VIII. LIGHTS ARE LIT
Quando
Seishiro tacque, Subaru sentì gravare su di sé tutta l’indifferenza
che gli aveva salvato la testa per mesi. Il torpore che aveva avvolto i suoi
pensieri, immunizzandoli contro ogni orrore di quel lungo periodo, subì
un tracollo colossale al solo sentire nominare Rie abbinata a uno sparo in testa
esploso in silenzio, quando gli occhi di Subaru erano ancora fissi sulla porta
di casa sprangata, le braccia ancora debolmente protese in avanti nell’atto
di offrire una salvezza che non avrebbe giovato a nessuno.
Gli sarebbe bastato girare una maniglia, per guardare gli occhi vuoti di un
cadavere che fissavano il sangue per terra.
Il suo stomaco si contorse e frenò il macabro spettacolo. Nello stesso
momento in cui Subaru si sentì sommergere da un’ondata di nausea,
Seishiro gli pulì delicatamente le guance col palmo della mano.
Era arrivato a non accorgersi nemmeno di quando stava piangendo. Presa coscienza
di quelle lacrime che bruciavano sulla faccia, cercò di recuperare un
qualche frammento di Rie bambina che scorrazzava per andare a nascondersi nell’armadio
di noce al secondo piano, un grosso armadio occidentale intarsiato e pesante,
che era stato buttato via anni fa, perché i tarli lo avevano consumato
quasi del tutto. Come avevano fatto poi a trovarla? Tutt’a un tratto,
Subaru scoprì di non ricordare.
Poi c’erano i calzini. Quelli inconfondibili, quelli di merletto con le
perline bianche che Rie aveva cercato di mangiare quando aveva due anni, glielo
aveva detto mamma. Erano comunque calze troppo grandi per lei, ed erano state
riposte per quando sarebbe cresciuta.
Di che sapevano gli onigiri che Hokuto le aveva insegnato a preparare per il
loro compleanno di tre anni fa? Dovevano avere un sapore disgustoso, perché
papà li aveva sputati senza farci quasi caso. Tutti ne avevano riso,
compresa lei, scuotendo i capelli lunghi, lunghissimi.
Era stato bello.
Stare vicino a loro e dire menomale.
«Subaru.»
Gli risposero dei singhiozzi convulsi.
«Subaru, guardami negli occhi.»
Stava piangendo così disperatamente che aveva la vista appannata.
Si rese conto che sì, Seishiro era davvero l’unica cosa che voleva
guardare.
Lui aspettò che si calmasse.
«Che poi,» recuperò la voce come un pulcino uscito dall’uovo
e sistemandosi, a gambe incrociate, un po’ più lontano da lui «non
mi sono mai aspettato di guarire solo perché ieri sera abbiamo fatto
l’amore.»
Seishiro non gli chiese perché mai avesse cambiato argomento all’improvviso.
«Ho dovuto fare sesso con così tante persone, fino a che non sei
tornato. Quando mi hai steso sul letto non potevo dirti di no, perché
in quella stanza tu eri un cliente.»
Lui non rispondeva.
«Non passerà tutto così in fretta. Né quello che
è successo a Rie, né quello che è successo a me. Me lo
continuavo a ripetere anche ieri. Non passa con una carezza. Ma…»
Per un attimo, lo guardò e lo vide serio, anche se cercava di trattenere
un piccolo sorriso di incoraggiamento.
«… a me piace fare l’amore con te. Tu… cioè…
è una cosa banale da dire, ma… il tuo corpo, è incredibile
sapere a memoria come ti muovi, come mi tocchi, e sapere che è così
che io voglio essere toccato, e da te. E questo perché, a prescindere
dal sesso, sei una persona fantastica. Tu… tu sei brillante, intraprendente
e dolce, e ti preoccupi, e mi guardi sempre come se sapessi tutto di me e…
e infatti sai tutto. Sei un’intellettuale, ma ti interessi di tutto, sei
abituato a gironzolare per il mondo e a fare amicizie, io invece sono sempre
così impacciato… Ti confesso che a volte mi sento stupido. E mi
sento un grande egoista quando penso che la maggior parte del tuo tempo l’hai
passata con me, perché non mi dispiaccio nemmeno un po’. Mi piace
tutto di te. Tutto, senza esclusioni, e voglio…» si interruppe per
cercare le parole giuste.
Seishiro lo guardò con un sorriso mesto. Aveva già dimenticato
che lo aveva lasciato solo tutto quel tempo, solo perché gli era sembrata
la soluzione più comoda per eludere il disprezzo che si aspettava da
parte sua.
«… insomma, ti è mai capitato, durante la giornata, di fare
certe cose e di pensare a una certa persona dicendo “Oh, chissà
cosa starà facendo adesso”, o “Dobbiamo provare a fare questa
cosa insieme”, o “Quando arriverà dovrò dirgli questo
e quest’altro” e di pensarla sempre, e di sentirti felice pensandoci?»
Seishiro non diede segno di voler rispondere. Subaru si morse il labbro. Lo
sguardo poggiato su di lui era comunque intenso.
«Beh…» il ragazzo prese un respiro «Quella persona…
voglio essere io.» concluse. Della voce del ragazzino che tremava come
una foglia non c’era più traccia. Adesso vibrava limpida come lo
stillicidio di una sorgente. «Io non scapperò, Seishiro.»
No, non aveva dimenticato. E ricordava senza biasimo.
Sentì il cuore affondargli fra le costole quando si accorse di non riuscire
a vedere il limite dell’amore di Subaru. Era come uno spazio assoluto
che si estendeva in tutte le dimensioni e si avvolgeva sempre e comunque attorno
a lui. Gli diede un lieve buffetto sulla guancia e vide le dita sottili che
gli trattenevano la mano. Sorrideva a testa bassa.
«No, non mi tirerò indietro, questa volta, che dipenda o no da
me,» decise, convinto. Guardò Seishiro e gli strinse la mano con
più forza «perché se non proteggo io le persone che amo,
non ci sarà nessuno a farlo al posto mio.»
Dimmi
qualcosa.
Dimmi che ce l’hai con me perché ti ho lasciato solo.
«Subaru.»
mormorò, accarezzandogli la guancia con il pollice. Si avvicinò
lentamente.
«Mh?»
«Scusami per essere stato così codardo.» e, silenziosamente,
premette le labbra sulle sue, un bacio che durò un attimo, lieve, morbido.
Era da tanto, tanto tempo che non si davano più un bacio del genere.
Subaru spostò le coperte, ma, prima che potesse scivolare nel loro abbraccio,
si sentì sollevare: schiacciò il viso contro il petto di Seishiro
e si lasciò adagiare fra le lenzuola, con lui che continuava a tenerlo
stretto, come a chiedergli scusa.
«Domani andiamo a prendere Hokuto-chan.» parlò nei suoi capelli.
Subaru giocherellò con le sue dita.
«Sì.»
«Buonanotte.»
«Anche a te.»
_+_
La
mano di Kamui premeva sulla bocca di lei. Guardava, correndo, le spalle di Fuuma
davanti a sé e non osava pensare alla ragazza che si agitava contro di
lui, al viso che replicava spudoratamente ogni singolo tratto di quello del
fratello, addolcendolo ancora di più.
Il pesantissimo, sgargiante kimono di lei si dibatteva nel silenzio rarefatto
e spettrale di quella zona di Tokyo. C’erano solo i loro passi, il frusciare
di un obi e grandi, furiosi occhi verde smeraldo, labbra che cercavano, imprecando,
di mordergli le dita.
Chissà, forse Subaru avrebbe potuto guardarlo in quella maniera, non
appena si sarebbero rivisti.
Guardò l’acconciatura lucente e carica di ornamenti di lei, di
sfuggita, per paura di incontrare la condanna di quegli occhi. Il più
grande fermacapelli era un grosso pettinino carico di fiori finti, che tintinnava
ad ogni passo, perché collegato a degli stupidi lacci pieni di gingilli
e campanellini. Provò a tirarlo, ma lei mandò fuori un grido arrabbiato,
allora Kamui decise, in alternativa, di sfilare qualcuno degli accessori meno
rilevanti. Con un piccolo rumore, si lasciò alle spalle prima uno, poi
due, poi tre, quattro fermagli, in una variopinta scia di ricercatezza femminile
che strideva con il… contesto del quartiere.
La schiena di Fuuma si era allontanata senza guardarsi indietro. Kamui accelerò
il passo, inspirando ed espirando. Erano ore che correvano così, senza
fare una pausa, lui col peso riluttante della ragazza e l’altro che andava
fiero davanti a loro. Finalmente l’"Angels" si spalancò
nel vicolo come un’oasi meravigliosa.
Il ragazzino vide Fuuma varcare l’ingresso e in un lampo affondò
le dita nei capelli di lei per strattonare il pettinino. Prima che Hokuto potesse
gridare, la sua lustra parrucca nera, corredata di ornamento, giaceva sulla
soglia.
La sospinse dentro senza prestarle attenzione, fino a farla atterrare su un
divanetto. Fuuma sovrintendeva senza battere ciglio e senza fare commenti sul
fatto che la ragazza mostrasse, adesso, i suoi capelli naturali, corti e certamente
meno agghindati della parrucca.
Aveva le labbra strette e il fuoco negli occhi.
_+_
Guardò l’orologio elettronico che lampeggiava sul quadrante dell’auto.
Accese la radio. Qualche chart gracchiò attraverso le casse in un brusio
fastidioso.
La spense e guardò Seishiro, che tamburellava nervosamente con le dita
sul volante, gli occhiali da sole calcati sul naso e le mani che cercavano il
pacchetto di sigarette con una tensione spasmodica. Tutti e due avevano dormito
poco quella notte, tenuti svegli da un’impazienza che assomigliava più
all’ansia che alla gioia: dopotutto, portarsi via una maiko non era cosa
da poco… soprattutto se quella in questione si attirava le antipatie di
un parentado ricco, potente e vendicativo.
Sapevano che, così come l’impresa poteva riuscire perfettamente
senza intoppi, allo stesso modo avrebbe potuto trattarsi di una cosa tutt’altro
che semplice. E questo era un ostacolo davvero grosso.
Seishiro si teneva pensosamente il mento con la mano. Aveva rinunciato alle
sigarette.
Certo, entrambi sapevano che se si vociferava che Hokuto non era tornata all’okiya,
e se Yuzuriha, quella maiko graziosa, l’aveva confermato davanti a loro,
la colpa poteva essere solamente di Fuuma, abituato a fare il proprio comodo
fra okiya e bordelli. Infatti, erano famose le violente ritorsioni - di cui
era quasi sempre il mandante - nei casi in cui questo fantomatico diritto
gli era stato negato.
