di Seishiro, che continuavano a guardarlo fisso come se lo vedessero per la prima volta, con aria un po’ confusa. La gola gli si chiuse di nuovo, perché Seishiro gli baciò la palpebra dell’occhio destro una, due, tre volte, scivolando lungo la guancia e dietro l’orecchio, mordendo e succhiando tutta la pelle che poteva – Subaru si domandò se si potesse effettivamente morire così, perché la sua erezione spingeva con forza contro il tessuto rigido dei jeans, e non aveva esattamente intenzione di venire nei pantaloni come un ragazzino.
«Sei bellissimo—» mormorò Seishiro nel suo orecchio, schioccandogli due baci bagnati e caldissimi sulle tempie, e allora sì che Subaru dovette tenersi per non capitombolare a terra: lo stava dicendo come a sorprendersene lui stesso, con un po’ di ragionevole disappunto.
«Ah sì?» chiese, strattonandogli via la camicia e appallottolandola per lanciarla dove desse meno intralcio. Strofinò il naso e la bocca contro il suo collo – quasi dieci anni, e non aveva neppure avuto la decenza di cambiare profumo – e prese i suoi capezzoli fra i denti, strofinandovi sopra pure le dita. Seishiro lo distrasse appoggiandogli una mano sulla nuca e costringendolo a guardarlo negli occhi.
«Almeno di questo devo rendertene atto—» rise, mentre Subaru si voltava e infilava un ginocchio fra le sue gambe. Rise a sua volta – stavolta non mentiva.
«Ti credo sulla parola,» sussurrò «E del resto che mi dici?»
«Il resto non sono affari tuoi» rispose, aiutandolo a sbottonare i pantaloni.
Quando infilò una mano ad accarezzarlo sotto il cotone della biancheria, Subaru tacque all’improvviso – indugiare per più di dieci secondi sul pensiero che le cinque dita sudate che lo stavano massaggiando fossero le sue avrebbe significato venire immediatamente.
«Seishiro-san—» gemette, spingendo bruscamente il bacino contro le sue dita, appoggiato col mento contro la sua testa. La sedia vacillò, e Subaru quasi perse l’equilibrio quando, senza preavviso, Seishiro gli tolse mutande e pantaloni per prendere a masturbarlo più velocemente, senza lasciargli il tempo di respirare.
Poi, quando già il ragazzo avvertiva una scarica di piacere allargarsi nel bassoventre, Seishiro gli mise le mani sui fianchi, in silenzio, e lo tirò giù di forza. In ginocchio sul pavimento, Subaru ne approfittò per togliere la maglia, il cuore che gli pulsava nelle tempie e il sudore che gli si ghiacciava sulla pelle.
Seishiro sorrise, sbottonando velocemente i propri, di pantaloni.
«Mi stavo appunto chiedendo—» disse lentamente Subaru, poggiando le mani sulle sue, intente a far scivolare giù la stoffa «—se anche l’apprezzamento che mi era sembrato di sentire fosse una recita.»
«Cerchi di ferire il mio orgoglio?»
«Lungi da me» sorrise lui lievemente, sfilandogli tutto quel che restava da togliere.
Lo guardò in faccia per un attimo, poi abbassò gli occhi fra le sue cosce. Seishiro taceva, come a volerlo sfidare, ma Subaru sostenne la sua occhiata un po’ divertita e un po’ sarcastica.
«Sei convinto che non potrei neppure pensarci.»
«Infatti credo proprio che dovrò costringerti, dato che sei un ragazzo di buona famiglia…» disse svagatamente, togliendosi la cravatta sciolta da dietro al collo.
«Spiacente di deluderti, Seishiro-san…» rispose Subaru a bassa voce «è una qualità che ho perso da un bel po’, e non per merito tuo, stavolta.»
Espirò lentamente, leccandosi le labbra. Seishiro gli poggiò una mano sulla testa e scese ad accarezzargli la nuca e il collo. Da lì, Seishiro riusciva a vedere due grossi lividi violacei sulla schiena, ma l’attenzione tornò immediatamente a Subaru, che, guardandolo dritto negli occhi, gli accarezzò la punta con la lingua, e poi, delicatamente, con una lentezza insopportabile, cominciò a leccare verso il basso. Le cosce di Seishiro si irrigidirono nello sforzo di non sussultare, e Subaru proseguì imperterrito, con i suoi occhi che gli bruciavano la nuca, finché non lo vide imperlarsi di sudore e abbandonarsi contro la sedia, gemendo. Quando spinse i fianchi contro la sua bocca, Subaru rabbrividì, e lo prese in bocca con più piacere di quanto riuscisse ad ammettere anche a se stesso: le mani di Seishiro si contrassero fra i suoi capelli, e lui, bene attento a non fargli toccare l’ingresso della gola, lo succhiò con forza, sperando di farlo sragionare. Era in ginocchio davanti a lui e, per una volta, Seishiro non sembrava avere dalla sua tutto il controllo che voleva.
