Pretty Piece of Flesh

VII. HEART-SHAPED

La ragazzina lo tirò per un braccio in una stanza e chiuse lo shoji con agitazione.
«Pant...» esalò, appoggiando le spalle al fragile pannello di legno e carta, senza caricarlo però con il proprio peso. Subito dopo alzò gli occhi su Seishiro. Un verde lampeggiante, maturo, fiero. Era così uguale e dissimile a quello che lui vedeva in Subaru da stringergli l'anima in una morsa.
«Stai bene?» boccheggiò poi, ancora intorpidito dal disordinato susseguirsi degli eventi.
«Uhm... a parte il trucco che prude dannatamente, sì.» assentì Hokuto, gettandosi quasi a peso morto su uno dei cuscini sparsi sui tatami, anche se il pesante kimono in velluto blu, su cui sfavillavano piccole stelle intessute d’oro e un caotico intrecciarsi di dragoni dei più svariati colori, rappresentava un ostacolo non indifferente. Avrebbe dato qualunque cosa per levarsi di dosso quel coso e quel pastrocchio dalla faccia: erano passati mesi da quando era diventata una maiko, ma non riusciva ancora a farci il callo.
« Come mi hai riconosciuta?» le venne appunto in mente. « Non era tanto facile!»
Nulla da obiettare al riguardo, considerò, a quel punto, l'uomo. I lunghi capelli di lei erano stati stretti attorno alla testa in bande lucenti, con una certa pomposità che non stonava affatto con l'eccentricità caratteriale di chi la portava. Tuttavia, ammise Seishiro a se stesso, era oltremodo inquietante pensare che quel tifone in gonnella si fosse fatto crescere i capelli fino a farli arrivare a una simile lunghezza, quasi quanto lo era rendersi conto che, sotto il viso bianco come ceramica, sotto il cuore scarlatto delle labbra dipinte, sotto la linea delle sopracciglia vi era il viso della ragazza che conosceva, il viso in cui guizzavano i grandi occhi anomalamente occidentali, primaverili. Sotto l’inutile sfoggio del kimono, una sequela di strati di stoffa, Seishiro sapeva si celava l’angolosa vitalità di una ragazzina.
«Andiamo, Hokuto-chan... non ci sono molti occhi verdi in Giappone o, almeno, non come i tuoi e di Subaru!» Sorrise debolmente, accomodandosi di fronte a lei.
«Hai finalmente conosciuto mio fratello?!» scattò la giovane, con gli occhi illuminati dalla gioia
«Ehm. Sì. Me lo sono sempre immaginato della stazza di un giocatore da basket, e invece… » tossì l'altro con imbarazzo.
È quanto di più caduco e fuggevole potessi immaginare. Subaru si nasconde ai tuoi occhi se non lo accogli completamente fra le tue mani, Subaru ha un sorriso che non si sa mai distendere completamente, perché ha paura che anche la sua stessa felicità potrebbe dare fastidio.
Io l’ho tranciata di netto. L’ho spazzata via dal suo sguardo, ho spento il brillio dei suoi occhi.
E non è come il tuo, Hokuto-chan, perché non continua a splendere per sempre.
Il solo fatto di vedergli una lacrima è un insulto che ti pesa nella mente.
Avrei dovuto provare a innamorarmi di te, Hokuto-chan…

«E sta bene?» lo interruppe l’interlocutrice
Seishiro non rispose.
«Seishiro Sakurazukamori, ricordo benissimo che quando ti si annodava la lingua facevi pensare alle peggiori catastrofi.» sentenziò Hokuto, con l'inflessione di un rimbrotto. Benedetta ragazza, acuta come uno spillo, con la memoria di ferro.
«Credevo fossi morta.» scandì lui, con aria seria.
Hokuto sbuffò. Vecchio furbastro, sviava il discorso! Tuttavia, la ragazzina evitò di farglielo notare.
«Legalmente sì, lo sono.»
«... eh?»
«È quello che credono tutti. Io mi sento in perfetta salute, eheheh! Per seguire Subaru, la cosa mi è convenuta.»
«Non ti seguo.»
«Immagino. Ogni tanto mi perdo anch'io...»

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«Riechan? Sei tu?»
«Sì.».
Riconoscendo la voce della ragazzina, Hokuto aprì la porta per lasciarla entrare insieme al vassoio con tre tazze da the, una teiera e alcuni taiyaki.
Subaru era rimasto immobile davanti alla finestra, scrutando con apparente pigrizia all'esterno.
Rie spostò lentamente lo sguardo da un gemello all'altro, poi lasciò il vassoio su un tavolo, aspettando che la signorina Sumeragi rompesse il silenzio.
«... Subaru, rimanendo ad esitare, non combineremo un bel niente.»
«Non posso e non voglio mettere in pericolo te o qualcun'altro, Hokuto-chan... Deve esserci una soluzione migliore!»
«Non c'è. A parte l'okiya, non ce ne sono, di soluzioni.»
«Il che significa che siamo in trappola. Come farai a seguirmi? Sai meglio di me che la sorveglianza è fitta e...»
«Troverò il modo, Succhan. Dovessi cominciare a vestirmi di grigio!».
Subaru rise. Rie rimase a guardarli, scostandosi una ciocca dei suoi capelli neri dal viso.
«Piuttosto...» mormorò Hokuto, con un sospiro pensoso «... non avrai mica ricominciato a saltare i pasti?»
«Ehm...» Subaru si ritrasse con cautela davanti agli occhi iniettati di sangue della gemella, che non perse tempo.
«Riechaaaan!» cinguettò la ragazza. La giovane domestica si catapultò al fianco della Sumeragi con un largo sorriso, estraendo un blocchetto dalla grande tasca del grembiule. Le due immobilizzarono Subaru, incuranti dell'aumentare di volume delle sue proteste, per cominciare a indagare su un sospetto calo di peso. Il ragazzo, al primo tentativo, si arrese al test delle ragazze: inutile ribellarsi, dopo che l'avevano schiavizzato per sedici, lunghi anni. Quel giorno non aveva voglia di resistere poi tanto alle loro torture. Ancora qualche giorno e... Subaru dubitava che avrebbero avuto un'altra occasione di stare insieme come al solito.