Per lui, prendere Hokuto era uno scherzo.
Subaru incrociò le braccia, nel gesto di difendersi da un freddo immaginario,
sebbene i raggi del sole - se non caldi, almeno tiepidi - luccicassero dal vetro.
Accortosi di quell’ombra scura scesa sul viso di Subaru, Seshiro allungò
una mano verso i capelli e glieli scompigliò amorevolmente, poi su chinò
tutto verso di lui.
Gli baciò la fronte con una cautela quasi infantile.
«Ehi.» mormorò «Non fare quella faccia buia, io Tokyo
la conosco bene. E se vuoi sapere la mia,» e certamente Subaru lo voleva
«qui c’è qualcosa che non va. Perché Fuuma dovrebbe
rapire Hokuto? Io personalmente ci vedo una sola ragione…»
«Sì,» lo precedette lui, cupo «quello vuole noi, altrimenti
non avrebbe senso. Su questo non ci piove. E Fuuma ha la capacità di
arrivare esattamente dove vuole.»
«E se lui non avesse voluto stanarci…» proseguì Seishiro
«… avrebbe rapito Hokuto con molta più discrezione, e le
voci si sarebbero diffuse meno in fretta. Lui non è uno stupido. Ci metterei
una mano sul fuoco, lui le persone giuste per porre un freno alle dicerie su
questo rapimento le conosce sicuro. Ma è noi che vuole.»
«Esattamente.» capitolò l’uomo «Questo vuol dire
che sa che noi non lasceremmo mai Hokuto nelle sue mani. Quindi…»
«… quindi vorrà sicuramente che ci facciamo vivi per venire
a salvarla.»
«E non avrà certo intenzione di farci scervellare e di perdere
tempo prezioso per farcela cercare.» fece una pausa per riprendere fiato.
«C’è un solo posto ovvio dove possiamo trovarla.».
Era la frase che Subaru si aspettava.
«L’"Angels".»
«… Okay, Subaru. Allaccia le cinture. Andiamo.»
_+_
«Almeno
vedi di fare piano con quei lacci! E prega che non sia successo niente a mio
fratello, altrimenti giuro su Dio che sono capace di ammazzarvi a mani nude
a tutti e due!» ruggì Hokuto, senza ottenere risposta. Il ragazzino
che l’aveva immobilizzata sul divanetto strinse i nodi con più
forza, rivolgendo verso di lei due occhi di un azzurro cristallino, occhi che
la guardavano attentamente, con un distacco velato di una malinconia appena
percepibile.
Lei distolse lo sguardo e si guardò intorno, quello era proprio il piano
bar di un locale molto, molto ampio e pieno di corridoi, a giudicare dai passaggi
che intravedeva. Di sera doveva essere affollato. Una rampa di scale sembrava
portare al piano di sopra. Oramai non aveva dubbi, l’"Angels"
era il bordello dove era stato chiuso suo fratello per tutto quel tempo. Forse
lo era ancora. L’eventualità la terrorizzava, perché questo
significava che Seishiro aveva fatto un’altra delle sue vigliaccate, o
magari gli era successo qualcosa e… e…
Rumore di passi. Il ragazzo si voltò. Hokuto, che poteva guardarlo negli
occhi, scattò, sebbene fosse tenuta ferma da legacci robusti e dal nastro
adesivo.
«Tu!»
Lui la degnò di una smorfia sprezzante.
«Tu sei il pezzo di merda che ha preso mio fratello per una merce, tu
e quell’altra stronza di mia nonna!»
«È intelligente, la ragazza. E sentiamo, come l’hai capito?»
Hokuto indicò il suo compare «Lui non ha la faccia da leader.»
fece, impassibile.
«Mh.» assentì lui, con una risatina di scherno verso il compagno,
che non avanzò commenti
«Perché non le hai bendato gli occhi per non farle vedere dov’è?»
disse solamente, pacato.
L’altro tizio arricciò le labbra in un sorriso tagliente che rendeva
sgradevoli i lineamenti sensuali del viso
«Non preoccuparti, Kamui-chan. Voglio solo che veda suo fratello prostrato
appena lui e quell’altro cercheranno di venirle a parare il culetto. Perché
sai, signorina Sumeragi… a proposito di culetti, credo che a Subaru questo
lavoro non stia molto scomodo… come dire, lo trovo un tipo che fa proprio
divertire. Chiedi a Sakurazukamori Seishiro, che penso che in questo momento
si starà divertendo fra le sue cosce!» e derise il disgusto che
alterava il volto della ragazza.
«Chissà se tu sei una di quelle maiko che passano il tempo a quel
modo… possibile, visto che sei sua sorella!» finse di riflettere,
con una nota di viscida cattiveria nella voce. Hokuto non aveva mai desiderato
così tanto avere le mani libere. Sarebbe finita in galera senza rimpianti.
Si morse appena il labbro, schiacciandolo forte fra i denti per non reagire
alla provocazione. Non avrebbe potuto fare granché, ad ogni modo.
Nonostante la situazione, poteva almeno essere sicura che Subaru e Seishiro
erano vivi.
E lei era l’esca che li avrebbe messi con le spalle al muro.
Sperò con tutto il cuore che stessero scopando.
«Beh,» rispose lei, sardonica «mi dispiace deluderti, ma,
a differenza tua, io non ho bisogno di aprire le gambe per guadagnarmi da vivere.
Mi basta un bel kimono.»
«Oh, credo che ad aprirle faresti una migliore figura…»
«… Tu invece, resti un figlio di troia comunque.» sentenziò
lei, che cominciava a perdere il controllo.
Il sorriso del ragazzo si allargò e divenne melenso.
«… Quanto credi che possa metterci a tirare fuori un coltello e
a tagliarti la gola?»
Hokuto non era abituata ad abbassare la testa davanti alle minacce.
Lui la osservò con alterigia.
«Ma credo che farò il bravo… per adesso.»
_+_
Fuuma
si accese una sigaretta.
Kamui guardò il flaconcino di cloroformio che aveva in mano, poi lo mise
via e si allungò sul divanetto, le gambe appoggiate sul tavolino, le
mani intrecciate dentro la nuca e gli occhi fissi sul nastro di fumo che si
librava dalla sigaretta.
Tic tac tic tac.
Orologio del cazzo… prima non faceva tutto questo rumore.
Lui aveva sonno e fuori c’era il sole, era una bella giornata.
Subaru era fuori ed era vicino, Kamui ne era sicuro. Era già pronto a
sentirsi dare dello stronzo.
Hokuto, legata sul divano a fianco, aveva la testa reclinata da un lato, immersa
in un sonno profondo e innaturale, il sontuoso kimono stropicciato che stava
male con i capelli, scialbi a confronto. Fuuma non era stato affatto contento
quando aveva scoperto Hokuto narcotizzata, questo gli avrebbe impedito di mostrarle
la vittoria schiacciante che già pregustava.
Lei aveva lo stesso profilo di Subaru, spiccicato.
Non avrebbero dovuto portargli via l’unica possibilità di essere
felice.
Fuuma aveva già tolto troppe cose a lui. E lui non aveva detto niente,
solo sì.
Sì.
Ogni volta.
Qualunque cosa fosse, l’aveva fatta col suo nome sulle labbra.
Ma Subaru… Subaru no.
Loro non erano uguali: Subaru aveva altre possibilità fuori dall’"Angels".
Aveva un posto.
Lui no.
Guardò Fuuma spegnere la sigaretta in un posacenere.
Il suo mondo finiva lì.
Si alzò dal piccolo sofà e andò ad avvolgergli una spalla
con un braccio.
Non poteva fare altro.
Avvicinò i polpastrelli alle labbra di lui e, seppur con distrazione,
Fuuma glieli baciò lentamente, mentre, con la stessa calma, Kamui immergeva
le dita dell’altra mano alla base dei capelli pieni di gel. Con un dito
gli accarezzò la nuca. Perplesso, Fuuma cercò di voltare la testa
verso di lui, ma Kamui gli trattenne il viso fra le mani e appoggiò le
labbra sulle sue, per poi scivolargli di fronte.
«Fuuma, scusami.» parlò, quasi nella sua bocca. Non sapeva
cosa stesse facendo. E Fuuma non sembrava preoccuparsene, esigendo che tornasse
a baciarlo. A Kamui venne la pelle d’oca quando sentì la lingua
di lui circondare la sua, in un bacio che non gli avrebbe lasciato scampo nemmeno
volendo.
Kamui di vie d’uscita non ne aveva mai viste.
Né ne aveva mai volute, fin dall’inizio.
Gli bastava.
Fuuma gli bastava.
Valeva tutto e non valeva niente.
Si appoggiarono accanto al bancone.
Kamui si aggrappò alla camicia nera di lui, sollevandosi un po’,
quel che bastava per spingersi più a fondo fra le sue labbra, mentre
Fuuma cercava di sfilargli la maglia sbracciata, già.
Kamui lo premette contro di sé, lasciando scivolare le mani lungo la
linea dritta della schiena, da sopra lo spesso tessuto, in una carezza sapiente
e languida, che elettrizzò il giovane uomo nonostante i vestiti. Quelle
dita calde e sottili, che sapevano esattamente cosa fargli… fosse
stato anche il suo pollice sul naso, oramai, puntualmente, il suo corpo reagiva
in automatico, al pensiero di dove l’avrebbe portato Kamui, anche con
il tocco più insignificante.
Lo sentì appoggiare un piede oltre il suo, sul rialzo del mobile, per
staccarsi dalla sua bocca e sovrastarlo di qualche centimetro. Aveva le labbra
rosse e umide della sua saliva.
Fuuma gli appoggiò la bocca sul collo morbido, scivolando lentamente
verso la spalla. Succhiò.
«Oh, Fuuma-kun…».
Lo faceva apposta, con quei sospiri da ragazzino indifeso, solo per farlo eccitare
di più. Lo afferrò con un braccio dietro le ginocchia, ma si sbilanciò
contro il bancone e si ritrovò a terra con Kamui addosso e le sue mani
che lo accarezzavano attraverso i vestiti, strofinando tortuosamente la stoffa
sulla pelle. Tutto il corpo di Kamui, due volte più leggero di lui, gli
si mosse sopra, le braccia, il bacino, le gambe, la bocca… sapeva benissimo
quanto fosse eccitato. Ma non l’avrebbe mai avuta vinta tanto presto,
oh no.
