[Final Fantasy XII] Adesso e nell’ora della nostra morte

Titolo: Adesso e nell’ora della nostra morte
Fandom: Final Fantasy XII
Personaggi: Ashelia B’Nargin Dalmasca, Basch Von Rosenburg, Vossler York Azelas, Vayne Solidor, Larsa Solidor
Parte: 1/1
Rating: PG13
Parole: 3071 (Word 2019)
Note: per il COW-T, sesta settimana, missione 2; un pizzichino di NSFW e violenza, what if talmente pesante che è praticamente AU considerato pure quanto ricordo del canone… adesso voglio rigiocarlo, cazzo XD mi manca.

Adesso e nell’ora della nostra morte
[COWT #11] diplomazia

Quando una freccia archadiana passò da parte a parte il petto di Rasler Heios Nabradia, Lady Ashe rifiutò gli abiti da lutto che le ancelle avevano preparato per lei senza proferire parola. Si pose alla testa del corteo funebre che arrivava da Dalmasca con indosso l’abito da sposa intonso, i lunghi pendagli d’oro che baluginavano di sangue nella luce del tramonto. Qualcuno del suo entourage borbottò di oltraggio e di condotta irrispettosa, cercando addirittura di farle cambiare idea – persino Nabradia avrebbe potuto tacciare Dalmasca di protervia e insensibilità, frantumando, di fatto, l’unico baluardo contro la minaccia imperiale.
«Non mi interessa,» fu la risposta secca che l’intero corpo di ambasciatori, dalmaschi e non, ottenne da lei «sono la sua sposa, e lo sono stata dal momento stesso in cui mio padre mi ha promessa a lui, non mi importa che non sia riuscito a portarmi all’altare per dimostrarlo.»
Imbarazzati, i vecchi funzionari si strinsero nelle spalle, senza più il coraggio di guardarla negli occhi.
«Voglio che tutta Ivalice veda cosa Archadia mi ha rubato, cosa ha rubato a Dalmasca e a Nabradia.»
Nessuno obiettò oltre.

*

Scese dal chocobo striato della polvere del deserto per salire la scalinata che conduceva al catafalco aperto, sommerso di fiori bianchi. Rasler dormiva con il sorriso indifferente dei giusti. La corazza d’oro era un artefatto da cerimonia che nulla aveva a che fare con la guerra, adatta solamente a coprire lo scempio compiuto sul suo corpo di ragazzino. Lady Ashe accese una candela e cominciò a pregare a mezza voce su di lui, neppure si accorse delle lacrime che le annebbiavano la vista. Quando la mano del Capitano von Rosenburg si appoggiò sulla sua spalla, la principessa trasalì, per poi scrollarsi il suo tocco di dosso. Finita la preghiera, scesero le scale fianco a fianco, in silenzio, i braccialetti che davano un fine rintocco di campana a morto.
«Mi avevate promesso che lo avreste riportato da me.»
«Lo so.»

*

«Non ci sarà un altro principe.»
«Vostra Altezza–»
«Mio padre vuole fare di me una pedina e voi state dalla sua parte?»
«Sapete meglio di me che sono un semplice messaggero e che la salvezza di Dalmasca viene prima di qualsiasi altra cosa.»
Ashe gli scoccò un’occhiata astiosa, ma Basch era pallido come se la morte gli avesse steso la propria ombra sulla faccia.
«Credete di potermi impietosire con la retorica patriottica? Del resto, io sono l’ultima goccia del seme di Raithwall e della sua stirpe, non vi sono ragioni per cui a Vayne non convenga chiedere la mia mano. Mio padre, tuttavia, dovrebbe rifiutare, a salvaguardia della sua dignità, se proprio la mia non gli sta a cuore.»
«Chi perde, Vostra Altezza, non ha diritto alla dignità, o alla scelta.»
«Non diventerò Imperatrice d’Archadia.»
«Non sarete sola, Altezza. Vi seguirò anche in capo al mondo, se dovesse rivelarsi necessario.»
«Non se potrò evitare che lo sia, Capitano.»