Fremette al pensiero, e lasciò la presa con la stessa placida lentezza.
L’assassino lo contemplò ad occhi sgranati.
«Subaru-kun!» esclamò, stupefatto «Sono sempre stato convinto che la tua specialità fosse il martirio!»
«Sorpresa» lo rimbeccò lui, scandendo piano mentre si alzava in piedi, vicinissimo alla sua bocca.
Seishiro lo squadrò dall’alto in basso, quasi risentito. Lo baciò come per una questione di principio, un gemito che passò di bocca in bocca quando infilò una mano fra le sue gambe e Subaru dovette aggrapparsi alle sue spalle con le unghie, seguendo senza respiro il ritmo della sua mano, mentre Seishiro si strofinava su di lui.
A un tratto, stordito dall’orgasmo che minacciava di arrivare da un momento all’altro, e indolenzito dai lividi, Subaru sentì le ginocchia cedere di schianto. Si tenne a Seishiro con forza, lasciando che lo schiacciasse contro il primo muro libero.
Respiravano a stento tutti e due.
«Guardati, sei un pulcino bagnato…» Seishiro gli mordicchiò il lobo dell’orecchio. Subaru emise un suono deliziato.
«Non hanno ceduto solo le mie ginocchia, non mentire» borbottò lui fra i suoi capelli completamente madidi di sudore.
Seishiro lo prese per il gomito, così forte da lasciare l’impronta delle sue dita, e lo tirò in camera da letto a tentoni, lasciando baci e graffi sulla pelle sudata. Lo schiacciò sul letto mezzo disfatto con un gemito gutturale di soddisfazione, la fronte contro la sua, sfregandosi su di lui con ogni centimetro del corpo. Subaru seguì il movimento dei suoi fianchi, ma Seishiro lo rivoltò con il viso sul cuscino e gli appoggiò tutto il proprio peso addosso.
«Chiedimelo» gli disse all’orecchio, un sussurro caldo e stravolto che gli sembrò sciogliesse il timpano e colasse nel sangue goccia a goccia.
Lo morse alla base nella nuca, e Subaru gemette.
«Chiedimelo, ti ho detto» ripeté, baciandogli le vertebre una per una. Era così magro che poteva sentirle sporgere sotto le labbra. Leccò via qualche minuscola goccia di sudore, in un tocco quasi impercettibile – Subaru si contorse, soffocando una supplica nel guanciale. Si contrasse ancora di più quando Seishiro rotolò in direzione del comodino e, preso il lubrificante, se ne spalmò un po’ sulle mani e lo sfiorò appena.
«Scopami,» tossì Subaru, affondando le dita negli angoli del cuscino, fino a far sbiancare le nocche.
La frizione calda e insopportabile del corpo di Seishiro piantato sul suo gli faceva girare la testa come una tortura – sentì le sue mani che lo afferravano per i fianchi in un gesto brusco, e svuotò i polmoni, ansimando, quando lo sentì scivolare in lui in due spinte secche.
Singhiozzò quando lo sentì assestarsi dentro di lui con un gemito, i suoi capelli che gli sfioravano un orecchio e il suo naso poggiato nell’incavo del collo. A fatica, Subaru prese la propria erezione fra le dita, e sobbalzò, sorpreso, quando una di Seishiro vi si appoggiò sopra e cominciò a scandirgli il ritmo. Subaru rilassò le dita e tremò alla prima spinta, il gemito di Seishiro che si perdeva fra i suoi capelli e gli faceva venire la pelle d’oca per il solo fatto di essere il suo. Non ebbe il tempo di prendere fiato, perché la seconda spinta lo fece gridare.
«Seishir—» ma il suo nome gli si annodò sulla lingua quando le spinte si fecero sempre più serrate, le dita di Seishiro che si chiudevano ad accarezzarlo con forza fino a che Subaru non sentì un’ondata di piacere lasciarlo sfinito sulle lenzuola come un colpo di grazia, insieme a quella di lui un attimo più tardi.
Esausti, rimasero uno sull’altro senza muovere un dito. Subaru non aveva neppure la forza di protestare per il dolore che si irradiava dai lividi – si limitò a sospirare di sollievo quando Seishiro rotolò al suo fianco e finse di chiudere gli occhi.
Subaru sospirò, le prime luci al neon della notte che si accendevano come lucciole inquiete attraverso la persiana.
Decise di chiudere gli occhi, anche solo per un attimo.