Mentre cercava di spostarsi un po’ per sistemarsi meglio sopra di lui,
con la schiena dritta, Fuuma ne approfittò per lasciar scivolare una
mano fra le sue gambe. Il respiro di Kamui s’interruppe e poi riprese,
accelerato, quando si accorse che il suo uomo cercava di muoversi. Strinse le
cosce, lo voleva sentire aderire tutto tutto. Era quasi immobile, quasi.
Muoveva quella mano attraverso i pantaloni senza farsi sentire, per farlo sragionare,
faceva sempre così, sempre maledizione. Quando cominciò a farlo
sul serio, con un piccolo ansito Kamui prese a dondolarsi a ritmo, la testa
un po’ all’indietro, gli occhi chiusi…
Poi lui lo spinse all’improvviso e Kamui gli era di nuovo allungato addosso.
Fuuma lo baciò aprendogli le labbra completamente… Fu come avere
tutto il corpo percorso da un ferro rovente.
Una mano gli sfilò la maglia da sotto. Kamui quasi sussultò. Fuuma
lo mandò a sedere sul pavimento e lo sovrastò senza toccarlo con
il corpo, spostando il peso sulle braccia. Si mise a sedere a terra anche lui,
la schiena di nuovo contro il bancone. Kamui gli si inginocchiò in mezzo
alle gambe, Fuuma gli fece appoggiare la testa sul petto.
Il ragazzino sentì la cerniera dei propri pantaloni scendere verso il
basso.
Trattenne il fiato e si lamentò a bassa voce quando la mano di Fuuma
si chiuse sotto la biancheria. Si stirò con tutto il corpo, il mento
sulla sua spalla, lasciandosi sfuggire qualche respiro più profondo mentre
Fuuma si sfregava contro di lui a palmo aperto, poi richiudendosi, scivolando.
«Ahh… No, Fuuma, per favore non così ti… ti voglio
dentro dai…» la mano risalì, riscese di nuovo «…
dai…» pigolò, senza voce, scongiurandolo
«Guarda quanto ti piace…» ridacchiò lui, spostandosi
verso il suo orecchio. La sua voce bruciava, cazzo, bruciava pure la voce…
«Ah… ah… Fuuma!» gridò, a un passo dall’orgasmo,
mentre le labbra di lui lo baciavano lungo il collo e scendevano dietro la schiena,
senza concedergli un momento di respiro. Avrebbe voluto stringere le gambe e
tenerlo premuto del tutto, ma…
Lo chiamava a singhiozzi e lo supplicava, arrivando a sollevargli la camicia
e a graffiargli la pelle nuda dietro la schiena. Lui rabbrividì e lo
baciò dietro l’orecchio, facendo un ultimo movimento brusco. Con
un gemito strozzato, Kamui venne nella sua mano. Fremeva un po’, quando
Fuuma, tirando fuori le dita, lo scansò e se le portò alla bocca,
appoggiandole poi sulle piccole labbra del ragazzo.
Ancora stordito, lui succhiò.
«Spogliami.»
Kamui annuì, coperto da un velo di sudore e con i jeans scesi sui glutei.
Si aggrappò a Fuuma e quasi non gli strappò la camicia di dosso,
mentre lo baciava con forza. Gemettero tutti e due, l’uno nella bocca
dell’altro, a lungo, fino a che, a tentoni, quella maledetta camicia non
venne ritrovata a terra. Kamui cercò di spingervi sopra il suo amante.
Con un sogghigno, Fuuma si arrese e, steso sotto il ragazzo, sentì la
sua lingua scivolare sulla pelle salata, le mani che si tenevano saldamente
su di lui. Una lo accarezzò da sopra i pantaloni.
Fuuma si contorse e Kamui ritornò a coprire la sua bocca di piccoli,
disperati baci
«F-Fuuma» tremò, baciandolo convulsamente, così, ancora
e ancora, fino a che lui non gli catturò le labbra in un bacio profondo
e breve
«Dimmi… dimmelo, dimmi che mi vuoi, dimmelo.» e un altro bacio,
caldo e lungo «Dimmelo.» e gli baciò la fronte, i capelli,
accarezzandogli il viso, passandogli le labbra sul collo. Si spostò un
attimo.
Fuuma non l’aveva sentito, lui sì.
Una macchina in quella zona deserta, di giorno.
«Dimmelo adesso.» mormorò, lasciando Fuuma ad esasperare
ancora di più nei jeans. Si accovacciò quasi su di lui.
«… K-Kamui sì Dio sì…» gli rispose, accarezzandolo
ovunque, freneticamente, mentre lo tirava in piedi e lo premeva con la pancia
contro il bancone, tenendoselo stretto, schiacciato contro di sé e abbassandogli
i boxer. La fibbia della cinta si sfregava contro la pelle morbida di lui. Kamui
si piegò in avanti sempre di più, sentendo Fuuma che slacciava
i pantaloni e affondava, un momento dopo, dentro di lui.
Il ragazzo, le braccia e il mento sul mobile, non trattenne un grido rauco,
mentre si lasciava andare, assecondando il ritmo delle sue spinte, singhiozzando
il suo nome, gli occhi chiusi. Era il fulcro del suo desiderio, era eccitato
solo per lui…
«Ah! Fuuma… Fuuma… ti prego!»
A sentire la sua supplica, Fuuma si sentì quasi mancare mentre gli prendeva
i fianchi e sprofondava ancora di più nella sua carne come non aveva
mai fatto prima, Kamui che si strozzava con la propria voce mentre lo sentiva
scivolare nella sua strettoia bollente fino all’orgasmo. Attirato nella
sua scia, Kamui lo seguì a ruota con un piccolo gemito.
Fuuma uscì da lui e gli appoggiò la guancia sulla schiena madida,
proprio quando le gambe, ancora scombussolate, stavano per cedere. Kamui chiuse
gli occhi, traendo un respiro, mentre l’amante si accingeva a riallacciare
i pantaloni, raccoglieva la camicia e cercava di darsi un contegno. Reggendosi
al bancone, Kamui stava per fare lo stesso, scrutando l’ingresso con la
coda dell’occhio… sussultando quando la porta si aprì di
scatto. I due si voltarono.
Seishiro era sulla soglia. In una mano stringeva la parrucca e gli ornamenti
di Hokuto, nell’altra le spalle di un Subaru provato e furioso.
Non ci fu nessuna reazione. Calò un’incredulità istupidita
e silenziosa nella stanza impregnata di sesso e sigarette.
Kamui richiuse la lampo dei jeans e rimase a fissare la coppia con i grandi
occhi azzurri ancora frastornati da quell’apparizione.
Gliel’aveva dato, il tempo. Non sapeva perché avesse deciso di
farlo.
Fuuma si era ricomposto, ma era evidente che non ancora si raccapezzava del
tutto… e, sebbene
Kamui sapesse che presto o tardi Subaru e Seishiro sarebbero arrivati, sebbene
lui stesso se lo fosse augurato, sebbene lui stesso avesse voluto fare di tutto
perché arrivassero, adesso…
Adesso non trovava le parole, paralizzato dalla velocità improvvisa di
come se li era trovati di fronte, paralizzato dalla sensazione dell’orgasmo
di poco prima.
Ma in fondo, non era questo quello che voleva?
«Subaru-kun.»
La sua voce risuonò più fredda di quanto avrebbe voluto.
Mosse un passo in avanti.
Subaru no, rimase immobile, mentre Seishiro lasciava la presa e si dirigeva
verso Hokuto, che giaceva inerte sul divanetto, senza mostrare un minimo accenno
di reazione. Subaru sentì qualcosa dentro di sé che si contraeva.
Ma Hokuto respirava, sentì Seishiro che se ne accertava con sicurezza.
Lui rimase imbambolato con gli occhi fissi sul suo amico, sul suo compagno di
stanza e di disavventura, sul ragazzino che gli portava i pezzi di pizza che
facevano schifo e lo mandava affanculo una volta sì e l’altra pure.
C’era una sola persona che avrebbe potuto confidare a Fuuma la casa da
the dove si trovava sua sorella. Che avrebbe potuto dirgli esattamente come
sfruttare il suo punto debole.
Che lo aveva visto felice, felice, che aveva saputo tutto, che sapeva il punto
preciso dove colpire.
Pezzo di merda.
Nessuno fece in tempo a fare niente: quando Subaru aveva raggiunto Kamui l’aveva
già preso per il collo e sbattuto a terra.
«Figlio… di puttana!» esplose. Le parole gli uscivano a stento,
trattenute da una rabbia così potente che Subaru non sapeva nemmeno come
tirare fuori.
Non gli strinse le mani attorno alla gola.
«Pensavo che almeno tu avresti capito, io ti ho sempre detto tutto e tu…
per colpa di quello stronzo là che ti usa come se fossi uno straccio…
te ne sei fregato! Non tutti vogliono essere presi e gettati via come te! Non
tutti vogliono rifiutare di scegliere per restare nella merda! E… non
tutti…» abbassò la voce, come se avesse voluto evitare che
si rompesse «… vogliono rimanere da soli! Io… volevo loro!
Nient’altro! Quale cazzo di fastidio vi dava questa cosa!» sputò,
con un’acuta nota di isteria, senza lasciare la presa. Kamui rispose con
uno sguardo che, in un primo momento, gli sembrò di vetro. Ma era pieno
di qualcosa che Subaru non gli aveva mai visto.
«Io amo Fuuma.»
Parlava sottovoce, quel che bastava perché Subaru lo sentisse.
Avrebbe voluto rispondergli, ma Kamui fu più rapido a proseguire.
«Lo amo come tu ami Sakurazukamori-san. Tu sai meglio di me cosa significhi.
Io… non posso distruggere tutto quello che ho costruito. Sarà merda,
ma non posso passarci sopra, né per te, né per il tuo amante,
né per tua sorella. Tu hai loro. Io non ho niente.»
Subaru rimase immobile.
«Ti voglio bene, Subaru-kun, perché sei l'unica persona che me
ne ha voluto veramente a sua volta. Sarà che sei un coglione patentato.
Come me. Sono contento di avervi dato il tempo di arrivare.»
Vide la rabbia dileguarsi dagli occhi di bambino.