*

«Siete l’unica in grado di poter agire liberamente nell’interesse di Dalmasca, nel cuore della roccaforte dei nostri nemici.»
Ashe squadrò il capitano Vossler con manifesto disgusto, tutto il viso contratto nello sforzo di non sputargli addosso.
«Tutte ottime ragioni per infilarmi nel letto di Vayne Solidor e farmi partorire la sua discendenza, quindi!»
«Credete davvero che vostro padre vi stia infliggendo di buon grado questo destino?»
«Non ho assolutamente intenzione di farmi infliggere alcunché!»
«E io non ho più voglia di ascoltare i vostri irragionevoli capricci» sentenziò Sua Maestà. Apparve d’improvviso alle spalle del suo capitano, spalancando il gigantesco portale di zaffiro che sigillava l’accesso ai suoi appartamenti.
«Padre–»
«Il capitano Azelas è qui per sposarvi per procura, non per negoziare con voi.»
«Cosa?»
«Partirete domattina per Archades. Il vostro seguito è già pronto, il vostro trousseau verrà riutilizzato per queste nozze, ho provveduto ad ordinare già settimane fa che tutti i monogrammi fossero sostituiti. Il pagamento della vostra dote ad Archades è già stato pattuito e l’Impero vi ha accordato una pensione di quattrocentocinquantamila gil, che diventeranno settecentomila non appena partorirete un figlio maschio, garantendovi anche l’accesso in Senato, con una posizione di rilievo – a fronte di migliaia e migliaia di morti, direi che il vostro sacrificio è dovuto e necessario, per Dalmasca.»
Non le rimase che annuire. Vossler si finse suo marito sotto lo sprizzo di qualche goccia d’acqua benedetta, dopodiché Ashe indietreggiò di due o tre passi. Dopo essersi esibita nell’inchino dovuto, si allontanò lungo il corridoio a passo svelto, le lunghe vesti bianche di sposa perduta che s’intrecciavano dietro ai calcagni come nebbia. Vossler e Basch la raggiunsero in un frastuono d’armatura, fiancheggiandola come due idoli di pietra.
«Vostra Maestà Imperiale non è sola» sussurrò Vossler al suo orecchio. Ashe, chiudendo gli occhi, sentì il nuovo titolo scavarle l’anima come una spina. Si lasciò sfuggire un sorriso aspro: ormai, non aveva più importanza.

