[Originale] Je meurs d’amour pour toi

Titolo: Je meurs d’amour pour toi
Personaggi: Giuseppe II, Isabella di Borbone-Parma, Maria Cristina d’Asburgo-Lorena
Parte: 1/1
Rating: NC17
Conteggio Parole: 1588 (LibreOffice)
Note: omosessualità, NSFW, angst

Je meurs d’amour pour toi

La camera di Giuseppe era cupa e opprimente. Al debole guizzo delle candele che smoccolavano nei loro bracci d’ottone, le stoffe scure e opulente che la tappezzavano prendevano una sfumatura tetra e cimiteriale, quasi presaga, rammentò con un brivido la principessa, del martirio a cui suo marito l’avrebbe condotta anche quella notte.
Isabella resistette all’impulso di guardarsi intorno come se quelle stanze non le appartenessero – perché così non era, e perché, certamente, una diversa percezione delle cose non faceva di lei una nobildonna meritevole, ammesso che il merito di una donna dovesse sempre dipendere dal matrimonio in cui veniva forzata con violenza.
Finalmente libera dagli abiti da giorno che la bardavano come un cavallo da cocchio, sola in attesa di quell’uomo distratto, Isabella poteva guardarsi nella liscia superficie dello specchio, passandosi le dita fra i capelli dalla quale la parrucca incipriata aveva abbandonato il proprio posto. Erano ancora lunghi, folti, ben tenuti: l’imperatrice d’Austria apprezzava di buon grado l’igiene, e la principessa non poteva che esserne lieta, si disse, fissando quell’involto di capelli incipriati: aveva tutta l’aria di un altro strato di superfluo con cui la moda si arrogava il diritto di soffocare una donna, per il solo scopo di renderla un gradevole oggetto agli occhi di un uomo.
Isabella abbozzò un sorriso, e inseguì, nello specchio, la domanda che aleggiava là, sotto le ciglia: il giorno seguente, lei e Mimi si erano promesse di andare a disegnare sotto gli alberi più belli del giardino. Forse il chiarore del primo mattino avrebbe reso meno pesanti e spaventosi tutti quei drappeggi, fino a lenire, chissà, almeno parte della sua infelicità. Già si udiva chiedere a Maria Cristina, fra una risata e l’altra, se per caso ricordasse il colore dei propri capelli, e se si fosse mai presa la briga di osservarli con attenzione.
Una strana domanda, non v’era dubbio, proveniente da una donna che l’intera corte austriaca, pur nella sua fascinazione nei suoi confronti, non esitava a definire peculiare.
Chiuse lentamente gli occhi, cercando genuinamente di immaginare una persona come Maria Cristina – brillante, energica, innegabilmente pragmatica e calcolatrice – con i capelli sciolti sul seno, rivestita del leggero strato di stoffa degli abiti da notte, ed ebbe la tentazione di tornare a fissare lo specchio, dato che riusciva a figurarsi l’immagine con una vividezza quantomai inusitata.
Poi, con sollievo, ricordò di essere sola, nella sfera privata e intoccabile dei suoi pensieri, verso la quale nessuno – neppure Mimi stessa – poteva tendersi a chiudere il pugno: nello spazio labile e ristretto dei suoi sogni, la sua amica si chinava sulle sue labbra in una giocosa carezza, senza imbarazzo, e senza intenzione di arrecarle offesa, in una cascata di slavati riccioli biondi, a sussurrarle, come in una poesia recitata a memoria, tutte le parole d’amore che Isabella riversava nelle proprie lettere.