«Kamu—»
Le parole si interruppero bruscamente quando Kamui lo afferrò all’improvviso
e lo schiacciò sul pavimento, bloccandolo col proprio peso. Subaru non
ebbe nemmeno un secondo per reagire, perché Fuuma aveva già inchiodato
Seishiro contro la parete, vanificando il suo sforzo di slegare Hokuto. Mentre
Kamui lo afferrava da dietro e lo immobilizzava, il ragazzino lo poté
vedere chiaramente, costretto contro il muro opposto. Capiva benissimo che,
se la vita di Hokuto non fosse stata in mano a quello schizofrenico, Seishiro
non avrebbe avuto problemi a stenderlo. Ma i tipi così erano davvero
pericolosi, se portati oltre un certo limite. Per questo, Seishiro si dimostrò
un prigioniero guardingo e docile mentre il ragazzo lo lanciava sul divano,
contro il corpo inerte di Hokuto. Sarebbe stato un ottimo momento per voltarsi
e prenderlo di sorpresa, ma la pistola che Fuuma puntò immediatamente
su di loro scoraggiò qualunque azione temeraria. Subaru, terreo, sussultò
alla vista dell’arma e, allo stesso tempo, si stupì di Kamui che,
pur tenendogli le braccia piegate dietro la schiena, gli stringeva convulsamente
la mano, senza averne, forse, la minima intenzione.
«Muovi il culetto e vieni qui.» gli ordinò Fuuma, raggelandolo.
Accondiscendente o meno che fosse, Subaru si ritrovò a obbedire, spinto
in avanti da Kamui. La pistola era ancora ferma lì, a pesare sulle teste
che amava.
Gli tremavano le labbra. Seishiro era grigiastro in viso e teneva sua sorella
accucciata come una bambina, senza poter staccare gli occhi da lui. Subaru,
tremante di paura e di disgusto, non poté fare altro se non guardarlo,
con dolcezza, terrore, disperazione.
Non muoverti, gli diceva.
Anche se dovesse sventrarmi, o gonfiarmi la faccia, non muoverti da lì,
perché se Fuuma spara…
Ed era stato schiacciato contro Fuuma mentre lo pensava. Aveva tremato, Kamui
aveva tremato con lui mentre gli faceva letteralmente da supporto, permettendogli
di stare in piedi senza divincolarsi.
No.
Un’ondata di nausea lo invase come fango in gola mentre cercava di scansarsi.
Prima che Fuuma potesse assestargli un violento schiaffo in faccia, Seishiro
era in piedi e pronto a scagliarsi addosso a lui, ma il ragazzo premette la
pistola sulla fronte di Subaru.
«Un buco in fronte e il signorino va a farsi inculare all’inferno,
Sakurazukamori. Vedi di calmarti.»
«Pezzo di—»
«Di cosa, scusa? Finisci prima, che se poi premo il grilletto non riesco
a sentirti col rumore. A cuccia.».
Tremando come una foglia, Subaru si appiattì contro Kamui. Stavolta lo
schiaffo lo raggiunse, e fu così forte da lasciarlo stordito per un paio
di secondi.
Fuuma si sistemò contro di lui con aria soddisfatta, gli occhi che, da
sopra la spalla ossuta dell’adolescente, erano puntati in quelli di Kamui,
sempre più inquieti.
«Bene.» scandì il giovane boss, rilassato.
Subaru si sottrasse alle labbra che parlavano vicinissime alle sue.
«Adesso, caro il mio Sumeragi scassacazzo, hai due possibilità.
Vuoi che te le elenchi? No? Benissimo.».
Silenzio.
«Vedi, il fatto è che ti ho pagato un sacco di soldi. Non mi piace
sprecare i soldi e i bei culetti, soprattutto se poi il culo devo salvarmelo
io dalla legge. Li vedi quei due sul divano, no? Adesso, tu cominci a usare
quel cazzo di cervello e torni a fare il bravo bambino, così faccio il
bravo anch’io e mi limito a scoparti. Altrimenti, io faccio schizzare
il cervelletto fuori dalla testa di quei due e non solo ti apro il culo a sangue,
ma ti pesto così di brutto che arriverai persino a dimenticarti come
ti chiami.»
Poi, fece una smorfia divertita.
Subaru, le labbra sigillate, sentì Kamui che gli serrava i polsi con
forza.
Fra i pensieri confusi di odio, gelosia, delusione e amarezza che lampeggiarono
negli occhi azzurri, uno lo martellò con più forza.
Sul corpo di Fuuma c’era ancora il suo odore.
E Fuuma non si sarebbe fatto problemi a scoparsi Subaru davanti a lui, con quell’odore
addosso, perché per lui era un odore come un altro.
Forse qualcosa nei suoi occhi si frantumò come un vetro, e lo fece in
maniera così evidente che persino Fuuma lo spiò con aria sorpresa.
«Kamui, cos—».
Non riuscì a finire la frase: Seishiro aveva aspettato quel momento di
rilassatezza per interminabili minuti, tastando freneticamente il collo di Hokuto
alla ricerca del gancio del pesantissimo mala di avorio che lei indossava sotto
il kimono. All’improvviso, i massicci grani levigati fendettero l’aria
immobile e colpirono Fuuma sulla testa con una frustata. Mentre lui si piegava,
con un’imprecazione irripetibile, lasciò cadere la pistola, che
Seishiro si lanciò ad afferrare. Con mano ferma, capovolse le sorti dei
presenti.
Kamui, lasciata la mano di Subaru, raggiunse Fuuma che si era rialzato, massaggiandosi
la nuca fra una bestemmia e l’altra. Tenendoli entrambi nella traiettoria
della pistola, tese il braccio a Subaru, che nel frattempo aveva perso l’equilibrio.
Solamente quando poté sentire la piccola mano sulla spalla prese fiato
per parlare. Trapassò Fuuma con uno sguardo pieno di un odio lancinante.
«Tu non ti devi azzardare a toccare Subaru nemmeno con un dito, altrimenti
ti stacco la lingua e ti ci impalo.» sillabò, con una freddezza
degna di un esponente della yakuza. Mai Subaru lo aveva sentito parlare così.
«C’è una ragione per cui tu rimarrai per sempre uno sfruttatore
opportunista del cazzo, sai? A differenza tua, che te ne freghi del resto del
mondo e ti scoperesti chiunque, senza pensare ai sentimenti di nessuno, io amo
Subaru. Amo. E non importa quanto possa essere bravo a fare l’amore,
io lo amo perché lo conosco, perché mi piace interessarmi a lui,
a quello che fa, a quello che pensa, a quello che vuole. Lo amo più di
ogni altra cosa al mondo, è per questo che adesso io dovrei lasciarti
con una pallottola incastrata nel cranio, morto ammazzato come un cane. Già
mi prudono le mani, perché vedi, ho anche una mira niente male.»
Gli occhi di Subaru scivolarono per un momento su quelli di Kamui.
Per un attimo, il ragazzo sembrò esitare, poi scattò a stringere
la mano di Fuuma, sollevandolo.
«Andiamo.»
«Ma—»
«MA UN CAZZO! NON ME NE SBATTE NIENTE DEI TUOI SOGNI DI GLORIA, HAI CAPITO?
AVREI DOVUTO AMMAZZARTI IO ANNI FA, PRIMA CHE MI PIACESSE QUELLO CHE MI HAI
FATTO DIVENTARE! E STAVOLTA, PER FAVORE, FATTI SALVARE IL CULO E PIANTALA CON
QUELLA FACCIA DA CAZZO!» urlò Kamui, esasperato, fino a che la
gola non gli fece male.
Non diede a Fuuma il tempo di replicare, o forse Subaru e Seishiro non lo sentirono,
perché il ragazzino si era trascinato Fuuma in strada senza guardarsi
indietro.
Nessuno dei due li inseguì.
Interdetti, i due amanti li videro rimpicciolirsi in fondo al vicolo, ancora
ansanti e scossi, senza riuscire a parlare o a muoversi.
Perché
per quanto uno sia stronzo, ha sempre un povero cretino che lo tira fuori da
un posto così e magari ci rimette pure, sarà sempre incazzato
e si pentirà in eterno di avergli dato la mano, ma è già
un progresso, vedere che uno te la stringe.
E pensare che è un passerotto ingenuo come Subaru che mi può rispondere,
e basta. Ma tanto mi sa che ho ragione.
Subaru
sfogò un vero e proprio tremito nervoso, abbandonandosi contro Seishiro,
bianco come un cencio lavato, con le gambe annientate dalla tensione.
Seishiro lo afferrò all’istante, poi se lo tenne con la testa sotto
al mento e si lasciò abbracciare.
«È finita.» bisbigliò. Subaru annuì, mentre
le braccia di Seishiro lo sospingevano ancora di più contro la camicia
inamidata. Chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni.
«Stai bene?» si accertò Seishiro, con dolcezza «Non…
non ti ha toccato, vero?»
«No, sto benissimo…» ridacchiò Subaru, inspiegabilmente
felice della punta di spaventata gelosia che tintinnava nelle sue parole
«Bene!» esclamò l’uomo, con trasporto «Perché
nel caso, faccio ancora in tempo a corrergli dietro e a riempirlo di buchi!»
«Su, su, Sei-chan! Sta’ buono.» mormorò Subaru, la
mano nella sua per andare a liberare Hokuto.
«Se… Sei-chan?!».
Sì, dovette arrendersi: Sei-chan nel sorriso luminoso di Subaru
che si avviava verso quel divano, Sei-chan nell’abbraccio esuberante
di Hokuto una volta svegliata su un morbido letto, Sei-chan a casa,
Sei-chan la mattina, il pomeriggio e la sera, Sei-chan quando
i biscotti di Hokuto sparivano dalla teglia, o quando, insieme, lui e la pseudo-cognatina
indirizzavano, ridendo, qualche goffa avance a Subaru, o quando, da bravo gentiluomo,
lui lodava le sopraffine doti culinarie della ragazza. Ma per Subaru, escluso
qualche sporadico caso, il Seishiro rimase una costante della loro
movimentata convivenza a triangolo, una dolce esclusiva insostituibile che aveva
su di lui e di cui Seishiro si sentiva deliziato.
La solitudine che si era annidata per così tanti anni in quelle pareti,
come un’infiltrazione velenosa, si trasformò in un tripudio colorato
di corse e risate, di profumi appetitosi, di discorsi intrecciati fra cui, un
giorno, Seishiro sentì nominare le crêpes. Comparvero
davanti ai suoi occhi come una fragrante apparizione ricoperta di crema vellutata,
il vanto della giovane Sumeragi. Sì, voleva costruire qualcosa insieme
a Subaru e a Hokuto, voleva lasciargli invadere la sua vita.
E allora, perché non con un negozio di crêpes? Il locale al piano
di sotto era in vendita.
Per la prima volta in vita sua, l’uomo romantico sposò l’imprenditore
dentro di lui. Vedere Subaru sorridere, infatti, mentre serviva i clienti con
i manicaretti di Hokuto, rendeva felice anche lui, detentore legale dell’esercizio.
I gemelli figuravano come dipendenti.
«Forse vi servirebbero degli assistenti? Dovreste dedicare più
tempo allo studio…» aveva detto a Subaru, un pomeriggio particolarmente
tranquillo, navigando fra i cuscini multicolore dell’ampio divano che
avevano comprato insieme.
