Titolo: Jesus alone
Personaggi: Evdokiya Semenova, Nicola II e la sua famiglia
Parte: 1/1
Rating: PG13
Parole: ~1668 (Word 2019)
Note: per il Writober 2020; … angst, credo? Boh, insomma, sono gli ultimi Romanov, non che facciano chissà che bella fine. Angst perosmosi e aspettativa?
Jesus alone
[Writober 2020] #21 – Intreccio
Ekaterinburg, 15 luglio 1918
Quando Evdokiya Semenova fu scortata dal drappello di guardie per pulire i pavimenti della Casa Ipatiev, aveva la schiena già rotta dalla fatica. Di primo mattino, nell’aria appena tiepida dell’estate siberiana, aveva scrostato i pavimenti delle baracche dei soldati. Con i loro stivali, avevano trascinato ovunque il fango paludoso delle strade, che si era rappreso in lunghe scie grasse ed era venuto via solo dopo che le si erano spellate le mani. Continuò a massaggiarsele delicatamente mentre saliva le scale. Quando fu al cospetto dei prigionieri, la Famiglia Imperiale era tutta riunita in salotto. Se ne stavano compatti fra loro, ma si voltarono per distribuire gran sorrisi a quelle facce nuove, diverse da quelle dei loro carcerieri, che, per contro, li scrutavano con cisposo sospetto, aspettandosi di carpire il loro confabulìo. Yurovski lasciò il suo fianco e si mise a pattugliare l’ingresso, scoccando, di tanto in tanto, qualche occhiata cupa a Nicola II. In realtà, l’imperatore deposto era semplicemente intento a giocare a bezique con il resto dei prigionieri, con la faccia grigia di chi ripeteva il gioco ancora e ancora, all’infinito. Piegate e unticce della sua disperazione, le carte si rimescolarono un’ultima volta sul tavolo, prima di esservi dimenticate.
Evdokiya, che, al pari delle sue compagne, non aveva il permesso di rivolgere loro la parola, si limitò ad un profondo inchino.
Si sentiva stupida e leggera: mai avrebbe pensato, solo qualche tempo prima, di poter vedere in carne ed ossa la Famiglia Imperiale, i cui membri erano stati da sempre descritti come ineffabili in grazia e bellezza. Dovette ammettere un primo attimo di estrema delusione: Nicola II, colui che era stato il Padre di tutte le Russie, era un ometto dall’aria pallida e dimessa, molto più basso e mingherlino di com’era stato sempre ritratto. Sotto la barba punteggiata di grigio, la bocca si curvò in una vigrola di tristezza ancora più profonda, mentre sollevava lo tsarevich dalla sua sedia a rotelle, per adagiarlo sul letto, maneggiandolo con la delicatezza timorosa che si riservava ad una statuina di cristallo. Il ragazzino ne sembrava essere pienamente meritevole: era stato sempre descritto come la promessa di rinascita della Patria, un florido cherubino, tutto rosa di salute. Agli occhi di Evdokiya, quel bambino, che sì, emanava l’umana dolcezza di chi stesse uscendo dall’infanzia, aveva un’aria fragile e smunta che nulla aveva a che fare con la prigionia, se lo sentiva nei polmoni, butterati di stenti e di tubercolosi. Il suo era il bianco un po’ carnevalesco di chi era malato da lungo tempo, e malato per morire, forse addirittura più di lei: attorno alle orbite aveva due cerchi di stanchezza neri e profondi, ma lo sguardo vivo e lucente di un animaletto preso al laccio.
La zarina supervisionava suo marito in silenzio: la sua presenza riempiva la stanza in una pesante zaffata di alterigia. Se ne stava rigida e in disparte come se fosse ancora in una Sala delle Udienze, ma, quando guardava lo tsarevich, assottigliava le labbra insieme a tutta l’espressione del viso.
Le Granduchesse, invece, sembravano serti di fiori. Vestite tutte uguali, nelle loro camicette di seta bianca e nelle lunghe gonne nere, portavano i capelli tagliati corti. Evdokiya ne aveva sempre gelosamente conservato le foto che venivano distribuite al popolo: aveva fantasticato a lungo sulle loro vesti bianche e leggiadre, sui loro lunghi riccioli bruni, sui fili di perle che adornavano i lunghi colli aggraziati, destinati al bacio di qualche fortunato re-cugino al di là del mare.