*

Sua madre Luisa Elisabetta era sempre stata fredda, con lei, come se i fastosi marmi di Versailles in cui era cresciuta le avessero asciugato il calore dal corpo e dall’anima. La minore fra le sue sorelle, Maria Luisa, aveva sempre avuto in sorte un posto di favore nel suo cuore, al quale Isabella non aveva mai cercato di aggrapparsi con troppo fervore.
Aveva un vago ricordo di qualche voce malevola, nel corso della sua breve infanzia, colta nell’atto di dichiarare sottovoce che sua madre fosse “come ghiaccio fra le braccia di suo marito”.
Allora, poco di quelle parole, ad esclusione della loro musicalità e dell’immagine bizzarra che suscitavano, era riuscita a colpirla. Isabella le aveva comprese solo in prossimità del proprio matrimonio. In relazione a sua madre, era addirittura riuscita ad accoglierle con moderato cinismo, e con un’indicibile sfumatura di privata soddisfazione.
Solo adesso, tuttavia, all’ombra del monumentale baldacchino di velluto, le balzarono alla mente come un rimprovero, in tutto il loro orribile, umiliante significato.
Appiattita sul lenzuolo sgualcito – ma non troppo, onde evitare di dare a Giuseppe l’impressione di rifuggire le sue attenzioni – teneva gli occhi chiusi, calibrando il fiato respiro dopo respiro. Le mani dell’arciduca, lunghe e pallide, armeggiavano con malcelata impazienza con i lacci della camicetta di mussola. Sua moglie trattenne con sforzo sovrumano la ruga di disappunto che già si increspava fra le sopracciglia: non l’aveva già esposta a sufficienza?
Non aveva neppure il coraggio di guardare più in basso, dove Giuseppe l’aveva scoperta fino ai fianchi, per sporgersi comodamente su di lei e prendere a spogliarla con una delicatezza così tremula da lasciare intuire alla principessa tutta la propria impazienza. I suoi occhi erano così azzurri e così chiari da sembrarle due biglie vuote, ammesso che due biglie vuote avessero il potere di farla sentire così terribilmente invasa. Scivolavano a prendere nota di ogni lentiggine e di ogni porzione di pelle, tastandola con lo sguardo e il palmo delle mani, senza distanziarsi un secondo, mormorandole parole affettuose, che tanto dovevano costare a un uomo così riservato, che arrivava addirittura a definirla “la sua unica amica”, e che non si accorgeva, nell’infinito entusiasmo del proprio amore, che quei tentativi di lasciare in lei il suo frutto assomigliavano più a una di quelle cocciute incursioni che seguivano una dichiarazione di guerra.
Più volte Isabella si era ritrovata a meditare, fra sé e sé, che questo fosse uno dei motivi per cui gli uomini fossero inconsapevolmente afflitti da un inconscio, atavico peccato di presunzione, nella loro convinzione di poter forzare su una donna i loro sentimenti e il proprio ardore.
Nella mezzora che il marito le dedicava, Isabella aveva ogni volta la sensazione di assistere alla mutazione di un uomo ponderato in un animale privo di ragione.
Anche quella sera chiuse gli occhi, con il fiato che si serrava in un solo nodo alla base della gola, quando la mano di Giuseppe si abbatté fra i suoi capelli in un’aggrovigliata carezza, per poi cercare la sua bocca e fissare, invano, le sue palpebre chiuse. Quando Isabella le schiuse, quasi per istinto di carità, sentì un brivido attraversarle lo stomaco come un coltello.
Vicini com’erano, all’ombra della sua stessa fronte, come ritagliati dalla cornice del suo viso, gli occhi di Giuseppe avrebbero potuto appartenere a chiunque altro. Prima ancora che il pensiero potesse suggerirglielo, Isabella aveva già trovato Mimi nel loro fondo cristallino, e aveva modellato attorno ad essi l’ovale di un viso più morbido e grazioso, tanto che, per un attimo, dovette trattenere l’impulso di scoppiare in un pianto di ripulsa e frustrazione.
Giuseppe non vide nulla. Se vide, certamente lesse quel vezzo tutto femminile, nonché d’invenzione completamente maschile, di mostrarsi pudiche ed emozionate.
Isabella deglutì, quando lo sentì adagiarsi col capo nell’incavo della sua spalla, come se si vergognasse, e con il bacino fra le sue gambe, come se il resto del proprio corpo irridesse quello sfoggio di pudore.
Isabella lasciò che i muscoli del consorte si appiattissero contro i suoi, strofinandosi contro la pelle nuda e i merletti sgualciti della sottoveste rimasta appallottolata fra loro, e serrò gli occhi con violenza quando i fianchi dell’arciduca si aprirono la strada con una secca spinta, sollevandole il bacino.
Al primo, fugace tentativo di guardarsi attorno, Isabella non vide più di un orecchio di Giuseppe: paonazzo, gemette contraendo il viso nel cuscino.
Isabella gemette a sua volta, contraendo un suo singhiozzo e ricacciandolo indietro, mentre l’intrusione si faceva più profonda e vigorosa, interpretando il suo come un assenso. Lei voltò rapidamente il capo dall’altro lato del guanciale, e strizzò le palpebre con una forza tale da escludere anche il mesto chiarore della candela sul comodino: in quel buio fitto come l’inchiostro si sentiva sola e protetta, come se il corpo scosso da quelle spinte non fosse il suo, e l’alone degli occhi azzurri di Maria Cristina vi lampeggiasse di tanto in tanto.
Prima di allora, in ogni sua fantasia, sua cognata non aveva mai avuto un corpo: il suo viso, il suo sguardo, i suoi occhi e i suoi capelli avevano fatto parte di una dimensione innocente e irraggiungibile, in cui il fare sdegnoso e imbarazzato con cui rispondeva alle sue lettere era l’unica cosa su cui le fosse concesso di sospirare.
Eppure, quella sera, che pure era uguale a tante altre, Isabella avvertì un fiotto di desiderio insoddisfatto e inconfessabile spazzare via tutto in un’unica onda, solo all’interno di sé, nell’immaginare la stretta morbida e protettiva dei fianchi di Maria Cristina sui suoi, le carezze delle sue mani lisce, e domandandosi, allo stesso tempo, come realmente fosse il corpo che nascondeva sotto il rigido schermo degli abiti, o come la forma di quelle labbra potesse adattarsi alle sue.
E fu con rabbia, mentre il futuro imperatore d’Austria la guidava sotto le sue spinte, che si aggrappò al bacino di Maria Cristina, pregando con ogni briciola di sé che quel desiderio la avvolgesse in una sola fiamma e la sbriciolasse in un livido sbuffo di cenere, spargendola in qualunque luogo della terra, lontano da quel letto, da quella maestosa prigione rivestita d’oro e di prestigio, da quel matrimonio, da quel seme che Giuseppe cercava di lasciare in lei come il sedimento di un peccato mortale.
In silenzio, mentre Giuseppe si accasciava svuotato e pesante su di lei, per poi trarsi da un lato e abbassare le palpebre con un sospiro, Isabella tornò ad osservare la fiamma della candela che si dibatteva alla corrente d’aria di uno spiffero come una mosca sotto una campana di vetro.
Un giorno, penso, recuperando la camiciola con mani tremanti, anche lei avrebbe avuto in sorte la propria liberazione.
Fino ad allora, non le rimaneva che aspettare.
Con un rapido soffio, la principessa spense lo stoppino.