Lui aveva scosso la testa
«No, è una cosa… nostra.»
«Mh.» aveva capitolato Seishiro, baciando la massa scarmigliata
di capelli neri con tenerezza. Subaru si stiracchiò sotto quella carezza
affettuosa come un gattino contento, con la solita sensualità inconsapevole
che lo accendeva di luce, agli occhi di Seishiro.
Non l’aveva mai visto acquistare un colorito così salubre, e finalmente
poteva godersi lo splendore della sua serenità senza che arrivasse qualche
ombra a offuscarla. Nella quiete rilassata del suo sorriso, Seishiro leggeva
una profonda stanchezza del mondo oscuro e notturno che aveva travolto la sua
adolescenza. Gli era rimasto appiccicato alla pelle come una patina di disagio
e inquinava le loro notti. Da quanto tempo non facevano più l’amore?
Beh… da quando si erano ritrovati, nel letto di un bordello, con lui che
ricopriva la doppia veste di cliente e amante. Pur essendo la seconda predominante,
Seishiro comprendeva lo stato d’animo di Subaru, che preferiva, nell’ultimo
periodo, accoccolarsi innocente accanto a lui, lasciando perdere le tempeste
elettriche che, allora, avevano disposto di lui a loro piacimento. Voleva stabilità.
Seishiro si sentiva più che onorato di essere la persona su cui Subaru
faceva più affidamento per ottenerla. Nei tentativi con cui Seishiro
si impegnava al riguardo, Subaru non poteva fare a meno di farsi scappare una
risatina, perché erano tentativi decisamente in contrasto con l’immagine
di carismatico galantuomo in giro per bordelli che allora assumeva all’"Angels".
In lui conciliava, con sua stessa meraviglia, la figura di amante e quella di
figura familiare.
Sicuro della solidità culturale sua e di Hokuto, in quanto ragazzini
di nobili natali, Seishiro aveva comunque insistito per iscriverli a un prestigioso
istituto privato per risanare i curriculum scolastici di entrambi, nei quali
si apriva una voragine mostruosa. Presentati al pubblico come suoi nipoti, i
due gemelli godevano delle più scrupolose attenzioni da parte sua, benché
Seishiro non potesse presentare alcun documento per attestarsi come loro tutore.
In ogni caso, sfidava chiunque a farglielo notare. Non c’era momento in
cui non si preoccupasse di fare in modo che i due ragazzi trovassero agevolmente
il loro posto del mondo, mettendo da parte del denaro per ogni evenienza, informandosi
sul loro rendimento e sul loro inserimento a scuola, facendo prender loro parte
alla sua vita di uomo d’affari, lasciando che esaminassero, sotto la sua
guida, i quintali di scartoffie che gli capitava di riportare a casa, o supervisionando
con loro l’andamento della creperia, già stimata da una nutrita
schiera di clienti, tanto che si era deciso, all’unanimità, di
ampliarne la gamma di prodotti, inserendovi anche focaccine dolci, taiyaki,
biscotti, okonomiyaki, frittelle e qualunque altra cosa Hokuto riuscisse a preparare,
fomentata dal suo inesauribile estro di cuoca.
In particolare, i gemelli videro concretizzarsi del tutto la responsabilità
che Seishiro sentiva nei loro confronti quando una volta, soli in cucina, lui
e Hokuto ebbero da discutere su un possibile loro ruolo nell’eredità
della famiglia Sakurazukamori.
«No, Sei-chan,» aveva risposto lei «questo complicherebbe
sul serio le cose. D’accordo, in Giappone non ci sono regole troppo rigide
riguardo all’adozione, ma ereditare senza documenti è rischioso,
e non potremmo accettare. Intendo dire, è come entrare di forza nella
tua famiglia… Subaru mi ha detto che avevi accennato a una cosa del genere,
non se ne poteva fare capace, penso che si sentirebbe in debito e in imbarazzo
per tutta la vita. E anch’io.»
«Hokuto-chan, Subaru è la persona che amo, e… beh, tu sei
quanto di più vicino a una figlia io abbia mai avuto.»
Se c’è qualcosa di più insidioso di un gentiluomo, pensò
la ragazzina, è sicuramente un gentiluomo cocciuto.
«Seishiro-chan, capiterà anche a te di avere dei figli, per forza!
Sai altrimenti le lagne? E poi non si potrà più rimediare. Non
possiamo togliere un diritto ai tuoi eventuali figli legittimi, sarebbe una
grossa cattiveria. Abbiamo fatto tanto per farci giustizia e adesso che facciamo,
gli ingiusti?»
«Setsuka ci ha rinunciato. Il tempo che passo qui scoraggia per bene l’idea
di una gravidanza.»
Guardò la ragazza rimasta a fissarlo, pensierosa.
«Non ci saranno figli, Hokuto-chan. Ci sarete voi. Almeno sarò
sicuro di amarvi con tutto il cuore. D’altronde, voi non avete più
niente.».
Silenzio.
«Sì, però non è valido, tu non ami Subaru come un
figlio!» cantilenò la ragazzina, come una bambina piccola. Seishiro
incontrò i suoi occhi che ridevano e restituì lo sguardo, sghignazzando
a sua volta.
No, non amava Subaru come un figlio, e non c’era niente da ridere. Non
per il proprio senso della morale, quello era indubbio. Piuttosto, lo preoccupava
lo spirito con cui Subaru si era calato nella nuova situazione. Era uno stato
di cose decisamente ribaltato rispetto all’"Angels". Non era
difficile immaginare che, dietro la tranquillità del suo viso, si potesse
essere annidato il pensiero ambiguo del suo amante che assumeva, adesso, quasi
il ruolo di un genitore. Seishiro temeva che Subaru potesse vivere il tutto
come se fosse la caricatura di un incesto, qualcosa in equilibrio instabile
fra il loro piccolo mondo e l’esterno da cui si nascondevano. Nel susseguirsi
degli abbracci pieni d’affetto, dei baci dati sulle guance, della colazione
servita sul tavolo, delle mani intrecciate fra loro e delle sere passate tutti
insieme attorno al tavolo, sonnecchiava quel desiderio pungente che aveva poco
di filiale, Seishiro lo sapeva, ci stava impazzendo… Subaru invece pareva
ignorarlo. Sorvolava sulle reazioni di Seishiro quando lo toccava, anche senza
malizia.
Era diventato bravo ai fornelli e passava gran parte della giornata a impastare
dolci al piano di sotto, nella creperia. Risaliva con le mani piene del profumo
dolce della pasta, la pelle che sapeva di zucchero già da lontano, frammista
al vago, delizioso effluvio di crema e cioccolata. Lo faceva letteralmente diventare
pazzo. In quei momenti, incurante di Hokuto e di tutto il resto, l’avrebbe
stretto al petto, avrebbe aspirato il suo profumo di panetteria, l’avrebbe
assaggiato, chiamato, spogliato e amato fino allo stremo, ma, puntualmente,
si imponeva il pieno rispetto per le scelte di Subaru, che, inoltre, dormiva
molto di pomeriggio e poco di notte. Seishiro fingeva un sonno che non aveva
quando lo sentiva scivolare fuori dal letto, oltre la zanzariera bianca sopra
le loro teste.
Se non altro, la mancanza di un approccio fisico gli aveva dato modo di imparare
a conoscerlo, adesso che poteva considerarsi il suo punto di riferimento. In
realtà, non ebbe bisogno di conoscere granché, perché Subaru
era il ragazzino gentile, cortese e fiducioso che non aveva bisogno di presentazioni.
Faceva ragionamenti maturi, supportato da un ampio bagaglio culturale che faceva
di lui il perfetto compagno di conversazione, per quanto fosse strano, per loro,
trovarsi a chiacchierare distesi su un letto senza avere (o meglio, senza che
Seishiro desse segnale di avere) tutt’altre intenzioni. La sua educazione
era stata sempre molto rigida e priva di slanci affettivi, ma aveva compensato
con una minuziosa cura nei suoi studi, che sarebbero rimasti puri sfoggi nozionistici
se la mente fervida e pronta di Subaru non avesse deciso di dipanare in modo
logico e costruttivo quelle conoscenze imparate a memoria. Non aveva mai avuto
coetanei con cui passare molto tempo, a parte sua sorella, e Seishiro era l’unico
con cui avesse avuto il piacere di parlare liberamente, riuscendo persino a
stupirlo con intraprendenti soluzioni per l’economia dell’azienda,
come aveva fatto ad Okinawa.
Dietro la facciata compita e riservata si nascondeva, però, un ragazzino
più malinconico di quel che Seishiro avrebbe creduto. Era restio a parlare
della propria infanzia, ma quando un pomeriggio, con fare timidamente sognante,
gli aveva detto «Avrei voluto scrivere… o magari imparare a curare
un giardino, o forse degli animali…», a Seishiro era bastata quella
frase per capire che le sue semplici ambizioni e la sua indole sensibile e altruista
mal si adattavano al mondo e al ruolo a cui era stato destinato. Tutto ciò
che non era stato ritenuto necessario per il suo sviluppo era stato falciato
e l’aveva lasciato con un pugno di amareggiati desideri fra le mani.
Ad ogni modo, Subaru cercava subito di sviare il discorso. Più che altro,
preferiva parlare delle marachelle di Hokuto e (si fermava un attimo prima di
nominarla, sempre) Rie, dell’ultima stramberia a scuola, di una frase
che aveva letto su un libro, di quanto avrebbe voluto andare al mare. Seishiro
ascoltava col cuore leggero.
Pensava di conoscerlo.
Ma si diede dello stupido. Non gli aveva mai chiesto come si trovasse a vivere
così insieme a lui, invece avrebbe dovuto sfruttare molto prima quell’occasione.
_+_
«Subaru?
Stai dormendo o posso entrare?»
«Vieni qui.» mormorò il ragazzo, steso sul letto, indicando
lo spazio vuoto al suo fianco. Seishiro obbedì e Subaru appoggiò
delicatamente la mano sulla sua. Mai come allora l’uomo si rese conto
di quanto fosse piccola, diafana e morbida.
Subaru spiò il profilo di Seishiro immobile a fissare il soffitto, in
un silenzio che sembrò dover durare a lungo. Infatti, quando lui rivolse
la testa di lato per parlargli, trasalì.
«Cosa c’è che non va?» gli domandò, squarciando
il silenzio
«Niente…»
«Bugia.»
«Cosa?»
«Non devi sentirti in colpa di niente.» disse, girandosi su un fianco.