Le ragazze che aveva davanti a sé, però, non conservavano nulla della ricercatezza artificiale e un po’ sognante dei loro ritratti: avevano le guance rosate di un frutto maturo, e grandi occhi ardenti, che splendevano di vitalità, al contrario di quelli dei loro genitori. I passi di Yurovsky, all’ingresso della stanza, si arrestarono: qualcuno lo chiamò a gran voce dal piano di sotto, così diede la schiena ai prigionieri, per scendere le scale a passo pesante.
Anastasia Romanova non perse occasione di fargli una gran linguaccia, cosa che fece sfuggire una risata silenziosa alle sue sorelle, e ad Evdokiya, che, se non aveva in odio lui, di certo aveva in odio le sue scarpacce.
La donna cominciò il suo lavoro sotto gli occhi dei presenti, fino a che non dovette, giocoforza, spostarsi nel resto della casa, lasciando alle compagne la sala da pranzo. Le Granduchesse si mossero come topolini lungo i muri, per guidarla fino alla loro stanza.
«Possiamo aiutarvi?» sussurrò la maggiore, Olga, mentre si chinava sul pavimento insieme alle sorelle. Prima che Evdokiya potesse rifiutarsi, Tatiana, la seconda, si affrettò a spiegarle che lavare un altro piatto le avrebbe fatte diventare matte: a Tobolsk, dove le guardie erano più miti nei loro riguardi, aiutavano loro padre a raccogliere e segare la legna. Più il lavoro era duro, più riuscivano a placare i pensieri. Accanto a lei, Olga annuì con fervore. Evdokiya aveva un gran numero di questioni di cui preoccuparsi, si disse, pensando, con un briciolo di mestizia, alla febbriciattola che sarebbe salita con la sera, ma la principessa imperiale le fece una strana tenerezza: la guardò che si accingeva di buona lena a strigliare il pavimento assieme alle sorelle. Mentre Tatiana sembrava aver conservato la bellezza che Evdokiya le aveva sempre invidiato, nelle sue fantasticherie, Olga non riempiva i vestiti come avrebbe dovuto. Esitava un attimo in più di lei nei gesti, e le trasparenze della camicetta rivelavano un braccio sottilissimo.
Dalla sala da pranzo, Yurovski doveva essere di ritorno: lo ascoltò sedersi pesante su una sedia.
«Cos’ha il ragazzo?» chiese, riferendosi forse allo tsarevich. Il dottor Botkin, che aveva deciso di seguire l’imperatore in cattività, parlottò, dandogli qualche risposta inudibile, e Yurovski su disse soddisfatto.
L’attenzione di Evdokiya tornò alle sue aiutanti: Maria Romanova sembrava trarre particolare soddisfazione in quel lavoro umile. La punta della lingua spuntava appena appena dalle labbra, dandole un’aria buffa, ma l’interesse della donna erano i suoi grandi occhi, sfumati d’azzurro cupo, che la facevano sembrare uscita da un ritratto.
Anastasia rise, notando la sua ammirazione.
«Maria scoppia di salute, vero? È forte come un bue!» esclamò, sottovoce «Non si ferma mai.»
Evdokiya osservò divertita gli scherzi che rimbalzavano da una sorella all’altra, fino a che lei stessa non ne fu parte, e quell’operazione di pulizia in apparenza così banale fu irrimediabilmente contagiata dalla spensieratezza e dalla consolazione semplice, se non addirittura infantile, di quelle sconosciute così familiari. Si sforzò di pulire con lentezza e con metodo, fino a che non fu costretta ad ammettere che i pavimenti brillavano come specchi, e a riprendersi, così, i suoi attrezzi. Yurovski fu richiamato una volta ancora dai suoi commilitoni, e fu allora che Evdokiya afferrò per un attimo le mani ossute di Olga.
«Prego Iddio che non dobbiate restare ancora a lungo sotto il giogo di questi mostri!»
«Grazie, mia cara,» le rispose Olga, gli occhi giganteschi di commozione nel triangolo smagrito del viso «Lo speriamo anche noi.»
*
I suoi lucenti capelli castani erano caduti tutti, a lei come alle sorelle, prima di lasciare il Palazzo di Alessandro, quando al morbillo era subentrata la polmonite. Stavano ricrescendo lentamente, ispidi e irregolari, ma, più strana ancora dell’aria che le conferivano, era il fatto che dei suoi lunghi riccioli non sentisse poi così tanto la mancanza. L’intera sua vita nel bozzolo protetto del Palazzo di Alessandro le sembrava un sogno lontano, quasi bizzarro: le sue stanze cariche di ninnoli, le pareti tappezzate di icone d’oro come le squame d’un grosso pesce, l’olio di rose delle lampade votive, sempre accese, che impregnava i tendaggi della camera dei suoi genitori, i suoi bei vestiti di seta ricamata, chiusi negli armadi fra i mazzetti di lavanda, le libellule dipinte sull’arco della porta della sua stanza.
Quando si erano allontanati dalla loro casa, la camera di Alexei, verniciata da poco più di un anno, ancora mandava un lieve, penetrante sentore di pittura fresca: nel kiosk massiccio, le icone che vi erano state chiuse a sua salvaguardia mandavano riflessi dorati lungo le pareti.
Oggi come allora, tuttavia, Tatiana si recava in camera di sua madre, appena si svegliava, per acconciarle i capelli davanti alla specchiera. Persino Olga le diceva che era quasi più brava di chi veniva a farlo di professione, e Tatiana spazzolava contenta le lunghe ciocche, dipanandole con pazienza, le forcine piegate con zelo in un angolo della bocca. Li appuntava stretti sopra la testa, poi contemplava il risultato, guardando e aggiustando qua e là, fino a che Mama non si riteneva del tutto convinta del suo lavoro.
«Cosa ne sarà, di voi, quando non ci sarò più?» sospirava sempre.
Anche adesso, sul far della sera, alla luce di mezza candela, sgattaiolava a districarle i capelli, venati di un grigio sempre più pesante alle radici, senza che lei si facesse sfuggire una parola. Tatiana se li passava con amore fra le dita, chiudendoli, per la notte, in una lunga treccia.
Sua madre, tuttavia, non si faceva più domande.
*
Quattro giorni dopo, Evdokiya e le sue compagne andarono fino alla Casa Popov, stanche di aspettare la paga: le loro richieste erano cadute nel vuoto. Andarono in cerca di Medved, che avrebbe dovuto prendersene cura, ma non trovarono che qualche soldato dell’Armata Rossa che metteva via quel poco che aveva.
Chiamò Medved a gran voce, ma il suono si perse nelle baracche semivuote.
Lo trovarono, mezzo ubriaco, in un angolo d’ombra.
«Siamo venute per la paga!»
«Che paga?»
«Per la Casa Ipatiev» specificò, corrugando la fronte con impazienza «I pavimenti.»
«Ah. Ma non c’è più nessuno lì.»
«Come?»
«L’hanno chiusa. Se ne sono tutti andati. A Perm.»
Concluse con un gran rutto.
Evdokiya pensò alle guance tonde di Anastasia Romanova, ancora più tonde sotto i capelli da maschio, pensò alle belle foto spiegazzate nei cassetti. Curvò le spalle e allargò le braccia, facendole ciondolare in un attino di disappunto.
Poi prese il fazzoletto di tasca e vi sputò un grumo di sangue scuro.
Si allontanò, quasi sollevata.
Presto i soldi non sarebbero più stati un problema.
~
A/N 20 ottobre 2020, ore 23:49. Questo è un altro di quei prompt che mi ha fatto venire la febbre, ma non credevo avrei scritto un racconto originale. Non chiedetemi perché io abbia pensato ai Romanov: mi è venuta in mentre l’altroieri e non se n’è più andata, anche se, eccezione fatta per la parte introspettiva centrale, che era la mia idea per la drabble che questo coso doveva essere, è un aneddoto di cui non ho inventato quasi nulla. Helen Rappaport (che ha un ottimo modo di padroneggiare le fonti, e scrive divinamente), lo ha riportato nel suo Ekaterinburg, nel ricostruire gli omicidi in un bellissimo saggio. Anni fa ho letto il suo libro sulle Granduchesse Romanov, dopo aver visto questo documentario, e mi sono innamorata dell’eleganza con cui scrive e del suo lavoro certosino, anche se questo racconto è una noia. Tantissime fonti e troppo poco tempo per riconsultarle tutte. Se volete farvi un giretto nel Palazzo di Alessandro, io vi consiglierei questo sito. Il titolo è preso, per l’ennesima volta, da una canzone di Nick Cave, scelta solo per cupezza e disperazione XD. Oltretutto, devo confessarvi di aver sempre trovato le figlie di Nicola II di una bellezza davvero notevole, cosa su cui le cronache dell’epoca sembrano darmi ragione…