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«Non riesci a dormire, eh, Hokuto-chan?»
«Ungh... no.» ammise l'altra ragazza, versando il the nella tazza di ceramica e sedendosi al tavolo della cucina senza aggiungere altro. Rie la imitò.
«Io non ce l'ho, l'idea, Riechan. Subaru ha ragione. È impossibile uscire da qui, siamo praticamente blindati... ma io devo trovare un modo, non posso permettere che mio fratello finisca in mezzo alla strada mentre io sto chiusa in un okiya a fare da mantenuta forzata, eh no. Non siamo i giocattoli di nessuno.».
L'altra ragazza, attorcigliando una ciocca di capelli attorno all'indice, rimase ad ascoltarla. Hokuto fissò il liquido scuro che arroventava la ceramica, poi fece un primo, lento sorso.
Strana ragazza, Rie. Non parlava granché, tuttavia la Sumeragi si era adattata e, sul quel timido silenzio, aveva deciso di gettare le basi della loro amicizia, un'amicizia resa duratura anche grazie alla comune intesa nell'iperproteggere Subaru.
E Subaru le lasciava fare.
Sbadigliò sonoramente e si sorresse la testa con una mano, appesantita dal sonno e dal premere quasi fisico che tutte quelle sue preoccupazioni esercitavano su di lei.
Rie sospirò.
«Vado a letto, per adesso.» biascicò Hokuto
«Mh, buona idea.» assentì Rie. Rimase a fissare la ragazza che camminava lentamente nel corridoio, inghiottita dalla densa oscurità.
Le piante dei piedi le si erano praticamente congelate a contatto con le mattonelle, ma lei non si mosse. Ricordò le spalle fragili di Hokuto quando era bambina... quante volte avevano giocato a rincorrersi fra quelle pareti, insieme a Subaru. Fra quelle stesse che stavano, adesso, soffocando tutti e tre.
Non erano più bambini.
E non erano nemmeno adulti.
Però sembravano adulti.
Avrebbero voluto esserlo, per affrontare quella situazione senza dover confabulare in casa propria come traditori, quando invece erano i traditi.
Sarebbero stati liberi, altrimenti.
E lei li avrebbe salvati.
Tutti e due.

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Non aveva nemmeno incrociato Rie per un'intera giornata, suppose, quindi, di aver motivo di preoccuparsi. La continua tensione di quella casa la portava a stare sempre sulle spine, a pensare al peggio.
Non poteva permettersi di perdere l'unico viso amico, lì dentro.
Si strinse nella pesante vestaglia e cominciò a salire le scale, diretta in camera sua.
Non aveva voglia di lasciare Subaru da solo, per quanto sapesse che, oramai, era capace di cavarsela.
Però... mancava così... poco.
Si chiese quando avrebbe potuto abbracciarlo ancora, col cuore leggero.
Si chiese che cosa avrebbero fatto a quell'ora, il giorno seguente.
Sentì le coperte di suo fratello muoversi nel momento in cui captava il lieve strascicarsi delle pantofole sul pavimento. Hokuto accese l'abat-jour.
«Subaru?» bisbigliò con discrezione, sollevando un lembo della spessa trapunta.
«Mh?» Subaru non dormiva, la guardò con i suoi occhi limpidi e liquidi. Sentì la tristezza smuoversi nel petto come acqua.
«Posso stare qui?» farfugliò, non senza vergognarsi un po'. Dannazione, lo stava proteggendo! Non era il momento di fare la femminuccia anemica!
Suo fratello si scostò annuendo, per farle un po' di spazio, cosicché la ragazza poté rannicchiarsi in quella confortevole porzione di materasso e abbracciarlo con quel fare materno e insopportabile.
«Dormi adesso. È tardi.»
«Stavo dormendo.»
«Non è vero!»
«...»
«Spengo.»
«'Notte...»
L'interruttore scattò.
Hokuto abbassò le palpebre, inutilmente, accomodandosi alla meglio. Era certa che Subaru non fosse sveglio, aveva il respiro pesante e regolare di chi è saporitamente addormentato. Non aveva idea di come potesse riuscirci, tuttavia pensò che l'irremovibile spirito di rassegnazione di suo fratello avesse avuto la meglio su quella parte di lui che tentava disperatamente di opporsi a quanto di orrendo accadeva nella sua vita.
Alla morte dei genitori, era passato molto tempo perché Subaru potesse piangere, convulsamente e in pace, una sola volta.
Sentì i secondi scivolare pigramente nel buio della notte.
Qualche sporadico scricchiolare della finestra.
Il vento.
Il traffico.
Passi.
Un vociare confuso di ragazzini ubriachi.
Parecchio di quel tempo senza dormire passò così, prima che - con sua grande sorpresa - fosse capace di avvertire un lieve rumore di ciabatte farsi sempre più vicino.
«Hokuto-chan!»
«Rie?» respirò lei, mentre la domestica la faceva scivolare giù dal letto, lasciando il gemello immerso nel sonno. I piedi scalzi della Sumeragi scalpicciavano freneticamente sul parquet, producendo un suono pressoché nullo, trascinati dalla frenesia di Rie che la conduceva verso il primo bagno e chiudeva la porta.
Accese la luce.
Hokuto chiuse gli occhi.
E li riaprì.
Non disse una parola, solo, semplicemente, sfiorò le punte dei capelli di lei che, adesso, toccavano solamente la metà della guancia.
«Che cosa...?»
«Voi due pensate a salvarvi.»
«No.»
Ed ecco che Hokuto diventava volitiva, irremovibile. Era il suo modo di scacciare i timori, lei che più di tutti amava le persone che le erano intorno. Si induriva per escluderle all'improvviso dal cerchio luminoso del suo amore, per correre da sola qualunque rischio.
Rie sorrise con semplicità mentre Hokuto rimaneva in silenzio, anche se fu per poco.
«Hai... hai i capelli tagliati proprio come i miei.» mormorò, infatti, senza espressione. La domestica annuì con un lieve cenno e quella ragazzina dai grandi occhi verdi, all'apparenza fragile come un uccellino, le vietò di nuovo di mettere in atto qualunque cosa avesse in mente di fare. Ignorandola, Rie le chiese quale fosse, nel suo armadio, l'abito più comodo da indossare, ma non ottenne risposta.
«Non puoi!» proruppe poi la Sumeragi
«Infatti, non è che posso... devo.»
« Perché vuoi correre un pericolo del genere? Non devi...»
«... preoccuparmi per quella che é la mia famiglia? Se non continui a curare una pianta quando ne ha bisogno, non sbocceranno mai i fiori.»
Hokuto non si prese nemmeno la briga di assentire.
«Subaru uscirà dall'ingresso con l'accompagnatore, io farò finta di volerlo raggiungere e, nel frattempo, tu scapperai dal retro e andrai insieme a lui.» espose l'altra, freddamente. Quando la sua interlocutrice rialzò la testa, i suoi occhi traboccavano di lacrime, senza che nessuno dei suoi lineamenti puerili si contraesse, poi tese un braccio verso l'amica e la abbracciò, singhiozzando pesantemente, come una bambina che si aggrappava con i pugnetti alla sottoveste di una madre che usciva di casa. Rie non le disse niente, si limitò ad una carezza affettuosa e rattristata.
«Torna a dormire. Domani sarà una giornata pesante.»