«Ma non sta bene essere così, se tu mi adottassi e io—»
«Subaru, io… voglio che tu possa esercitare dei diritti su tutto
ciò che ho da offrirti, voglio che tu e tua sorella possiate vivere una
vita tranquilla senza abbassare la testa.»
Gli occhi verdi erano attenti e rendevano soave anche lo scetticismo che li
scuriva.
«Un pezzo di carta attesta che vi ho adottati, non vi rende miei figli,
non cambia ciò che rappresentate per me. Vi rende parte della mia vita
a tutti gli effetti, perché so di nutrirvi, vestirvi e assicurarvi un
futuro, se accettate, così, di essere miei eredi. È questo, solo
questo. Posso tenere a voi senza far finta che non esistiate davanti agli occhi
del mondo.»
Subaru prese fiato, guardandolo come se l’ossigeno che inspirava arrivasse
direttamente dalle sue labbra. Seishiro sprofondò un attimo in silenzio,
poi strinse forte la mano che riposava sulla sua. Un momento dopo, in un crampo
di ansia e nostalgia, Subaru se lo ritrovò caldo e pesante sul petto,
mentre gli baciava disperatamente i capelli, le palpebre, le guance, le labbra,
il collo, in una frenesia innamorata che gli contraeva i muscoli e li faceva
sciogliere come cioccolata nel pugno di un bambino, contemporaneamente.
«Subaru, io ti amo. Lo so che la cosa in sé non basta per poter
stare tranquillamente con un minorenne maschio con la scusa di un’adozione.
So anche che se qualcuno scopre questa famigliola felice finiremo tutti in grossi
guai. Lo so. Non sarà una cosa facile e sì, hai ragione, rischiamo
di fare dei giganteschi passi falsi, ma—».
Si interruppe, una mano scivolò a stringere Subaru, mentre le labbra
gli baciavano la fronte. Lui non osava parlare, sospeso in quell’inaspettata
scia di parole e carezze.
«Voglio solo essere la cosa più bella che hai.».
Un ‘bang’ risuonò nei polmoni di Subaru mentre avviluppava
Seishiro fra le braccia.
Rise allegramente.
«E dove lo trovo un altro uomo così, eh?»
Seishiro gli accarezzò la testa, trascinato dalla sua ilarità.
Avevano ripreso a respirare entrambi.
_+_
Frustrati, furiosi e insonnoliti: l’ideale per andare a scaricare l’astio
sul quasi-ex-parentado, possibilmente con un paio d’ore di treno che pesavano
sullo stomaco.
Sì, sì, sì! Questo sì che si chiama buttare fuori
il veleno, pensò, osservando con impertinente soddisfazione le luccicanti
ballerine rosa che dichiaravano apertamente guerra al sobrio blu scuro della
divisa scolastica. Al malumore che la irritava si mescolò, con grazia,
una feroce sensazione di leggerezza. A casa Sumeragi nessuno si aspettava l’arrivo
di un ciclone, ma si sa, prima o poi ognuno sconta le proprie colpe.
Niente sarebbe rimasto in piedi, una volta che si sarebbe fatta largo in quella
che era stata casa sua, casa loro.
Niente porta sul retro stavolta. Niente sotterfugi.
Solo trionfi.
Pensava a come fosse strano sentire una vaga e fastidiosa nausea al pensiero
di doversi muovere in quei freddi e fastosi saloni, colmi di un’infanzia
in cui troneggiava un solo ricordo che fosse bello e nitido: Subaru. Persino
le figure dei suoi genitori erano sfocate e inconsistenti, vacue presenze che
si erano dileguate del tutto poco tempo prima dei suoi sedici anni.
Seishiro era molto, molto di più: era una figura paterna esilarante e
incredibilmente presente, era un amico, era un papà, una mamma, un imprenditore
e un cuoco, era casa. Era il perno della loro caotica routine, e il solo pensiero
bastò, da solo, a farle spuntare un sorriso anche di fronte alla facciata
dell’imponente residenza familiare.
L’assalì, una volta nell’ingresso, l’odore del lucido
per pavimenti, che risvegliò il suo cervello come un’unghiata.
Il suolo splendeva come una perla e le rimandava un suo tremolante riflesso.
Niente Rie, niente senso di colpa, niente domande, in quella casa, su quel pezzo
di marmo. Per loro era tutto cancellato, Rie non era mai esistita, per quanto
riguardava la nonna.
Alla grinta si sostituì il ribrezzo, perché non ce n’era
uno, lì in mezzo, che sentisse quanto l’aria lì dentro fosse
un macigno, greve di un fantasma che era morto ad occhi aperti.
L’intera servitù che passava di lì sembrò congelarsi,
confusa e terrorizzata al suo cospetto. Beh, certo, non si assisteva tutti i
giorni a una resurrezione.
Il giovane maggiordomo che le aveva aperto la porta, senza aver prima tentato
di sbattergliela in faccia, si stava massaggiando il naso dolorante. Hokuto
ringraziò mentalmente Seishiro per averla iscritta a quel fantastico
corso di kick-boxing.
«Ok, sono una donna impegnata, quindi vediamo di sbrigarcela subito. Dov’è
lei.».
Una cameriera dalla faccia smunta le indicò le ampie scale con un dito
tremante.
Wow, si compiacque la ragazza, i miracoli dell’effetto sorpresa e dell’algido
comando da eroina.
Salì le scale dimenticando cosa fosse la grazia, poi si avventurò
per i corridoi, sotto gli stralunati occhi degli altri domestici che la credevano
morta da mesi. In parecchi lasciavano scivolare a terra le pile ordinate di
asciugamani, lenzuola e biancheria.
Sbattendo rumorosamente i piedi, cercò la nonna in gran parte delle stanze,
fino a che non si fece largo in biblioteca.
Lei era lì, seduta allo scrittoio, i lunghi capelli grigi sciolti sulle
spalle nodose. Il viso era una fitta trama di rughe in cui gli occhi rapaci,
anche se infiacchiti dalla vecchiaia, lasciavano intravedere sì la solita
tenacia, ma… c’era qualcosa di più, c’era un’ombra
che la nipote non aveva mai notato, in tanti anni di vicinanza forzata. Le lunghe
dita, solcate da venuzze bluastre, erano compostamente intrecciate fra loro.
Molto dell’antica severità era svanito, in quei mesi. Sembrava
un piccolo animaletto rattrappito dal troppo sole, fu questo a dipingere, nonostante
tutto, un velo di misurato stupore negli occhi della ragazza.
Sua nonna non sembrò granché sorpresa quando alzò lo sguardo
su di lei. Contrasse appena le labbra e, con un po’ di fatica, si alzò
lentamente dalla poltrona, muovendo dei passi lenti e strascicati, accompagnati
– realizzò la nipote - dal lieve cigolio di un’asta di metallo
su tre ruote, da cui penzolava una flebo.
«Oh.» mormorò, a voce alta. Era malata, ecco il perché
di tutto quel cambiamento.
Malata. Ma la cosa non le ispirò né compassione né pena.
Tutt’al più, mitigò di poco l’acredine che la ragazza
meditava di indirizzarle.
«Hokuto-san.» gracchiò l’anziana donna, una volta di
fronte a lei. I capelli erano radi e sfibrati, le cornee avevano un malsano
accenno di giallo e Hokuto si rese conto che ciò che la vecchia stringeva
fra le mani era un sacchetto pieno di bile, il cui catetere si nascondeva sotto
il vestito.
Lei non rispose.
Si lasciò guidare verso un piccolo pouf.
«Ho motivo di dubitare del tuo entusiasmo per il tuo soggiorno a Tokyo,
cara nipote.»
«Non dirmi che il pensiero ti ha fatto mangiare il fegato!» ribatté,
con un’inflessione ancora più cattiva.
«Diciamo che il cancro è un po’ indigesto da ingoiare.»
le fu risposto.
Attimo di silenzio.
«Quasi quanto un omicidio?»
«Oh, da brava, abbi—»
«Pietà? Beh, davanti a te mi è stato sempre detto di mostrare
unicamente ciò che mi hai inculcato. La pietà non rientra nel
pacchetto.» la rimbeccò con impeto la nipote.
«Nemmeno l’insolenza dovrebbe, mi risulta.»
«Non ho rispetto per chi mi ha rovinato la vita.»
«Voi avreste rovinato tutto.» si difese la nonna, con pacata
prontezza
«Nonna. Ma guardati.».
«Solo se tu lo fai per prima. A quanto vedo sei rimasta una ragazzina
cocciuta e viziata. Oh, se fossi stato tuo padre, io—»
«Beh, io sarei lieta di non essere mia madre!»
«Questo tuo patetico umorismo metropolitano non l’ho mai condiviso.»
«Stupefacente, è solo questo il disaccordo che ricordi più
di tutti?» chiese la ragazza, sardonica.
«Non si può dire che ci siamo mai comprese, noi due.» rifletté
l’anziana donna
«Colpa tua, ti sei preclusa ogni possibilità per amor del portafogli.»
«Non era necessario comprenderti, per amor di questa famiglia. Voi due
siete come i vostri genitori. Altezzosi, spregiudicati, ribelli, senza valori.
È ovvio che con voi non avrei cavato un ragno dal buco.»
«Oh, adesso improntiamo la questione sull’onore e sul rigore morale,
nonna? Tu hai ucciso. E prova a dirmi che l’idea di ammazzare
tua nipote e sbarazzarsi di tuo nipote era una parte del tuo percorso educativo.
Perché sai, dal mio punto di vista arrivare a uccidere un’innocente
al posto mio per farla sparire e mandare tuo nipote a prostituirsi sono solo
prove lampanti della tua mancanza di scrupoli, tutti inghiottiti dalla tua fame
di soldi. Non osare interrompermi.» scattò poi. «Hai
dimenticato come si ama e adesso cerchi di nascondere la tua voluta incapacità
sotto un cerimoniale vecchio di secoli. Inchinarsi, stretti nei kimono, le formule
di rito… tutte quelle pagliacciate dimostrano solo la tua voglia testarda
di ridurci in schiavitù e far finire tutto con un paio di proiettili.»
«Non capisci.»
«No, grazie a Dio.»
«Non chiederci di capire, se prima non l’hai fatto tu stessa.».
Una voce sulla porta redarguì freddamente la vecchia Sumeragi. Sia lei
che la sua ospite si voltarono, in un moto di malcelata sorpresa.
Subaru si manteneva contro lo stipite della porta. Squadrava sua nonna con i
grandi occhi che mai, prima di quel giorno, avevano acquisito una simile sfumatura
di serietà. Era un uomo, pensarono subito le due donne.