*

In onore delle più antiche tradizioni, la sposa condusse il suo viaggio in una berlina dorata, seguita da un corteo di centinaia di segretari, sguatteri, cucinieri, camerieri e valletti. Elevati da Sua Maestà al rango di ambasciatori, il capitano Azelas e il capitano Von Rosenburg decisero di viaggiare comunque in sella ai loro chocobo, ai lati del cocchio principesco, con in gola il fuoco e la sabbia di quindici giorni di viaggio.
Le porte di Archades si aprirono per lei in un tributo di fiori e ovazioni, come per tutte le imperatrici che l’avevano preceduta. Con le mani cariche di anelli incrociate sulle ginocchia, Ashe restava rigida e insensibile come gesso, ingualdrappata in un pesante abito di velluto viola, di foggia squisitamente arcadiana. La gorgiera di merletto bianco, pesantemente inamidata, era un corpo estraneo attorno alla gola, che la faceva sembrare uno strano giullare.
Nelle sale d’ardesia del Palazzo Imperiale, tuttavia, venne accolta con il gelo che si confaceva all’élite archadiana – la conferma delle sue aspettative le fece quasi tirare un sospiro di sollievo.
«Vostra Maestà Imperiale» esordì il Giudice Ghis, con un profondo inchino e un baciamano. Nessuna delle sue rigide osservanze del protocollo riusciva a celare l’evidenza – sembrava che il magistrato avesse ingoiato un cesto di lumache. La precedette di alcuni passi per portarla da quello che era oramai suo marito a tutti gli effetti.
Un’ondata di nausea le si rimescolò nello stomaco. Madida di un sudore acido sotto il drappeggio pesante di quegli abiti stranieri, Ashe continuò ad avanzare senza dare al suo nemico alcuna soddisfazione: solo Basch e Vossler si lanciavano sguardi preoccupati. Lei si limitò a ricordare a sé stessa del medaglione con l’effigie di Rasler nascosto in una cucitura della chemise, dove Vayne Solidor non sarebbe potuto arrivare neppure volendo, e mise un piede davanti all’altro con la sensazione che il fuoco della sua rabbia potesse scavare un solco nel pavimento.
Vestito a lutto per la morte dell’Imperatore Gramis, Vayne la attendeva in piedi, di fronte alla sua scrivania di marmo, con indosso un mantello bordato d’ermellino. Appena la vide, lo adagiò con un gesto morbido, ma palesemente artefatto, fra le carte ancora sparpagliate dietro di sé, infine le venne incontro.
«Mia sposa,» disse soltanto, un guizzo giallo di predatore negli occhi mentre si chinava sulla sua guancia per un tocco di labbra a stento percepibile «voi avete fatto la salvezza del vostro popolo e del mio.»
Rimase impietrita nel campo elettrico dei suoi capitani, appena dietro di lei, sempre al suo fianco, ma riuscì a fingere di sottomettersi con docilità alla mano dell’imperatore archadiano, che decise di condurla dal nunzio per prenderla formalmente in sposa.
Fu Basch ad accompagnarla fino all’ingresso delle sue nuove stanze, in cui i bauli, arrivati prima di lei, erano stati scoperchiati e svuotati, per dare alla nuova arrivata l’impressione di non aver mai lasciato la sua prigione.
«Vayne ha tutto sommato ragione, Maestà,» esordì Basch, esitando, mentre Ashe lo invitava con un cenno a prendere posto su una delle poltrone «non dimenticate che siete qui per salvare il vostro popolo, è vostro compito far sì che Archadia onori subito i termini dell’accordo.»
«Voi non sapete cosa mi state chiedendo, e smettetela di usare quel titolo!»
«Signora,» rispose lui, come se non l’avesse udita, alzandosi con slancio dalla sedia e prendendole il viso fra le mani, dimentico, ad un tratto, del protocollo e di tutti i suoi dettami «quando l’Imperatore giungerà, stanotte, per consumare le nozze che si è comprato, ricordate solo qual è il vostro scopo, qual è la vostra missione: avere il giusto lasciapassare per entrare in quel Senato, possibilmente prima che Archadia abbia il tempo di ribaltare le sorti del vostro popolo.»
Ashe, consapevole di come ogni palazzo straniero possedesse occhi e orecchie, schioccò le dita: una barriera magicka avvolse le pareti. Non sapeva per quanto tempo potesse reggere – probabilmente abbastanza per coprire ogni parola.
«Sappiamo tutti che le generose profferte di pace di Archadia nascondono un tranello, ragion per cui dobbiamo essere più veloci e scaltri di loro. Un drappello dei miei uomini più fidati, a Dalmasca, presidia vostro padre giorno e notte,» disse, col fiato corto, passandosi una mano fra i capelli, la fronte punteggiata di sudore «ma gli uomini sono di carne e possono essere comprati. Credete che Vossler ed io vi avremmo mandata qui al massacro? Voi siete Dalmasca, signora. Voi siete la pace della vostra terra fatta carne, e dovete negoziarla con ogni mezzo necessario, nel momento che sarà più opportuno. Quando questo arriverà… beh, ve ne accorgerete. Io lo so. E sarò qui, accanto a voi.»
Non si accorse neppure che Lady Ashe non si era ribellata al suo tocco, ma vi aveva riposato dentro le guance. Si guardarono in silenzio, fino a che lei non si ritrasse da quella carezza sconveniente e annuì, un movimento così minuscolo da sembrargli un gioco di luce sulla pietra.
«Così sia.»

*

Fu subito chiaro a tutti che la principessa ereditaria di Dalmasca fosse giunta ad Archades non in qualità di legittima imperatrice, bensì come un ospite indesiderato e transitorio, che oscillava fra la prigioniera di guerra e la bambola ornamentale: negli appartamenti che le erano stati assegnati vi era un gigantesco terrazzo coperto. Era un colonnato semicircolare, rivestito d’oro e di marmo. Dopo i primi giorni trascorsi a tentare di captare con l’ingegno e gli incantesimi i segreti dell’Impero e dei suoi consiglieri, s’era andata a sedere, sola, fuori dalla finestra, per annusare l’aria umida della notte: nessuna delle nuove ancelle archadiane, scelte da Vayne in persona, osò seguirla, poiché l’Imperatrice le trattava con alterigia e diffidenza, quasi sfidandole a prender confidenza come lei. Naturalmente, sospettava – completamente a ragione – fossero spie prezzolate di Casa Solidor, motivo per cui trascorreva la maggior parte del suo tempo con il capitan Von Rosenburg, la cui presenza incuteva il timor degli dèi in tutti gli estranei. S’intratteneva con lui a parlare di frivolezze da dama, lamentando la partenza di Lord Azelas, ripartito per Dalmasca.
Basch le aveva insegnato un po’ di linguaggio in codice a mo’ di passatempo, quando era bambina, e la sua signora non aveva esitato a servirsene quand’era divenuta una donna – discutevano con animosa disperazione di come Lord Vayne non fosse ancora venuto a consumare le nozze, ed era sempre più difficile, per lei, perorare per allusioni la causa del suo sollievo in merito. Basch stesso si rese conto della difficoltà sulla propria pelle, sperticandosi sulla necessità di ricordarle che la situazione era in una fase di stallo, e che sarebbe stato vitale fuggire prima che qualcuno si prendesse la briga di formalizzare il suo stato di prigioniera.
Qualche giorno ancora, Basch, ripeteva lei, civettuola, qualche giorno ancora, e il ricamo sarà terminato.