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Lo fu, senza alcun margine di dubbio.
Era di piombo, quando scivolò fuori dal piumone che avvolgeva lei e il fratello come un caldo, umido baccello. Sul viso di Subaru, un sonno profondo, ma l’angolo del labbro lasciava intravedere un lieve fremito, come un accenno delle pulsazioni di un topo. Inginocchiata di fronte all’armadio, Rie stava afferrando una vaporosa gonna rossa e un corpetto decorato con nastri i cui colori stridevano clamorosamente fra loro. Nessuna delle due ragazze parlò, nel momento in cui riuscirono a guardarsi negli occhi.
Dal canto suo, Hokuto cercò di non esistere, mentre si preparava alla fuga: scivolava fra le stanze come un’ombra, fino a che non riuscì a intrufolarsi nella tuta. Dallo sgabuzzino in cui si era nascosta, poté sentire Subaru che veniva svegliato. Lo vide attraversare il corridoio, le labbra strette, una scintilla vigile nello sguardo.
Bravo ragazzo.
Inflessibile.
Sgattaiolò fuori dal nascondiglio quando suo fratello fu pronto, davanti alla porta, al cospetto della nonna, seguita da qualcuna delle sue guardie personali. Appiattita contro la parete, il cuore che le pulsava con veemenza nelle orecchie, ascoltò con terrore i passi di Rie, il crepitare sgargiante di tulle e nastrini.
«No!» la sentì opporsi, modulando accuratamente il tono di voce e facendo per slanciarsi contro Subaru, il quale, riconosciuta la ragazza da sotto il buffo copricapo, riuscì comunque a simulare la stessa opposizione mentre due bodyguards afferravano Rie per le braccia e la sospingevano all’indietro. Il viso di Subaru si contrasse, si sarebbe catapultato ad aiutare l’amica, se un omaccione nerboruto non si fosse frapposto fra loro.

Questa stupida…!

Una tensione simile a un mattone scese violentemente nello stomaco di Hokuto. Abbandonò il muro che l’aveva schermata, con cautela, senza allontanarsi da quell’angolo d’ombra, determinata a tirare l’amica d’infanzia fuori dai guai. Che diavolo le era saltato in mente, aveva intenzione di rimanerci—
Poi, vide.
Due uomini spinsero fuori casa Subaru e il suo accompagnatore con indubbia malagrazia, precludendo loro la vista di ciò che avevano di fronte, mentre, in quella misera manciata di secondi, uno dei due gorilla che impedivano a Rie di inseguire Subaru, aiutato dal compagno, estraeva la beretta munita di silenziatore.
Senza rumore, senza un grido. Dietro la nuca.
La vide cadere sulle lussuose piastrelle del pavimento, accompagnata da un fiotto denso e rosso, una patina di stupore paralizzò le pupille in un’espressione di vitreo, sgomento orrore.
«Questa non è Hokuto.» scandì la signora Sumeragi in tono asciutto, sollevando il cappello dalla testa del cadavere ancora caldo.
«Mia nipote è morta in un tragico incidente questa mattina.» comunicò poi, dopo un momento di pensieroso silenzio
«Ma—»
«Al resto penseremo poi.»
Dal suo precario rifugio, la ragazza si tappò la bocca con una mano, frenando un gemito o un singhiozzo, poi si precipitò verso l’uscita sul retro, imponendo alle sue gambe di staccarsi dal suolo.
Sollevare, flettere, sollevare, flettere, sollevare.
Il sangue sul pavimento.
Senza nemmeno un pigolio.
Come una delinquente.
I suoi capelli inzuppati di rosso, gli occhi aperti, le labbra appena socchiuse, come a voler rantolare il suo nome.
Non voleva che quel sacrificio si vanificasse.
Strofinò via le lacrime che fluivano dagli occhi con forza, fino ad arrossare il viso, calandosi il cappuccio sulla testa. Aveva via libera, essendo tutta la sicurezza concentrata attorno alla nonna.
Aveva l’impressione che ogni cosa su cui poggiava lo sguardo fosse di quel rosso dilagante e liquido, quel rosso come un pugno negli occhi, nel cuore.
Rie non avrebbe mai smesso di fissare il punto in cui Hokuto l’aveva vista morire.
Mai, mai, mai.

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Nessuno gli aveva chiesto perché mai non parlasse, cosa per la quale Subaru non poté fare a meno di sentirsi sollevato. A calci, fuori da casa propria. Aveva intravisto le mani di Rie protendersi invano verso di lui, le stesse mani che, quand’erano bambini, lo trattenevano per la salopette e lo facevano rotolare a terra con malagrazia, per poi spostarsi, pentite, sui suoi capelli, per accarezzarglieli. Una coccola materna che solamente Hokuto e Rie gli avevano elargito senza reticenze. Lo avevano circondato col loro calore paradisiaco, iridescente, l’avevano immerso nel colore tenue e puro della loro stima e della loro protezione. Avrebbe ricambiato tutto questo senza sottrarsi, apparentemente, ai progetti dei suoi aguzzini. La ponderatezza, aveva imparato, dopo anni di attrito fra i suoi genitori e la parte più conservatrice della famiglia Sumeragi, era il primo passo verso una vendetta minuziosamente studiata, che avrebbe provveduto a sistemare ogni tassello… e, soprattutto, avrebbe salvato ciò che di più importante gli era rimasto.
Ma se Hokuto si arrischiava a proteggerlo… la razionalità sfuggiva, l’oggettività perdeva il suo perno, e tutto diventava un intricato rincorrersi di scorciatoie e passaggi secondari per non nuocere a lei.
Per salvare loro, quei due cicloni con la gonna.
L’angolo più tenero e compatto del suo universo.
Tirò un sospiro.
Anche durante il viaggio in treno, il suo sorvegliante continuava a vegliare su di lui, palesando indifferenza e, nonostante tutto, curiosità nei suoi confronti, compatendo, probabilmente, l’indole remissiva del giovane rampollo che tentava quasi di nascondere la propria silhouette ossuta nel liso sedile, cercando, forse, di dormire e dimenticare.
Dormire e dimenticare.
Prima, aveva visto sua sorella allontanarsi fra la gente, per poi salire nascostamente nel vagone.
Gli aveva detto che tutto sarebbe andato bene.
Gli aveva parlato di casa, di sorrisi, di giorni in cui avrebbero potuto essere felici.
Con una piccola, persistente ombra sul dolce incurvarsi delle labbra.
Con una sfumatura nera negli occhi.
Dormire dormire dormire.