«Subaru-sa—»
«L’errore più grande che tu abbia mai commesso, nonna»
scandì il ragazzo, facendo sfoggio di un mostruoso autocontrollo «è
stato fidarsi di un vincolo di sangue. Nel nome della nostra parentela, hai
pensato bene di poterci tenere mansueti, incastrandoci nel ruolo dei nipotini
orfani incapaci di scavalcare l’ultimo legame davvero stretto rimastoci.
Ti sei sentita in diritto di deriderci, insultarci, cancellarci, solo perché,
sicura della nostra impotenza nei tuoi confronti, hai sfruttato dei poteri che
erano nostro diritto. E io te lo dico chiaro e tondo: famiglia non
è l’ultimo parente che resta, famiglia non è un
dogma, né una gerarchia in cui si compete gli uni con gli altri. Non
è un’istituzione, né un fagotto di vecchie tradizioni. Famiglia
è svegliarsi la mattina e sapere che qualcuno ti farà una carezza,
o ti dirà qualcosa che ti tirerà su il morale. Famiglia
è rispetto. Ma non il rispetto di un’autorità. È
il rispetto per l’affetto che ti viene dimostrato. È una pacca
su una spalla, è ridere e piangere abbracciati l’uno all’altro,
per quanto i vari geni non abbiano alcuna somiglianza da spartire.».
Sua sorella osservava il suo sguardo, sfavillante come quello di un patriota.
«E non c’è traccia di sovversione morale Semmai la vera sovversione
morale è quella di un parente che ti ha trasmesso i suoi occhi, i suoi
capelli e la forma del suo corpo, ma che non prova niente per te. Solo odio.»
riprese, il fiato che gli mancava ad ogni parola che sputava fuori.
«Non posso cambiare ciò che ho fatto.»
«Non credo ne avresti il tempo materiale. Tutte le colpe per cui non provi
rimorso ti stanno già mangiando da dentro, vedo.»
«Non durerà a lungo, però.»
«Non posso fare a meno di sperare il contrario. Spero che tu abbia la
possibilità di vedere tutti i tuoi fantasmi, prima di finire spolpata
sul letto di morte. E credimi, ci vorrà molto tempo, nonna.».
Nessuno fiatò.
Hokuto tese dei documenti verso le mani ossute. Esaminato rapidamente il contenuto
del plico, la donna alzò la testa e, per la prima volta, fissò
i nipoti con attenzione.
Indossavano eleganti uniformi scolastiche e avevano conservato un atteggiamento
composto nonostante il rancore che aveva ispirato loro quella visita. Apparivano
curati nell’aspetto e determinati nell’espressione.
Prese una raffinata stilografica e si accinse a tracciare la propria firma su
quella richiesta di adozione da parte di un uomo a lei fin troppo noto. Storse
impercettibilmente il naso.
«Siete felici?»
«Molto.» risposero loro, in una gelida, unica voce.
«Ma non dimenticate chi siete. La felicità svanisce, al contrario
della vostra storia, che dura da secoli. Non potete buttare al vento così
un intero clan. Io morirò presto. Voi no.».
Porse loro un documento, una cessione di eredità, che cadde nelle mani
di Subaru come un’enorme foglia. Poi la donna fece qualche telefonata
in cui ordinava di distruggere le copie esistenti del certificato di morte di
Sumeragi Hokuto. Poi ne sminuzzò la copia che aveva fra le mani.
E quello strappo si sovrappose a un altro.
Subaru la squadrava impietoso dalle due metà lacerate del foglio che
riconosceva lui e Hokuto co-eredi dell’immenso patrimonio familiare.
Insieme, girarono i tacchi.
La vecchia, invece, sprofondò nella scrivania.
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«Credevi
davvero che ti avrei lasciato tutto il merito?» ridacchiò Subaru.
Hokuto fece la finta offesa mentre lasciava che Seishiro le aprisse la portiera
con un gesto galante.
«Però non vale, tu hai avuto un complice che aveva una patente!»
rise lei. Si era accomodata sul sedile posteriore, suo fratello aveva preferito
sistemarsi davanti, soffriva atrocemente il mal d’auto.
«Su, su,» si intromise Seishiro «che tanto avete fatto una
splendida figura! Sono un padre orgoglioso!» recitò, fintamente
commosso
«Oh, piantala…» borbottò Subaru, prima che l’allegria
generale contagiasse anche lui.
«Andiamo a casa.» concluse l’uomo, facendo rombare il motore.
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C’erano
quei periodi in cui, per forza di cose, Seishiro doveva tornare a Kanazawa.
Non erano assenze così lunghe da turbare la tranquillità a cui
si erano abituati, ma quegli spiragli di vuoto gettavano in Subaru un timido
seme di senso di colpa. Non aveva la presunzione di volere Seishiro per sé,
anzi: per quanto si sentisse felice quando lui saltellava contento per casa
gridando ai quattro venti il suo ritorno, la situazione non era certamente delle
migliori. A prescindere dalla stanchezza che comportavano i viaggi e i vari
spostamenti, Seishiro doveva fare i conti con due vite letteralmente diverse.
Subaru sentiva il fardello d tutti i sotterfugi con cui si dovevano nascondere
e non riusciva a smettere di pensare a quella ragazzina fragile e sola, magari
fiduciosa, che lasciava avvizzire la propria bellezza per un uomo che non l’amava,
continuando a vivere docilmente sotto la sua ombra.
Era profondamente ingiusto.
Ma non gli impediva di guardare Seishiro con un misto di sollievo ed estasi
quando lo baciava per primo ogni volta che tornava.
Mio, aveva pensato quando, a notte fonda, lui era entrato in camera
da letto in punta di piedi, distrutto dal viaggio. Si era sfilato giacca e cravatta
per tuffarsi sul letto. Arrampicandosi fra le sue ginocchia, Subaru lo aveva
salutato con un sorriso un po’ mesto, prima di allungarsi svogliatamente
su di lui.
«È tardi, non avresti dovuto restare in piedi ad aspettarmi…
poi sono io che ti vizio!»
Subaru non rispose, ma allargò le mani sul suo petto.
«Non preoccuparti, non mi pesa aspettarti. Volevo essere sicuro che andasse
tutto bene.»
Che tu tornassi da me.
«È
un viaggio corto, magari l’unico problema è farlo in macchina con
la stanchezza addosso.»
«Mi dispiace.» fece Subaru con voce triste
«Cosa? Che io sia tornato?» chiese Seishiro, inarcando un sopracciglio
«No,» si affrettò a rassicurarlo il ragazzo «il fatto
che tu debba vivere così, come se avessi una doppia identità…
insomma… tu… sei… beh… sposato. Hai degli obblighi verso
una persona…»
Che
non sono io.
Anche se lui dovesse restare con me tutta la vita, non posso dirgli di lasciar
stare…
«Subaru.»
sorrise Seishiro, una mano appoggiata sulla sua guancia «Il concetto di
fedeltà coniugale in Giappone è molto relativo.» riprese,
guardandolo in faccia. Subaru rispose con un’occhiata cupa. Seishiro sospirò.
«Se avessi voluto un amante ti avrei lasciato dov’eri. Andiamo.
L’hai detto tu, famiglia è ciò che si ama, non
una parentela. E io ti giuro che fino alla fine dei miei giorni crederò
solamente a quello che esce dalle tue labbra. E credo a quello che hai detto
oggi pomeriggio. Tu non vali meno di lei solamente perché su nessun certificato
c’è scritto che mi hai sposato. Tu sei tutto.»
Subaru si sollevò, le gambe ancora attorno al bacino di lui. Aveva uno
sguardo più che triste, adesso, ma anche così gli occhi gli brillavano
come lucciole silvestri.
«Non posso dirti di comportarti come un uomo irresponsabile.» fece,
passandogli delicatamente una mano fra i capelli.
«Fallo.» lo raggiunse la voce di Seishiro, seria, decisa, immobile.
Qualcosa dentro Subaru si ritrasse e poi schizzò fuori dalla sua portata.
Avrebbe dovuto rispondere, scansarsi, dirgli di no, scendere da quel letto.
Scappare.
Serrò la sua camicia fra le mani, in una carezza morbida e inconsapevole.
Seishiro trattenne il fiato.
Per un frammento di secondo, fu tutto un precipitoso rotolare di ciglia, naso
e capelli verso il suo viso.
Poi, le labbra. Timide e familiari, un attimo di sole in bocca, innocenti e
furtive.
L’uomo, stordito, fissò Subaru per un paio di istanti prima di
avvicinare il viso al suo e schioccare due baci morbidi ed esitanti sulla sua,
di bocca.
«Non andare.».
Fu una supplica stranita, un respiro velato di desiderio che ruzzolò
languidamente, sensualmente fra le sue labbra, in un bacio caldo e infinito
che risucchiò il fiato a entrambi. Quella bramosia che Seishiro pensava
sepolta riaffiorò dolorosamente in superficie, martellata dalla consapevolezza
del corpo accaldato e teso di Subaru su di lui.
«No. Prometto.» gli rispose Seishiro, stringendo i suoi capelli
fra le dita. Subaru, le gambe di lato ai suoi fianchi, si era inginocchiato
sopra la sua cintura e gli aveva sollevato la camicia con le dita. Non osava
quasi sfiorarlo, ragion per cui Seishiro, vibrante d’impazienza, lasciò
scivolare le mani sotto il tessuto sottile della maglia del ragazzo. La pelle
diafana e vellutata accolse quell’adesione con un fremito di voluttuosa
accondiscendenza. Incoraggiato, Seishiro risalì lungo la schiena per
svestirlo, riassaporando la sensazione di avere Subaru sotto le dita: la pelle
salata, i muscoli guizzanti, la seducente sporgenza delle sue anche, le gambe
lunghe e morbide… appoggiò baci ovunque sul corpo bianco, trattenendo
il respiro ogni volta che, libero dell’iniziale esitazione, lui prendeva
a spogliarlo, distratto dalle carezze audaci del suo amante, che si avventurava
ad accarezzargli le gambe attraverso i jeans. Subaru si sollevò per permettergli
di tirarli via con tutta la biancheria.
Per un lungo minuto, Seishiro osservò Subaru, nudo, sensuale, fragile,
a cavalcioni su di lui. Si tolse a sua volta i pantaloni e i boxer con forza,
gettandoli lontano con un po’ di difficoltà. Un attimo dopo, stava
di nuovo baciando Subaru con labbra avide e febbrili, la stanza piena delle
loro bocche che scivolavano l’una nell’altra, senza tregua.
Quando Seishiro si lasciò andare sui cuscini, Subaru sentì di
aver bisogno di aria. Si separò di poco e rimase a guardare Seishiro
che riprendeva fiato con ampi respiri, con uno sguardo adulto, penetrante, che
l’altro sostenne senza battere ciglio, con la stessa intensità.