~

A/N 3 giugno 2010, ore 23:14. Qualcuno, alla fine di tutto questo, dovrà santificare Fiorediloto molteplici volte. Ciò detto, per chi non avesse letto l’altro racconto che ho scritto su Isabella di Parma, questa deliziosa ragazza (1741 – 1763) sposò a diciotto anni Giuseppe d’Asburgo-Lorena. Di spiccata intelligenza, sensibile e colta, era costretta in un matrimonio infelice, vessata da una corte troppo rigida e formale. Oppressa da depressione e desiderio di morire, si innamora perdutamente della prima figlia di Maria Teresa d’Austria, Maria Cristina, una delle sue cognate, l’unica che considerasse sua amica, e morirà di vaiolo nel 1763, cinque giorni dopo aver dato alla luce la sua seconda bambina, che morirà nel giro di poche ore, e a cui Maria Cristina farà appena in tempo a dare il proprio nome. Giuseppe, che mai si accorse della passione di sua moglie per sua sorella maggiore, e che era sinceramente innamorato, riceverà, dopo la morte di Isabella, un pacchetto da parte di Maria Cristina contenente le duecento lettere d’amore che sua moglie le scrisse nell’infelice lasso di tempo di quelle nozze. L’unica figlia che sopravvisse a sua madre nacque prima di una lunga serie di aborti, ma morirà di polmonite nel 1770. Giuseppe si risposerà con l’odiata Maria Josepha di Baviera nel 1765, dopo essere diventato imperatore. Isabella è sepolta nella Cripta dei Cappuccini senza che il suo corpo fosse stato imbalsamato, per esplicito ordine dell’imperatore. Alla luce di quanto avete letto, mi sembra superfluo raccontarvi che Isabella vivesse il sesso e il concepimento come un peccato, povera piccola, e che le lettere che scrive alla cognata sono bellissime ç_ç! Il titolo viene proprio da una di queste. Per quello che volevo raggiungere, questa storia è venuta fuori più cruda e fastidiosa di quanto mi fossi preventivata, e, come al solito, scrivere di Isabella mi fa un male cane. Aggiungiamoci pure che le scene di sesso scritte così mi mettono l’angoscia XD…

Grazie a tutti per aver letto, e grazie a Fiorediloto per avermi supportata, sopportata, e per aver bacchettato questo raccontino quando è stato necessario <3.

Juuhachi Go.

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