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Un uomo finiva melanconicamente la sua sigaretta floscia.
Un altro scrutava con altrettanta cisposa tristezza il fondo della bottiglia di birra oramai vuota.
Hokuto distolse gli occhi dal patetico, derelitto duo.
Tokyo non fu benevola con lei.
Il vento le tirava con violenza il cappuccio della felpa, scarmigliandole i capelli e arrossandole gli occhi.
Chiamarlo a telefono sarebbe stata una vera e propria imprudenza, dato che sua nonna si era resa conto dell’inganno e, molto probabilmente, anche della sua assenza. Non ci avrebbe messo molto ad intercettare un qualunque contatto telefonico.
Il sangue di Rie si era di sicuro rappreso sulle preziose, rilucenti piastrelle di marmo dell’ingresso, mentre lei cercava di far sorridere Subaru, sussurrandogli di gioia e felicità prossime, trattenendo la verità in fondo alla gola.
Gliele aveva promesse e avrebbe fatto di tutto per offrirgliele, pensò, allontanandosi dalla stazione. Si fermò solamente in prossimità di un taxi, e poi di un angusto, scricchiolante hotel in stile occidentale nei paraggi dell’appartamento che Seishiro preferiva più di ogni altro nei momenti in cui desiderava troncare, con qualche scusa, il suo contatto con quel mondo di costrizioni.
Il che accadeva quasi sempre, constatò lei, con un lieve sorriso.
Non lo vedeva da molto tempo, nonostante le capitasse non di rado di avere sue notizie, cosa normale, essendo la sua famiglia una di quelle che da più di qualche secolo facevano parte del più stretto entourage della famiglia imperiale. Non poteva negare che il clan Sumeragi stesse attraversando un periodo di decadenza prevalentemente economica e che questo avesse avuto ripercussioni anche sui suoi rapporti con la cerchia reale - se non formalmente, di certo dal lato pratico - , tuttavia, grazie al proprio rango elevato, la sua casata riusciva a fare ugualmente in modo di rimanere al centro dell’attenzione e di avere notizie del resto dell’aristocrazia.
Di Seishiro, l’attuale erede del clan Sakurazukamori, Hokuto conosceva tutti i più recenti sviluppi.
Sapeva che era finalmente riuscito a sposarsi.
Ne conosceva i livelli squisiti di cortesia e quelli vertiginosi di… vigliaccheria, sì.
Sapeva che continuava a evitare la folla, come aveva sempre fatto.
Sapeva che era decisamente contro l’istituzione matrimoniale, perché il suo, di matrimonio, era di sicuro uno dei più vantaggiosi, ma era ben lontano dall’essere felice e… a dire il vero, molte di queste cose le sapeva perché conosceva Seishiro come Seishiro, così disastrosamente se stesso, sotto quella patina di sagacia e sfrontato splendore, capace di slanci, ma fondamentalmente egoista. Fondamentalmente pessimista. Fondamentalmente notturno.
Fondamentalmente solo.
Non le avrebbe rifiutato un favore del genere.
Cliente “di punta” di parecchi bordelli e case da the, era forse l’unica persona, a parte Rie, che capisse quale importanza avesse per lei il poter garantire, dopo la morte dei genitori, una serena stabilità alla propria famiglia, che comprendeva quel fratello così carino e gentile che Seishiro non aveva – stranamente – mai incontrato, ma di cui sapeva, grazie a lei, così tanto.
Erano stati giorni divertenti, quelli.
Quelle passeggiate – scarpinate – interminabili, a suon di battute e argute chiacchierate. Non sarebbe mai nato niente fra loro due, cosa che alla famiglia non interessava, tuttavia Hokuto non poteva dirsi infelice al riguardo: in lui vedeva un interlocutore promettente e un carattere esilarante. Sebbene quello non fosse affatto il tipo di cui avrebbe potuto innamorarsi, la condivisa avversione per il rigido protocollo e per gran parte di tutte quelle rocambolesche manovre di potere aveva instaurato fra loro un’empatia migliore dell’amore coniugale, concetto forse troppo estraneo a entrambi.
Probabilmente, tutto si era velocemente sfaldato proprio per questo motivo. La loro complicità fu effettivamente inquadrata come una minaccia dal clan Sumeragi, che si mosse immediatamente per stroncarla alla base.
Fu sua nonna, la più austera, vetusta rappresentante della famiglia a fare il primo, minaccioso passo per screditare sua nipote.
E lo ricordava, Hokuto, quel giorno. Lo ricordava come una delle più grandi umiliazioni che le fossero mai state inflitte.
Era da sempre stata grande amica di chiunque vivesse sotto il suo stesso tetto, ogni collaboratore domestico era degno di una parola gentile o scherzosa, di un abbraccio, o di una qualunque manifestazione d’affetto, per quanto le riguardava. I “legami troppo stretti con la servitù” vennero ingigantiti fino a divenire “compromissione” da parte di un giovanetto che lavorava a casa.
Seishiro ebbe le mani legate, dal momento che l’anziana donna, allo scopo di “prendere provvedimenti”, non si era rivolta a lui in persona, bensì al gruppo di assistenti che, com’era di tradizione da secoli nel clan Sakurazukamori, erano stati scelti dal suo predecessore affinché vegliassero su di lui. In quanto tali, godevano di un’inviolabilità indiscussa che si rifletteva anche in ambito decisionale. L’istantaneo annullamento di ogni preparativo riguardante quel fidanzamento che Hokuto attendeva da tempo giunse alle orecchie della ragazza e di Seishiro come un diktat di cui nessuno dei due osò sfidare l’entità.
Setsuka Akai fu, secondo i funzionari che Seishiro avrebbe dato volentieri in pasto a un branco di leoni, la scelta più congeniale. Fra i suoi pregi, il primo a saltare all’occhio era certo un’ineffabile, ultraterrena bellezza che nessuno aveva mai potuto riscontrare in nessun’altra ragazza. Quello per cui era stata accuratamente selezionata era, però, quello della sua remissività davvero fuori dal comune, che l’avrebbe resa un grazioso soprammobile al fianco di un uomo brillante e intraprendente.
Un simile matrimonio-fantoccio non era stato in grado di cambiare le preferenze di Seishiro in fatto di locali di intrattenimento, ragion per cui Hokuto non aveva dubbi che le avrebbe dato man forte, in nome della vecchia amicizia e di quella cicatrice che bruciava ancora a tutti e due.
Distendendosi sul letto molliccio di quella camera smunta, riuscì a ritrovare un sonno sereno dopo molto, molto tempo, forse anche più di quanto ricordava.

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Si svegliò di buona lena, carica di fiducia e pervasa dal paradisiaco tepore di un sonno goduto appieno.
Era pronta per fare colazione, quando, all’improvviso, rimase pietrificata sulla soglia del salone.
Merda, merda, merdissima merda!
Avrebbe dovuto saperlo.
Avrebbe dovuto come minimo immaginarlo!
Gli ubriaconi stravaccati alla stazione la sera prima stavano attraversando la sala, diretti verso di lei. A differenza di quando li aveva visti per la prima volta, i volti erano perfettamente sbarbati e privi di incuria, gli abiti lindi e stirati.
L’attimo di esitazione che le raggelò i muscoli durò un secondo solo.
Cautamente, retrocesse in direzione del corridoio tappezzato di un orrendo lilla stinto, poi velocizzò il passo, fino a slanciarsi in cerca di una qualunque uscita o dannata fessura che potesse aiutarla a tagliare la corda. Quelli procedevano con tutta la tranquillità del mondo e riuscivano a restarle comunque alle calcagna.
Esultò nel vedere la porta di servizio stagliarsi di fronte ai suoi occhi. Si sospinse con tutta la propria forza su di essa e si precipitò lungo la ripida scala antincendio, esterna all’edificio. Il vento le mordeva la pelle e, nonostante le scarpe da ginnastica, i piedi scivolavano sui gradini di alluminio con troppa facilità. In quello stesso momento, avvertì la scaletta tremare sotto il peso di uno dei suoi inseguitori, il quale le afferrò un laccio alla base della felpa e tirò, in modo da sbilanciarla.
Inveendo fra i denti, Hokuto chiuse gli occhi, aspettando solamente di tagliarsi una volta che il viso avesse raggiunto il bordo metallico del piolo sottostante… cosa che non accadde: un braccio robusto la afferrò per evitarle il tragico impatto e, suo malgrado, la ragazza si ritrovò costretta al dietrofront, senza risparmiare però un susseguirsi di violenti calci che, oltre a non andare a segno, non l’aiutarono affatto a divincolarsi.
Quando la riappoggiò a terra, l’energumeno non smise di stingerle il polso, fino a che, una volta fuori dall’albergo, non la chiuse in macchina.

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Seishiro rimase a fissare Hokuto con aria concentrata, mentre questa faceva una pausa e, con un’occhiata preoccupata, lo osservava passarsi nervosamente una mano fra i capelli.
«L’okiya in questione è sotto la giurisdizione della mia famiglia.».
Seishiro annuì, serio.
«Questo significa,» riprese la voce di lei «che la mia situazione di “persona scomoda” mi relega al solo stato di maiko, senza che nessuno paghi per il mio mizuage.»
«Il che è un bene, dato che almeno la tua verginità uscirà intatta da questa storia.» considerò l’uomo, con un piccolo sorriso. Pur arrossendo, Hokuto si ricordò dell’ingrata sorte toccata a Subaru. Poi, guardò Sakurazukamori dritto negli occhi.
«Seishiro-chan?»
«Eh?»
«… Non credi che la sfortuna di Subaru sia relativa… dal tuo punto di vista?»
«Co-Come fai a scherzare su una cosa tanto delicata? Ma c-cosa…»
«Suvvia. Non sei mai stato il tipo che non sa stare agli scherzi.»
«Mi fanno impressione i tuoi capelli!»
«Seishiro!!»
«Donna impossibile…»
«Indefesso defloratore…»
«Cosa?!»
«Sei-chan, chi è stato il primo amante di mio fratello?» sondò la giovane
«Non io. Ero a Kanazawa, all’epoca.»
«È un vizio, defilarti quando servi, anche nei bordelli!»
Seishiro la osservò, stralunato, per un attimo.
«Spero almeno che avrai riparato dopo, con un po’ di gentilezza!»
Suo malgrado, l’uomo si lasciò sfuggire un sorriso nel ricordare la fiducia con cui quel corpicino fremente si lasciava andare completamente fra le sue braccia, sensibile a ognuna delle sue carezze.
«Oh, sì, quella…»

Tu… sapevi… tutto…?

«… non è mai mancata.» concluse, mentre l’ilarità sulle sue labbra si dileguava così come era spuntata all’improvviso
«E cos’era, a mancare?» azzardò la ragazza, una sfumatura materna nella voce.
Rimanendo in silenzio, Seishiro scostò la frangia dagli occhi.
«Hai continuato a sorridere quando Subaru aveva voglia di piangere, posso benissimo immaginarlo. Lui è sempre stato così, e nemmeno tu cambierai mai. Subaru non si getterà piangendo fra le braccia di nessuno, fino a che non si annienterà da solo, precipitando a capofitto all’improvviso, senza alcuna avvisaglia di cedimento apparente, mentre tu ti intestardirai ad ignorarne anche il più piccolo segnale. Lui non si farà mai scorgere sull’orlo del precipizio, se prima non lo afferrerai per la giacca e gli dimostrerai di essere una solida alternativa. Non cambiare espressione, davanti a lui. Rendilo degno delle tue debolezze, se vuoi che lui faccia ugualmente. Salvati da te stesso, se hai intenzione di salvarlo, altrimenti lui si farà silenziosamente carico di tutte le tue titubanze e ne verrà schiacciato senza darti nemmeno la possibilità di rendertene conto. Se lascerai che le cose precipitino fino a quel punto, poi non avrai nessuna speranza di porvi rimedio. E tu tieni a Subaru, non è vero?»
«… Hokuto-chan.»
«Uh?»
«Dobbiamo uscire tutti quanti da qui.»
«… Così mi piaci!»
«Bene.»
«Perfetto!»
«…»
«…»
«… Ehi.»
«Mh?»
«Pensi che dovremmo dire a Subaru di quella faccenda del fidanzamento?»
«Con la dovuta cautela, sì.»
«Dici che potrebbe restarci male?»
«Lo credo bene! Pensa a come sarebbe stato facile, sarei stata l’unica moglie che avrebbe coperto volentieri una tresca di mio marito con mio fratello!».
«…Ma sei davvero una povera ragazzina angustiata dalla prigionia?»
«Ohohohohohohoh!»

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Sbirciò attraverso la ringhiera e, oh, dopo tutte le descrizioni fotografiche che si era dovuto sorbire, lo riconosceva eccome, anche in una stanza poco illuminata come quella.
Imprecò, preoccupandosi di non farlo a voce alta. Dall’altra parte della stanza, seduto su un divanetto, riconobbe Subaru, la sua fragile fisionomia di cardellino, che certo quintali di pizza surgelata non potevano provvedere a rinforzare. Soprattutto se si ostinava a mandare giù meno cibo del necessario. La solita maglia sbracciata, in microfibra, l’aveva sostituita con una dalle maniche molto più lunghe, per coprire i vari sfregi che erano ancora impressi un po’ dappertutto. Aveva lo sguardo fisso su un acquario pullulante di pesci tropicali e, a detta di Kamui, una volta che si fosse girato, sarebbe stato già troppo tardi, e Sakurazukamori gli sarebbe già stato di fronte.
Al momento, quest’ultimo si stava facendo strada fra gli avventori seduti ai tavoli, stravaccati sui divani e intenti a vezzeggiare qualche ragazzino dall’aria volgare. Subaru concentrava la sua attenzione sui riflessi luminosi dell’acqua, facendo sfoggio di una sensuale, angelica, triste indifferenza. Non se lo ricordava così evanescente, adesso era proprio un piccolo, fuggevole spettro, minuto e innocente, esposto alle occhiate dei frequentatori dell’ “Angels”. La linea delle sue spalle, ruotate per permettergli di osservare la variopinte creaturine che volteggiavano nella vasca, aveva una parvenza più spigolosa, infantile, il braccio appoggiato sullo schienale ostentava uno stanco rifiuto a muoversi.
In tutta quella sgargiante esibizione delle grazie altrui, Subaru altro non era se non acqua di sorgente, fresca, incolore, splendente. Non si meravigliava della curiosità che gli era rivolta.
A lui, che dimostrava meno dei suoi sedici anni, che dava l’impressione di non potersi reggere sulle ginocchia se si fosse sollevato da lì.
A lui, che custodiva quella luce strana e meravigliosa, quella scintilla, quel modo di fare saggio e gentile. La sua consolazione per tutto, era.
Ma… ma guardatelo.
La cosa più familiare del mondo.
Nello stesso istante, Kamui era disceso di volata lungo la rampa di scale, sperando di mettere in guardia l’amico sulle intenzioni del boss.
«Kamui? È tutto a posto?».
Fuuma era giusto di fronte a lui.
«S… sì, perché?» sospirò il ragazzo, appoggiandosi con una mano alla ringhiera. L’altro non gli rispose e volse lo sguardo verso il miglior cliente del locale, improvvisamente tornato all’ovile.
«Ma guardali.».
Quasi sorrideva mentre Kamui seguiva la direzione impostagli da quegli occhi, occhi che gli rappresero il sangue nelle vene.
«Immagini cosa potrebbe accadere se Subaru Sumeragi, svenduto da Sumeragi Senior a un bordello, riuscisse a uscirne, amore mio?».
Nessuna risposta, se non la sfumatura più mesta e bambina nell’espressione di cristallo turchese.
Seishiro appoggiò la mano sulla piccola spalla, palmo grande, avvolgente, pesante, su ceramica sottile.
«Ciao.»
Nel tenue riflesso sul vetro, vide l’angolo delle giovani labbra contrarsi mentre il basso saluto scivolava giù, nella microtenebra irregolare del timpano.
Coraggio, Sakurazukamori. È solo un ragazzino. Solo il tuo ragazzino. Prendi fiato.
«Posso sedermi qui?»
Ottimo.
«Non sono in condizione di rifiutare, nemmeno se me lo intimassi.»
«Credi sarei capace di farlo?»
Subaru si inumidì le labbra
«…Non lo so.».
La sua mano si estese fino ad accarezzargli e ad abbracciargli lo sterno e a tirarlo in piedi con un unico gesto e mai avrebbe pensato di avvertire il solito groppo in gola.
Ma…
Erano le sue braccia.
Le sue.
La loro stretta impossibile da rifuggire. Il cerchio infrangibile delle sue lusinghe.
Gli strinse amorevolmente la vita di per metà del tragitto in corridoio, i passi esitanti di Subaru con i suoi. Accostò appena le labbra al suo orecchio:
«Hokuto-chan è viva.».
Conosceva bene la sensazione orrida di Subaru che si ritraeva al suo tocco e gli sfuggiva fulmineo, piantandogli quel suo stiletto verde nel respiro. Era in procinto di ribattere, ma Seishiro lo trascinò all’interno di una camera, per poi chiuderne fragorosamente la porta.
Il ragazzino si ostinava a rimanere a bocca aperta, ad esaminarlo come non aveva mai fatto prima, mostrando, insieme, incredulità, diffidenza, delusione.
«Perché dovrei crederti?» domandò, all’improvviso, e la sfumatura di sdegno che pervadeva il suo tono di voce divenne un’inflessione tangibile e pesante, al cospetto della quale Seishiro non diede segni di cedimento.
«Perché l’ho vista, nella casa da the Dai-ichi.» scattò, prima che il ragazzo potesse esporgli tutti i motivi per cui ritenerlo indegno della sua fiducia. Effettivamente, le sue parole riuscirono ad arginare quelle di Subaru, che tacque. Conosceva la Dai-ichi come uno dei possedimenti familiari fuori Kyoto.
«Siediti, Subaru-kun.».
Nulla si mosse.
«Pensi che la tua rivelazione sia di una portata tale da mettermi KO? O magari, temi che potrei farmi venire una crisi di nervi se tu dovessi uscire coraggiosamente fuori da questa stanza?»
«Sono qui proprio perché non intendo farlo.»
«Sei qui perché sei come tutti gli altri.»
«Subaru.»
«Cosa succederebbe al buon nome della tua famiglia, se io smettessi di concederti le mie grazie? Andresti a sfogarti su quella bambina che hai a casa? O su chiunque si pieghi alle tue voglie?» proruppe, attingendo coraggio dal modo in cui l’uomo aveva omesso il suffisso dal suo nome. Qualcosa lampeggiò negli occhi di Seishiro, un nanosecondo dorato, durante il quale Subaru sentì le dita di lui circondargli imperiosamente il polso. Obbedendo – a malincuore – alla breve irruenza di quella pressione, il suo corpo si ritrovò disteso sul materasso.
«N-non voglio essere un giocattolo. Non per te. Non posso.» articolò, tentando di ignorare il dolore prodotto dalla mano di Seishiro che si sfregava inconsapevolmente su un ematoma, sotto la manica della maglia.
Stupido, li avrebbe visti comunque, non appena l’avesse spogliato.
Con quello sguardo penetrante, una colata d’oro e fuoco sulla sua realtà, capace di scrutare, forse, anche la più insignificante delle sue pulsazioni.
Probabilmente, in quel momento, stava proprio cercando di cogliere chissà quale particolare. Non sembrava nemmeno che respirasse.
Scese su di lui.
Il suo viso, si avvicinò al suo con una lentezza innaturale, come se ogni evoluzione di quel tranquillo, deferente movimento fosse intralciato da un velo.
Fino a che Subaru non poté riconoscerne le labbra che si poggiavano sulle sue senza pretese.
Forse Seishiro non si aspettava nemmeno che ricambiasse il bacio.
Ma lentamente, timidamente, Subaru separò le labbra, irrigidendosi quando una mano di lui si allargò sotto la sua maglia, le dita che accarezzavano, inconsapevolmente, gli sfregi sulla pelle.
Si morse piano l’interno del labbro inferiore, le palpebre abbassate, mentre Seishiro lasciava la presa sulla circonferenza sottile del polso e sollevava completamente il tessuto che aderiva alle costole di Subaru. Mentre questi veniva attraversato da un fremito di vergogna, l’uomo alzò lo sguardo - serio, grave, turbato – verso di lui, restando chino sulla linea agile del suo stomaco, Subaru poteva sentire il suo respiro solleticarlo.
«Subaru, cosa è successo?» chiese, senza smettere di fissarlo.
Sentendosi quasi in colpa, il ragazzino voltò il capo per non incrociare di nuovo la sua espressione. La seconda occhiata di lui volta allo sfregio perpetrato sul suo corpo, una costellazione cianotica, fu avvilita, lenta.
Con sollievo, sorpresa, dolore, il ragazzo avvertì le labbra del suo amante premersi, taumaturgiche, leggere, su ognuno dei segni bluastri che gli invadevano la pelle.
Calore.
Fastidioso, dolce calore nelle sue ossa infreddolite.
Gemette lievemente, scivolando fra le mani di lui e inarcandosi quel poco che fu sufficiente a Seishiro per liberarlo dei vestiti.
Lo scempio aveva un’ampia, violenta propaggine. Non c’era angolo di Subaru che non fosse illividito dalle botte.
«Che ti hanno fatto.» sussurrò lui, svestendosi completamente e portandoselo più vicino, un combaciare quasi lancinante. Una sillaba di tenera, arresa sofferenza si stiracchiò con ritrosia nel palato dell’adolescente. Dapprima sembrò voler rifiutare le attenzioni che gli erano rivolte, ma una sua mano dietro al collo di Seishiro incoraggiò questi a sovrastarlo delicatamente, ad aggirare la sua clavicola con un filo sottile e umido di baci, ad indugiare con la punta della lingua nel centro dello sterno, per seguirne il disegno fino al confine della biancheria. Sollevando cautamente la schiena, il ragazzo si aggrappò a lui, la guancia contro i suoi capelli e la mano di Seishiro che si intrufolava a lambire attentamente il suo desiderio. Subaru lo sentì sussurrare qualche frase gentile dietro l’orecchio, ma non ne afferrò appieno il senso, gli occhi semichiusi e virtualmente concentrati sul muoversi languido di quei polpastrelli attorno a lui. Soffocò un singhiozzo contro la sua ampia spalla.
«Ho sperato che tu tornassi in tempo.» mormorò. Non seppe mai se la sua affermazione fosse collegata a ciò che Seishiro gli aveva sussurrato poco prima, ma non se ne curò.
Voleva solo dirglielo, i sensi in bilico nel suo palmo, come sempre, nonostante tutto gli dolesse paurosamente.
«Giuro» respirò Seishiro, tracciando, con la bocca, un percorso invisibile dalla mandibola di Subaru fino all’angolo delle sue labbra «che a quello gli stacco i testicoli e glieli ficco nella trachea.».
Sentì il ragazzo ridere appena mentre lo baciava, invadendogli completamente la ragione.
Il suo sapore.
Fu un fiotto di sensazioni che lo bombardarono a raffica, tutte precipitosamente marchiate con il suo nome. Si rimescolavano con ostinazione, collidendo l’una contro l’altra, mentre Subaru, – Subaru Subaru Subaru e ancora Subaru – scivolava a intrecciare le proprie dita a quelle che lo circondavano, fino a lasciarlo senza fiato.
«Seishiro-san.» inspirò frettolosamente il ragazzino, sentendo il tocco del suo amante ritrarsi gradualmente, fino a che non riuscì a sfilargli i boxer, un suo braccio che si cingeva disperatamente attorno al collo e l’abbraccio delle sue ginocchia sempre più serrato.
«Oh, Subaru, non essere stupido, potresti-».
Oh, non poteva.
Percepiva in ogni ansito quanto i muscoli del ragazzo fossero eccessivamente sotto sforzo.
Non poteva, avrebbe preferito morire morire morire morire lì, piuttosto che…
«Vieni qui, non lasciarmi... io…»
«Subaru…»
«… non voglio più…»
«… shh…»
«… io… Seishiro-san…»
«Sono qui.»
«… mh…»
Era lui.
Dolcemente, in silenzio, in un dilagante capovolgersi delle sue percezioni, un’esecuzione netta e fulminea del suo respiro, mentre, messo da parte un minuscolo, iniziale scrupolo, Seishiro si immergeva in mezzo alle fiamme. Subaru lo accolse con un sussulto di dolore che si disfece in liberazione una volta che le spinte di lui, sempre più incalzanti, esplosero a fondo nel suo corpo, una per una.
Seishiro sprofondò nel materasso.
Con un gesto quasi casuale, invitò il ragazzino a riposare con la testa sul suo torace, le dita che gli arruffavano pigramente i capelli.
Sentì la guancia di lui contrarsi sul petto, in una breve metamorfosi. Con un singhiozzo, il ragazzo si accartocciò disperatamente in un abbraccio, piangendo senza freni.
Era sempre uno spettacolo ben strano. Incrociò le braccia dietro le scapole delicate, lasciandolo accoccolare a sé.
«Domani ce ne andiamo. Ho un appartamento qui a Tokyo. Non ho alcuna intenzione di lasciarti qui, esattamente come non ho intenzione di lasciare tua sorella a fare la maiko per tutta la vita.» borbottò, mentre Subaru si metteva a sedere, il lenzuolo di lino sulle ginocchia nodose, un braccio attorno alla spalla di lui.
«Sai,» riprese Seishiro, sorridendogli con un accenno di malinconia «avrei dovuto sposare Hokuto-chan. Non mi sorprende che tua nonna non ti abbia detto niente, considerato il clima ostile di questi ultimi tempi… Pensavo, proprio quando l’ho rivista, che, se il matrimonio fosse andato a buon fine, avrei potuto incrociarti tranquillamente tutti i giorni di tutta la mia vita, senza sapere niente di te.»
Il sedicenne si distese prono su di lui, fissandolo.
«Quindi, sapevi che Hokuto-chan ed io siamo uguali?»
«Davvero lo siete? Confesso che è molto difficile rendersene conto, una volta oltre la superficie.» rispose lui, con tranquillità.
Subaru riappoggiò il capo spettinato su Seishiro, con un’espressione felice e un po’ sciocca sul viso.
Gran parte della tristezza che gravava su di lui se n’era andata.

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«Non mi rispondi, Kamui-chan?».
No, affatto, ebbe voglia di replicare il ragazzino. Il tono melenso era stato sempre il più pericoloso, fra quelli che Fuuma impiegava in sua presenza.
«Mh?» fece, semplicemente, osservando il lento librarsi del fumo dalla sigaretta che il ragazzo stringeva fra le dita.
«Te l’ho chiesto prima. Sai che succederebbe se Sumeragi riuscisse a uscire da qui, dopo una così segreta e succulenta trattativa con la mummia che mi ha appioppato il guaio?».
Kamui rimase in un eloquente silenzio.
«Te lo dico io.» scandì, schiacciando – sbriciolando – la cicca nel portacenere. Cominciò a camminare a passi placidi e sicuri da una parte all’altra della stanza.
«Mettiamo che la potenza – non è la stessa di prima, ok, ma c’è – del clan si ingegni per insabbiare tutto l’ambaradan, quale pensi sarà la prima cosa che sarà fatta? Beh, l’ “Angels” verrà cancellato dalle cartine di Tokyo e nessuno salirà più su per il tuo bel culetto, Kamui. E questo significa rovina. A parte questo, che ci mettono quelli per demolire me e cancellarmi dalla faccia della Terra, rivelando chi è e cosa fa davvero Fuuma Monou? Non sono nemmeno maggiorenne, e tu sai qualche piccolo particolare al riguardo. Quindi, mi dispiace, io capra e cavoli non li rischio, per il succhiacazzi imperiale. Sai che solo tu puoi cavare di bocca al moccioso quello che lui e il Principe Azzurro hanno in testa.».
Si arrestò, per guardare il sedicenne in viso. Non tradiva alcun particolare sentimento, gli occhi erano quelli duri che Fuuma stesso aveva plasmato, complice la suprema indolenza nei suoi confronti e quella capacità innata di riuscire a indirizzare il cuore di Kamui ovunque desiderasse.
«E poi…» sussurrò, suadente, avvolgendo le piccole spalle di lui col suo braccio, le labbra contro il suo orecchio «… tu lo faresti, per me. Vero?».
Ed era quello, il modo in cui quello sguardo cristallino si riusciva a disciogliere completamente ai suoi piedi.

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Poco ci mancava che Subaru si mettesse a cantare qualche canzone alla melassa.
Oh, per l’amor di Amaterasu, che gli risparmiassero almeno questa.
«Ehi. Tutto a posto?» si informò, mettendosi a sedere sul letto. Con un morbido ‘plonf’, Subaru gli fu accanto. Aveva due guance rosse come mele e non riusciva a cancellare il sorriso che, partendo dagli occhi - che quasi brillavano di vita propria - gli schiudeva le labbra senza via di scampo. Chiunque, guardandolo in faccia, avrebbe capito che tutto era molto più che a posto.
«Ahhh.»
«Sì, risparmiati le onomatopee e sii uomo, da bravo.» sbuffò l’amico
«M-mia sorella. È viva, è alla Dai-ichi, e Seishiro-san… lui ed io, l’andremo a prendere. A prendere, Kamui-chan.»
«Oh… Cosa?!»
«Lui… lui ha un appartamento a Tokyo, potremo stare lì, tutti e tre. Da domani. E…» proseguì, pervaso da una scarica di adrenalina che aveva riportato in vita il Subaru frizzante di cui Kamui aveva sempre sospettato l’esistenza.
Per un attimo, si chiese se fosse davvero giusto prenderlo e gettarlo via, così.
Fu abile a non far trasparire il dubbio, lo nascose nel profondo dei pensieri e continuò a seguire quella cronaca della futura vita felice del compagno di stanza.

Lo faresti, per me. Vero?
Per me.

Me.

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«Sono nella stanza in fondo a sinistra, nel corridoio di lato all’acquario. O meglio, dovrebbero essere.»
«Ottimo.»
«Qui» gli disse freddamente, estraendo un bigliettino spiegazzato dalla tasca dei jeans «c’è l’indirizzo della casa da the. Qui invece c’è quello dell’appartamento, non si sa mai.»
«Grazie. Ti amo.» mormorò Fuuma, assorto nel leggere gli indirizzi.
Per un attimo, Kamui attese, invano, di essere almeno guardato negli occhi.
Alzandosi dalla poltrona, Fuuma uscì dall’ufficio, nel quale ritornò qualche minuto dopo.
«Andiamo.» decretò, asciutto.

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Note… 28 Dicembre 2005, ore 21:53. Rie © me, ok. No, non vi chiedo scusa per avervi lasciato a bocca asciutta per *ehm* quasi quattro mesi XDDD, ma vi avevo avvisati. Beh, però, cavolo, ne avrete fino in primavera, questo non è un lungo capitolo XD, è IL lungo capitolo XDD!
Cascasse il mondo, il prossimo sarà quello conclusivo è___é
Un grazie infinito in primis a Michiru, che mi ha illuminata in merito alle mie lacune gigantesche il fatto di cultura giapponese (le maiko sono, infatti, delle “geisha-bambole”, ragazzine cariche di ornamenti e vestite, rispetto alle geisha, di kimono molto più appariscenti e pesanti. Il loro unico compito è sorridere all’uomo di turno, ed avere con lui la stessa funzione decorativa di una bambola. Povera Hokuto.), liz, (^********^), Milako (l’illustratrice ufficiale, la mia insostituibile Raffaella *___*, OH, SORELLA! *^*) e zia Harriet ^___^ per il loro sostegno, i loro consigli, la loro infinita pazienza, il loro amore per questa storia. E grazie a Caska e ad Arianna, soprattutto perché loro questa fic non la leggono affatto, ma mi hanno comunque aiutata ad eliminare parecchi fronzoli.
Oh, e avete notato, i Pucci erano quasi IC.
Quasi.
Come al solito, io so benissimo come rovinare il tutto XDDD.
Vabbè, ci vediamo alla fine, chissà quando…

Juuhachi Go.