No, non era un ragazzino, era il suo uomo, realizzò, assaggiandone il
collo. Poi, soffiò leggermente sulla scia che aveva lasciato, e a Subaru
venne la pelle d’oca.
Cautamente, Subaru si spinse leggermente in avanti, fino a sentire l’erezione
di lui premuta sulla coscia. Vi fece scivolare due dita sopra e Seishiro scattò,
pur rimanendo castigato dal peso di Subaru sopra di lui.
«Questo… si chiama giocare sporco…!» boccheggiò,
mentre Subaru sgusciava giù, fra le sue gambe.
«Subaru,» sussultò Seishiro, al contatto delle piccole dita
sulla propria virilità «… non… non t’azzardare!»
esclamò, poco convinto delle sue stesse parole «Non voglio che
tu lo faccia, s… oh mio Dio.» singhiozzò, annegando
fra le sue labbra in un dondolio estenuante, avanti, indietro e poi di nuovo
in avant—
Con un gemito strozzato, avvertì l’orgasmo incipiente e si ritirò
un attimo prima di esplodere sul serio, per poi accogliere il ragazzino sul
petto. L’ossigeno ricominciò a fluirgli nei polmoni.
«Che guastafeste che sei!» si sentì dire da una voce teneramente
imbronciata e affannosa
«Signorino, non voglio… ricordarti altre cose.»
«Non c’è alcun problema. Adesso era il tuo, non quello di
qualcun altro.»
«Non c’è bisogno che tu lo faccia, adesso sei di nuovo un
ragazzo perbene…»
«Aah, Seishiro, è l’una del mattino e siamo nella nostra
camera da letto, a chi dovrebbe importare se gioco un po’ con i gioielli
di famiglia? E poi… tu con me lo hai fatto…»
Seishiro gli accarezzò il viso con aria paziente. Sentirlo parlare in
tono così concitato era cosa ben rara…
«Guarda che se lo dici con tutta quest’innocenza comincio a spaventarmi,
sai?» sussurrò, dandogli un bacio sulla guancia. Si alzò
e frugò fra i vestiti per una sigaretta e l’accendino, poi si mise
a fumare accanto alla finestra aperta, protetta dalla tapparella, per non dar
fastidio a Subaru, che, intanto, si era seduto a gambe incrociate.
«Il fatto è che quando si tratta di darti piacere sono sempre il
solito imbranato.»
«Cosa?!» fece Seishiro, voltandosi «Subaru, tu—»
Silenzio. Prima c'era stata la sua insicurezza, adesso, invece, c'era quel suo
traboccante erotismo. Incredibile quanto il baricentro delle preoccupazioni
di Subaru fosse volubile. Com’era giusto che fosse, fra l’altro.
Dividersi fra due realtà diverse, cercare equamente il modo per godersi
il reciproco desiderio, essere parte di una famiglia che famiglia non era ma
che era perfetta così, essere feriti e sentire che il balsamo, su quelle
ferite, brucia un po’… erano i tanti variegati riflessi del loro
stare insieme, di quella loro piccola, altalenante realtà fuori dal mondo
e anche dal buonsenso comune, probabilmente.
Guardò Subaru. La lampada accesa sul comodino gli investiva d’oro
chiaro la pelle nuda.
Il loro mondo lo custodivano l’uno nell’altro.
«Mister Imbranato…»
«Mh?»
Subaru rise della sua malizia.
Seishiro, dal bel mezzo delle sottili tende bianche, gli tese il braccio.
«…Vieni qui.»
Subaru scivolò giù dal letto, appoggiando la mano sulla sua, per
lasciarsi attirare giocosamente contro l’amante caldo e vellutato, trepidante
come un bambino. E rimasero a fare l’amore in bilico sull’odore
della notte, la tapparella chiudeva gli occhi del mondo di luci e colori e caos
che si apriva a strapiombo sotto di loro e che tentava di richiamarli col suo
strombettio molesto.
Non gli avrebbero risposto fino al mattino.
«~owari
_+_
Postfazione…
4 luglio 2006, ore 1:50. Sarà che con la modalità di scrittura
in anteprima di stampa questo finale conta DICIASSETTE PAGINE E MEZZO (note
escluse), ma mi sento così sfinita dalla sola idea di aver finito Flesh
da non avere nemmeno qualcosa di veramente concreto da dire. La prima cosa che
mi frulla in testa sono i ringraziamenti. Non posso non farli a lisachan, che
ha assistito per prima alla gestazione dell'idea, che è stata buttata
giù solo molto tempo dopo. Questo fa di lei la co-mamma di questa fic,
che per me è importantissima (com'è lecito che sia, del resto
XD), se non altro perché è la prima fic a capitoli che concludo,
sebbene in un lasso di tempo considerevolmente lungo. No, io non posso scrivere
un libro, faccio prima a morire di fame. Ma non divaghiamo. Fondamentale per
la stesura è stato l'aiuto di Michiru, che ha sanato tutte le lacune
di cultura giapponese della sottoscritta durante lunghe, lunghe chattate nottetempo
e ha preso a cuore questa fic quasi quanto me. E poi c'è Milako, il cui
fleshoso sostegno, con i suoi meravigliosi disegni e il suo continuo stimolo
è la cosa più bella che una piccola scrittrice amatoriale come
me possa ricevere in dono.
E come dimenticare loro, il mio duetto fiorentino, il mio dono del cielo, le
mie mitiche, insuperabili zie, Harriet e Shu, che non amano lo slash estremo,
ma che mi hanno sostenuta, confortata, elogiata nel leggere queste pagine. Grazie
a Nausicaa, perché spero che queste mie pagine conclusive le regaleranno
un sorriso, grazie ad Arianna di volermi bene grazie a Caska per le indispensabili
lezioni di anatomia, grazie a hohoemi per volere bene a questa storia, grazie
a chi ho dimenticato di nominare, grazie a chiunque abbia letto questa storia
e ci ha trovato qualcosa di piacevole, grazie davvero. Anche se lo spinoff di
lisachan è in arrivo e portarla a termine è stata una liberazione,
Flesh mi mancherà da morire, sigh! La mia piccina! A dire il vero, durante
questi sette mesi d'assenza (di cui solo due mi hanno davvero vista all'opera
con questo finale, se vogliamo essere schifosamente sinceri), il capitolo uno
e parte del capitolo tre sono stati revisionati. Pian piano lo saranno anche
i rimanenti quattro (questo lo è fino alla nausea, non lo conto.). Parlando
di capitoli, mi era venuta in mente l'idea di spezzare questo in due parti,
perché fra la scena d'azione e il resto, in cui è tutto molto
più tranquillo e fluffy, c'è un vero e proprio stacco di…
argomento (passatemi il termine, sono le due e dieci). Ma, per quanto alcuni
possano trovare stressante leggerlo tutto insieme, ho deciso di mantenere l'idea
iniziale del numero otto per due motivi: primo, ne volevo otto e otto sarebbero
stati (LO SO che non è un motivo intelligente, hush! ;-;) e, secondo,
nel caso avessi spezzato questo malloppo, l'ipotetico capitolo nove sarebbe
stato davvero TROPPO fluffy. Ne andava della dignità di Seishiro, che
è stato il più bistrattato, in termini di attinenza al carattere
originale.
Giacché ci siamo, spendiamo pure qualche parolina su questi personaggi
rifatti ex-novo. Mi sembra giusto partire dagli indiscussi protagonisti, nonostante,
oramai, si sappia di tutto e di più su di loro. Più che Seishiro,
mi interessa buttare giù un righino per Subaru: il mio intento era ritrarre
un ragazzo calmo e obbediente solo perché l'obbedienza può essere
un'arma, se ben sfruttata. È intelligente, ma essendo un adolescente,
ogni tanto abbonda con le contraddizioni (vedi questo capitolo) e il dolore
lo mostra con l'indifferenza. È molto bisognoso di affetto ;_;! Seishiro
è dolcissimo, ma è un vigliaccone e spero che si sia notato che
quando fa l'amore si intravede un po' il caro, vecchio Seichan coi coglioni.
Hokuto è la solita cuoca intemperante, irriverente, risoluta, affettuosa
e scanzonata. Poi, dopo di loro Fuuma e Kamui, che hanno suscitato grande interesse
(almeno in lisachan, Koka incallita, quindi rendetevi conto dell'entità
della cosa). Sarà che di loro si dice poco e c'è il legame amore-odio
che mi è tanto caro. Fuuma è stronzo, punto. Spero tanto di aver
reso questo, mentre Kamui si è dato una svegliata, qui, e ha smesso di
frignare. Kamui è l'OOC che mi piace qua in mezzo, con Seishiro mi sento
un verme ._.". Piuttosto, una cosa che mi è rimasta impressa (e
forse è un po' presuntuosa) è quest'amore dei lettori per i comprimari,
che mi ha fatto pensare a Flesh un po' come a un manga: come al solito. TUTTI
(ma non io) hanno più simpatia per i comprimari. A proposito, la lemon
FXK l'ho scritta in stato di trance, alle otto e venti del mattino. È
per questo che mi piace.
Mi sento anche in dovere di difendere Yuuto. Vedete, in X io lo amo. SO che
il suo qui è un ruolo ingrato, ma era l'unico abbastanza virilotto per
ricoprirlo. Al contrario, pur rimanendo anche lei una comparsa, Setsuka gode
ancora una volta del mio amore, perché è abbastanza importante
anche se non appare in scena.
Per concludere in bellezza, due piccole flesh-curiosità. Quando Flesh
era ancora una vaga idea, avevo intenzione di infilarci Karen in veste della
prostituta che prende Subaru sotto l'ala. A parte questo… avrete notato
che non si usano mai preservativi, nonostante le numerose scene lemon nella
storia. Considerato che i nostri eroi sono in un ambiente di scarsa prevenzione
delle malattie veneree, una cosa simile significa girare in costume al Polo
Sud e pretendere di tornare vivi XD. Purtroppo, non avendo fatto il calcolo
dell'eventualità all'inizio, ho tralasciato il particolare, anche perché
sarebbe stato un metti-e-togli continuo e a Seishiro poi venivano i nervi. Ma
a parte questo... se proprio volete... fate conto che li abbiano messi XD anche
se io non lo dico XD. Altra cosa, mi sono accorta, scrivendo quest'impresa,
che non sono brava a delineare gli ambienti di sfondo, bah ;_;!
Ad ogni modo, adesso è ora di chiudere, con tutto l'amore che nutro per
questa storia. Ma ci rivedremo è_é".
Vi voglio bene