*

«Che mio fratello non subisca il fascino delle belle donne è ahimé risaputo, ma che vi usi il disonore di non rispettare il patto preso con Dalmasca è inaccettabile.»
Lord Larsa si fece ricevere pochi giorni dopo il suo arrivo – Ashe e Basch si fecero lavare dallo scroscio placido e inappropriato delle sue parole, chiedendosi se fossero stati scoperti.
«Mio fratello perde il proprio acume politico, ne sono sinceramente preoccupato.»
Era poco più di un ragazzino, dall’aria innocente e delicata, ma parlava con la voce solenne e impostata di un grande d’Archadia. I suoi occhi azzurri la squadravano con una gentilezza che non ancora aveva incontrato, da quando era arrivata nella sua casa.
«Non abbiamo molto tempo, Maestà,» disse, bisbigliando «mio fratello sta architettando qualcosa di terribile, dovrete fermarlo adesso, ora che siete ancora in grado di negoziare per voi ciò che la mia famiglia vi ha promesso. Il Senato ha bisogno di voi, perché voi volete la pace, per tutti noi.»
E fu così che venne spesso ad unirsi alle loro chiacchierate.

*

Infine, Sua Maestà venne a farle visita.
Spuntò dalle ombre col suo mantello di velluto addosso. In ossequioso silenzio, la servitù gli aveva fatto strada con una lanterna. Vayne rise sonoramente al vederla rannicchiata nelle coperte a lume di candela, aspettandosi probabilmente di trovarla affaccendata a confabulare coi suoi Giudici Magister, e non sola, coperta di innumerevoli strati di mussola bianca.
«Signora» le disse, con un cenno del capo. Si sedette sulla sponda vuota del letto senza permesso, sfilandosi una ad una le dita dai guanti di cuoio. Ashe tese i muscoli del collo, pallida come la cera fra i riflessi caldi delle fiamme. Pallida rimase, mentre suo marito si accomodava sopra di lei, le ginocchia a lato dei suoi fianchi, e separava i minuscoli bottoni delle sue vesti da notte dai loro occhielli, senza neppure una parola.

*

«Sono incinta.»
Per la prima volta da troppo tempo, Basch vide la principessa di Dalmasca prendere vita dalle ceneri del suo travestimento archadiano – lo sguardo le si accese di una luce incontenibile, rapace, tanto da costringerlo a trattenere il sorriso che gli si stava stirando sulle labbra. Lord Larsa, oramai abituato al viso smunto dell’Imperatrice e alle lunghe vesti variopinte che l’avvolgevano a mo’ di sudario, ne rimase estasiato. Ashelia B’Nargin Dalmasca riprese, in un attimo, il colore e la vitalità della stirpe sacra e guerriera cui apparteneva – l’obolo di scambio era finalmente suo. Larsa sapeva che, in diverse circostanze, avrebbe avuto il dovere di dispiacersi per l’amato fratello, e anzi di salvaguardarlo, ma Vayne era oramai oltre ogni possibilità di redenzione, e solo quel che restava di Dalmasca aveva avuto l’ardire di ribadirlo con la forza di chi non accettava il collo spezzato da un giogo venuto da lontano.
La macchina delle ribellioni, tuttavia, aveva bisogno dell’olio del cerimoniale. Nessuno dei suoi ingranaggi poté muoversi fino a che lo stato di Lady Ashe non fu impossibile da celare e venne, pertanto, annunciato in modo ufficiale. Chiazzata di un pallore verdastro, l’Imperatrice vomitava rumorosamente nel vasellame da notte. Tale era la sua sofferenza, che persino le spie di Lord Vayne cominciarono ad avere pietà di lei, al punto che qualcuna di quelle ragazzine arrivò a pregare l’Imperatore di non lasciare sola la giovane sposa, per paura che morisse soffocata nel proprio vomito, vanificando, così, tutte le pretese di Archadia su Dalmasca. Vayne ritenne opportuno capitolare; mai avrebbe pensato, in vita sua, che si sarebbe un giorno ritrovato a tenere nella sua la mano bianca e sudaticcia di Ashe di Dalmasca, il reticolo azzurrino delle vene disegnato nelle trasparenze della pelle, mentre una ragazza le teneva la testa e una le allontanava i capelli dalla faccia. Dopo cena, tutti e tre si assopirono reclinando il capo come tre colombe sul baldacchino.
Ashe aprì un occhio, districò la mano da quella di Vayne e, scivolando a piedi scalzi giù dal letto, si sbarazzò dei piatti d’argento avanzati dalla cena, su cui sopravviveva ancora qualche avanzo. Qualche speziale troppo zelante avrebbe potuto subito farvi caso, perciò le parve saggio non correre rischi. Allo stesso modo, svuotò in un vaso di fiori le fiale d’emetico e i sonniferi che affollavano i suoi cassetti. Afferrò la bisaccia di pelle di lupo malconcia ripiegata nel doppio fondo e vi cacciò la cassetta d’argento che conteneva tutti gli accordi stipulati con l’Impero – non era un modo ortodosso di negoziare, certo, ma del resto Vayne non conosceva la strada della diplomazia se non appaiata col sotterfugio. Se proprio doveva scoppiare una guerra, che almeno scoppiasse a loro vantaggio.
Basch, che camminava fuori dalle sue stanze col passeggio nervoso di un padre impaziente in tempo di puerperìo, scattò come un grosso gatto quando vide la lanterna rossa di Lady Ashe bruciare alla terrazza. Fece cenno a Larsa, intabarrato nella sua mantella di pantera, lo seguì nella notte fino al talamo dell’Imperatrice – il segnale era giunto.