*

Non dormì per niente: non dormiva di fianco a qualcuno da un bel po’, e il cuore gli balzava in gola ogni volta che, aprendo le palpebre, vedeva Seishiro nudo e addormentato fra le coperte spiegazzate con la sua faccia più incolore e più seria, il respiro lieve e regolare come quello di qualunque essere umano. Quando cominciò ad albeggiare, aprì un occhio solo per rendersi conto del suo braccio pesantemente appoggiato attorno alla sua vita, bellamente ignaro dei lividi e dell’insonnia e di tutto quanto. Cercando di non far rumore, si strinse appena più vicino, allontanandosi dal filo di vento che passava dagli infissi e, aspettando il suono della radiosveglia, si addormentò.

*

«Che ore sono?» chiese all’improvviso, saltando a sedere sul proprio lato del letto e realizzando di essere sul lato sbagliato perché non aveva dormito nel suo, di letto.
«Le dieci e mezzo,» rispose Seishiro, mezzo assonnato.
Ad occhi socchiusi, Subaru cercò di capire cosa non andasse nel quadretto che gli si era presentato al risveglio – e no, non si trattava della presenza di Seishiro in sé, o del fatto che se ne stesse a letto accanto a lui, intento a leggere il giornale e fingere di indossare un pigiama.
Affatto. Nella maniera più assoluta.
«… Porti davvero gli occhiali da vista?»
«Ho perso un occhio,» rispose lui «certo che li porto. Erano un ottimo diversivo nove anni fa, ma questo non fa di me un bugiardo ventiquattr’ore su ventiquattro.»
«Tu dici, eh?» replicò Subaru, sarcastico, mentre gettava via le coperte e scivolava fuori dal materasso, tremante di freddo e pieno di dolori qua e là.
«Immagino non mi dirai il tuo desiderio.»
«Immagino proprio di no!» gli gridò Subaru dalla sala da pranzo, recuperando i propri vestiti dal disordine generale.
«Eppure ieri pomeriggio avevi giurato che non mi avresti mai concesso un appuntamento, e guarda com’è ridotta casa mia!»
«Qualcuno disse che il futuro non è stato ancora deciso. Potrebbe cambiare tutto dall’oggi al domani, per quel che ne sappiamo» recitò Subaru, piatto, mentre rientrava nei pantaloni e si riappropriava degli stivali che Seishiro aveva lasciato vicino al genkan.
«E in effetti quel qualcuno sbaglia,» osservò Seishiro «Non metterti a fare il Drago del Cielo proprio adesso.»
«La vedo un po’ difficile smettere, piuttosto, date le circostanze» gli fece notare lui, spuntando dal dolcevita e tornando in camera da letto. Appoggiò una gamba sul bordo del letto per allacciare gli stivali.
«Qualcun altro ha anche detto che il futuro della Terra non gli interessa, tuttavia. E se non gli interessa, non riesco a smettere di domandarmi per cosa combatta.»
«Non si combatte che per se stessi. Questa lezione l’ho imparata, grazie tante.»
«Ne sono lieto» fece Seishiro affabilmente.
Subaru non rispose – sbuffò nell’accorgersi di aver annodato male una stringa e si sedette di nuovo sul letto, fingendo di ignorare l’ingombrante presenza del padrone di casa dandogli le spalle.
Seishiro inarcò un sopracciglio.
«Ma tu non sei mai stato egoista.»
«Avrei dovuto cominciare anni fa» rispose Subaru, tirando i due lembi del fiocco. L’assassino alzò le mani in segno di resa.
«Ciò che non uccide fortifica, eh?»
Subaru si fermò all’istante, mentre Seishiro strisciava più vicino, forse per godersi un po’ meglio l’irritazione che Subaru sentiva salirgli dentro. Lui sorrise appena, appoggiando la testa sul cuscino, e Subaru, senza pensarci troppo, si chinò su di lui.
«E se uccide, beh…» e gli baciò le labbra senza dargli il tempo di reagire «… pazienza.»
Seishiro sbatté le ciglia.
«Cosa diav—»
Subaru, però, era già sulla porta della camera da letto. Gliela chiuse con un cenno di saluto, lasciandolo immobile, e francamente seccato, in un bozzolo di lenzuola. Sentì la porta dell’appartamento chiudersi con un tonfo pesante, poi rise, presagendo un gran mal di testa.
«Ah, i giovani d’oggi!»
Ripiegò con cura gli occhiali da vista e il giornale sul comodino. Forse, si disse, stiracchiandosi, stava invecchiando davvero.

~

A/N 8 febbraio 2012, ore 19:24. Per darvi una vaga idea di che cosa succede nel mio cervello quando mi dico “Vabbe’, dai, vediamo di imbastire un minifill per il P0rn Fest, così, senza impegno”… Aiutatemi a dire “ALLA FACCIA DEL MINIFILL” dato che mi sono uscite 12 pagine e più di MOSTRO isterico buttato giù in meno di tre giorni. Ci ho inserito tipo TUTTO quello che volevo scrivere su di loro ultimamente, dalle citazioni onnipresenti ai Placebo *indica il verso di ‘I know’ lì nel titolo e saluta* alle badilate, dalle riflessioni sulla cecità che vengono da una poesia di John Donne – shh, lassamo perde’, chiedete per delucidazioni ulteriori, se avrete mai la forza di sopportarmi – fino ad arrivare alle cose più GRAFICHE e LUNGHE in termini di sesso (e forse pure di violenza) che mi siano mai venute fuori. Certe parti non scorrono granché, ma scriverla è stato bello… Immaginate la povera Crimsontriforce e Harriet cosa si saranno dovute sorbire. E beh… Frappi cara, questa è per te ♥.

Juuhachi Go.

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