*

Lady Ashe sciacquò il coltello in una delle fontane decorative che sciabordavano lungo il perimetro della stanza da letto, per poi infilarlo con cautela d’artigiano fra le dita dell’ancella profondamente addormentata. Evitò con cautela la pennellata di sangue gocciolato fino ai suoi piedi e, con l’aiuto dei compagni, sognando già il deserto, scivolò fuori dalla finestra. Incurante delle sue proteste, Basch la prese il braccio per spingerla nell’interstizio fra le colonne – aveva legato una grossa corda alla base di una di esse. L’estremità si perdeva nel vuoto, a strapiombo oltre uno strato di nebbia. Lady Ashe vi si avventò senza paura, Basch e il principe imperiale la seguirono, presi quasi di sorpresa dalla sua foga.
In equilibrio sul pinnacolo dorato del Palazzo Imperiale non videro il messaggero che, alle porte della città, frustava senza tregua il chocobo sfatto di polvere e di fatica.
Fermato dalle sentinelle, non poté offrire loro alcuna giustificazione. Si limitò a sollevare con mano tremante il suo dispaccio, chiuso con la ceralacca da lutto.
«Re Raminas non è più – il più fidato dei suoi capitani lo ha passato a fil di spada!»
Ignari, risorti a nuova vita dall’enormità della loro impresa, i fuggiaschi già galoppavano verso la steppa, senza scarpe e senza bagagli, ad eccezione del premio ottenuto dal loro negozio. A labbra strette, mentre Basch spronava il chocobo, Lady Ashe si teneva la mano sul ventre. Lord Larsa si strinse nel mantello, guardando con aria quasi sognante le prime luci slavate dell’alba.
A Dalmasca, mentre il sangue si rapprendeva in una nera fanghiglia nelle vene squarciate del suo re, Vossler York Azelas baciava le vesti di un Giudice Magister, attendendo il loro arrivo come un condannato attendeva sul collo la scure.
Col volto celato dall’elmo, Gabranth si permise il lusso di un sorriso: presto Lord Larsa sarebbe stato a capo dell’Impero quale legittimo fra i legittimi, come Lord Gramis gli aveva chiesto.
Non restava che aspettare.

~

A/N 16 marzo 2021, ore 15:34. Non scrivevo su FFXII da sette-otto anni: mi sento come se stessi provando un vestito che mi piaceva tantissimo, per scoprire che è diventato di parecchie taglie più scomodo. Non ricordo più molto del canone, ma questo era un plot tipo del 2010 che nella mia testa era estremamente affascinante – dopotutto, l’unico cui non avevo ancora appioppato Ashe, dall’inizio della mia permanenza in questo fandom, era Vayne. Perdonatemi se l’iniziativa che l’ha ispirata mi ha costretta a tirarla un po’ via: la fretta, accompagnata da lavoro e stanchezza, è una cattiva consigliera. Oltretutto, Ivalice si sente poco, ma spero non vi dispiaccia.

Juuhachi Go.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *