Titolo: Nel bel mezzo di un gelido inverno
Fandom: Final Fantasy XII
Personaggi: Ashelia B’Nargin Dalmasca, Rasler Heios Nabradia
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 4705 (LibreOffice)
Note: post-Bergan, su prompt di 12_teas
Nel bel mezzo di un gelido inverno
[12_teas] 09. Winter Ease
Il freddo era una novità per Ashe – si infilava sotto gli strati di caldo velluto bianco con un’efficienza incredibile. Rabbrividì fin nelle ossa, stringendosi nella spessa pelliccia con un tremito che fece sbattere i denti come nacchere.
Il clima bollente di Dalmasca era tutt’altra cosa. Non era mai stata abituata a portare abiti tanto pesanti, e il loro abbraccio la faceva sentire goffa e inadeguata.
Il cocchio oscillava in bilico su una strettoia di roccia, mentre la neve delle Gole di Paramina turbinava come uno sciame di insetti impazziti attorno a loro, nel lugubre, violento fischio del vento.
La giovane principessa osservò suo padre, assiso dall’altro lato del sedile. Fissava quietamente la parete della montagna spruzzata di ghiaccio, come se stessero percorrendo le ampie strade di Rabanastre, con una compostezza talmente serafica che sua figlia vi si adattò di conseguenza.
Nel mentre, si guardava la pelle liscia delle mani. Il dorso, bianco e levigato come una perla, si confondeva con il palmo, dove solo il callo causatole dall’elsa della spada ne interrompeva l’oziosa morbidezza. Della sua terra, la pelle non aveva sembianza, perché le principesse non prendevano il sole. Avrebbero tranquillamente potuto scambiarla per un’abitante di quelle montagne. Solo i suoi occhi castani, dal taglio allungato, rivelavano la sua provenienza, e il dorato riverbero del deserto. Come quelli di Rasler, a quanto pareva. Sospirò silenziosamente e infilò la mano sotto il mantello. Riemerse con un medaglione d’argento sbalzato fra le dita – un piccolo, lucente ciondolo ovale in cui era raffigurato il destino a cui era stata consegnata.
L’aveva guardato innumerevoli volte – aveva persino creduto che la carezza dei suoi occhi avrebbe potuto sbiadire la tela, prima o poi – ma fece scattare la chiusura con un rapido clac.
Dalla superficie dipinta del ritratto, uno sguardo del suo stesso colore le restituì l’occhiata. In quelle fattezze, Ashe vide dei capelli troppo chiari e delle guance troppo gonfie per un principe dal bel portamento. Quegli occhi così simili ai suoi, poi, avevano una grazia eccessivamente femminea: erano lucenti e orlati di lunghe ciglia, al punto che la principessa sperò con tutto il cuore in un errore del pittore. Della rassomiglianza con suo cugino si era vagheggiato tanto, ma Ashe, stando ai mezzi di cui disponeva, poteva riscontrare solo la stessa impronta di femminilità. Durante quei mesi di stime e trattative, non l’aveva mai palesato – non sarebbe stato raffinato farlo – ma non aveva mai smesso di chiedersi se quello fosse il vero aspetto del suo futuro marito, e se davvero lui fosse quell’esempio di virtù e dolcezza di cui sentiva bisbigliare all’orecchio: non tutte le principesse avevano avuto la fortuna di un consorte di tal fatta, ma non per questo avevano sacrificato il bene di Dalmasca.
Era bene ricordarlo, ogni tanto, si disse, stropicciandosi gli occhi. La strada per Bur-Omisace era ancora lunga e impervia, realizzò stancamente.
Rabbrividì, ma di una singolare eccitazione: l’aspetto più rasserenante di quel viaggio era l’essere ammessi al cospetto del Gran Kiltias Anastasis. Tutti pronunciavano il suo nome con deferenza, ad Ivalice; la sua sola presenza era sinonimo di asilo, pace, vetustà. Suo ed insindacabile era, ad ogni modo, il diritto di elargire la sua dispensa e la sua benedizione all’unione di una regale coppia di cugini – due figli del deserto, due regni confinanti, due speranze che discendevano dagli stessi lombi per contrastare le avvisaglie di guerra che sembravano già infiammare Archadia e Rozaria. Nessuno si sarebbe fatto cogliere impreparato; Dalmasca e Nabradia non volevano essere da meno. Con una punta di rattristato orgoglio, Ashe si disse che erano loro gli unici boccioli delle loro aspettative. Se tredici anni erano abbastanza per fidanzarli, diciassette sarebbero stati sufficienti a sposarli, in un giorno non troppo lontano.
Carezzò i caratteri minuti dell’iscrizione vergata sul retro del medaglione.
Rasler Heios Nabradia – e un nome non bastava a fungere da dichiarazione d’amore.
Quando riaprì gli occhi, la guancia esibiva il segno del finestrino a cui era stata premuta. Valsero a poco i suoi tentativi di farlo svanire: era impresentabile, proprio nel momento in cui si accorse, con immenso disappunto, che stavano già arrancando sulla china del monte di Bur-Omisace, il cui grandioso santuario si ergeva, sacro e silente, a poca distanza da loro, un’ombra confusa nella tormenta impenetrabile. Attraversata da un guizzo di paura del tutto irrazionale, si volse appena indietro per verificare se il loro rado seguito avesse effettivamente tenuto traccia dei loro spostamenti. Le Gole di Paramina erano l’incubo dei viaggiatori, e le leggende che vi circolavano particolarmente truculente.
«Non temere, Ashelia. Sono tutti qui. Non ti lasceremmo mai sola.» parlò suo padre, in un brusio sommesso, appoggiando la grande mano nodosa sulla sua. Ashe scattò a fissarlo con meraviglia – quella di aver sentito quella voce amata dopo tante ore, e di averla sentita pronunciare un nome di solito sostituito da titoli e appellativi. Sorrise al colore caldo e avvolgente di quelle parole, ripiegando la tristezza sul fondo.
Mai sola.
Se lo ripeté con convulsa frenesia anche nello scendere la pedana del cocchio, il fiato cristallizzato in uno sbuffo di vapore e la pelliccia attorno al corpo.
Il santuario si stagliava davanti a loro… e non solo quello, si disse la principessa: c’era un crocchio di gente sulla scalinata.
Gli altri convogli dalmaschi si erano accodati al suo in un fioco scricchiolare di ruote, i chocobo bianchi che scrollavano la neve giù dalle penne con soddisfazione. Ashe li invidiò con tutto il cuore, perché tremava di freddo e di paura: come sarebbe stato facile far scivolare via tutto con un’alzata di spalle, si disse, aiutandosi a toccare terra grazie all’appiglio di una mano familiare.
Sporse la testa oltre i paraventi della carrozza e le labbra tremule accennarono un sorriso.
«Vossler…» bisbigliò, con le scarpine che slittavano sul ghiaccio «Mi sento oltremodo stupida» soffiò, fissando l’uomo avvolto nel mantello che le stava venendo incontro.
«Non c’è pericolo di dare quest’impressione, Altezza, a meno che voi non facciate uno sforzo in tal senso» la incoraggiò Vossler, e alla sua mitezza era amalgamata una punta dell’usuale, paterna severità.
Ashe si limitò ad annuire brevemente, trattenendo il fiato prima che lo sconosciuto svolgesse il mantello.
«Lady Ashe» mormorarono con calore due labbra eleganti, nello sfiorare la sua mano.
La principessa trattenne un moto di stupore.
La neve cadeva in sottili bruscolini sui capelli di lui – di un biondo chiaro e lucente – e si poggiava appena sui suoi lineamenti delicati. Non era la delicatezza di una ragazza: era quella squisita di una statua antica, che – adesso riusciva a capirlo – nessun ritratto avrebbe mai potuto riprodurre.
Due scurissimi occhi castani, più a mandorla dei suoi, scintillavano vivi e intelligenti sotto l’arco lieve delle sopracciglia. Il naso era regolare, il sorriso affascinante oltre ogni dire, tanto che le parve assurdo pensare che quel ragazzo fosse suo coetaneo e che, per giunta, l’avrebbe presa in sposa nel giro di qualche anno.
«Lord Rasler» disse, ricambiando il sorriso mentre si affidava al suo braccio. Lui porse i suoi rispetti a re Raminas e al capitano Azelas, prima di rivolgersi di nuovo alla cugina.
«Venite, andiamo dentro. State tremando come una foglia.»
Ashe non ebbe motivo di controbattere, ansiosa di seguirlo al caldo, davanti ai santi occhi del Gran Kiltias.
Il corteo si avventurò su per gli scalini sdrucciolevoli, con la scorta di alcuni kiltiani. Due di loro estromisero il sovrano e il suo entourage dall’avanzare, cosicché solo Rasler ed Ashe rimasero a lasciare timorose impronte bagnate lungo l’austero corridoio. Nel mentre, fra dense volute di incenso, gli araldi appiattiti in fila ai due lati delle pareti annunciavano la loro presenza uno ad uno.
«Le Vostre Altezze Reali Lord Rasler Heios Nabradia, Principe di Nabradia, e Lady Ashelia B’nargin Dalmasca, Principessa di Dalmasca!»
Solo Ashe, tuttavia, li stava osservando. Lo sguardo di lui era concentrato solo su di lei, sull’ampio vestito bianco che la faceva già sembrare una sposa, sui capelli lasciati liberi, senza la costrizione di alcun copricapo, sul viso fine di ragazza, sugli occhi fieri e puntati in avanti con determinata serietà. Il braccio appoggiato al suo, però, sembrava contratto dalla tensione, e Rasler sorrise: dopotutto, quella donnina graziosa al suo fianco aveva pur sempre tredici anni come lui. Per una principessa destinata al matrimonio, le cose sarebbero state sempre più difficili – era forzata a subire il proprio destino; un principe si limitava ad accogliere nel proprio una fanciulla che potesse legittimamente vivere al suo fianco. In questo stato di cose, Rasler doveva ammettere che Ashe aveva avuto fortuna – l’avevano promessa a un’idealista che avrebbe fatto di tutto per non condannarla alla triste sorte di un gelido matrimonio di facciata.
«Mi raccomando, reggetevi: questo pavimento è insidiosissimo quando si bagna… confesso di aver fatto una scivolata prodigiosa l’altra volta, proprio davanti a Sua Grazia!»
Ashe rise con una mano davanti alle labbra, lieta di potersi rilassare un attimo.
«Vorrà dire che farò del mio meglio per sorreggere anche voi.»
Con un certo compiaciuto imbarazzo, vide il volto di Rasler illuminarsi contento.
«Ne sarei davvero felice» rispose, divertito da quel breve sfoggio di sagacia. Sotto la bellezza di quel viso doveva nascondersi uno spirito di vivace arguzia, il che gli avrebbe finalmente regalato una compagnia piacevole con cui confrontarsi. Adesso, tutto stava a persuadere la principessa di una simile prospettiva, perché nei suoi occhi era impressa una vaga malinconia. Non li aiutò il fatto che, una volta giunti in fondo al corridoio, un kiltiano li fermò davanti a una porta chiusa.
«Sono spiacente per le Loro Maestà, ma il Gran Kiltias è impossibilitato a ricevervi» li informò, concludendo con un inchino.
Sorpresi dalla notizia, si scambiarono una fugace occhiata, che Rasler risolse in un gioioso sorriso e in una scrollata di spalle, facendo scintillare sonoramente le placche metalliche della corazza che indossava sotto il mantello.
«Beh, nessuno di noi ha fretta, e vedo che non fa abbastanza caldo qui, per voi. Seguitemi, Lady Ashe, siete tutta bagnata e state congelando, permettetemi di accompagnarvi nelle vostre stanze.»
In effetti, Ashe non riusciva a negare che la stanchezza del lungo viaggio in mezzo al gelo avesse avuto la meglio su di lei, quindi lasciò che Rasler la conducesse lungo un corridoio laterale.
«Grazie» mormorò con sollievo la principessa, nel prendere la tazza di tè bollente dalle mani di Rasler. Si appoggiò fra i cuscini soffici del divano, inspirando il fumo vellutato della bevanda con una soddisfazione indicibile, il viso arrossato dal fuoco che ardeva borbottando nel camino del salotto.
Armeggiando con la teiera, il suo fidanzato la osservò con divertito interesse. A dire il vero, ammise Ashe, non aveva mai smesso di guardarla, sempre con aria gioviale e gentile – la vita al fianco di una persona così felice di vederla non doveva essere poi così terribile.
«Finalmente avete ripreso un po’ di colore. Il vostro vestito è ancora umido?»
«No, non mi sembra…» si accertò lei, guardando l’orlo delle proprie gonne che, nel tragitto dal cocchio alla gradinata, si erano intrise di neve fino al ginocchio.
Tuttavia, non se ne curava granché; preferiva spostare furtivamente gli occhi da un punto all’altro della stanza, fino a che Rasler, accortosene, non la distolse.
«Vi piace qui?» chiese «Erano delle stanze inutilizzate al centro del santuario che ho fatto adattare per voi, vostro padre e il vostro seguito, e di solito non ho proprio occhio con queste cose. Beh, però… il Gran Kiltias mi ha subito dato il permesso, credo abbia un debole per voi, sapete?» le confidò il principe, fra un sorso di tè e l’altro.
Ashe rise, appoggiando la tazza vuota sul tavolo.
«Mio povero Rasler, lo sapete, no, che il Gran Kiltias non ha rivali!»
«Suvvia,» si imporporò lui, allegro a sua volta «non siate così cattiva con me!»
La sua principessa si arrese di buon grado.
«Però…» si chiese, improvvisamente cupa «mi sembra strano che non ci abbia convocati subito. Che fosse immerso in un sogno su noi due?»
«Chi può dirlo…» le rispose lui, pensoso «Io sono qui da una settimana per sbrigare anche qualche altra faccenda, e devo dire che effettivamente ha voluto incontrarmi una sola volta, ed è stato anche piuttosto taciturno… Speriamo si tratti di un bel sogno.»
Ashe incrociò le mani in grembo, senza rispondere: sotto il riflesso del focolare, con le fiamme che danzavano irrequiete, allargando le loro ombre sulle pareti, Rasler vide in lei molto più che una ragazzina, o una principessa tirata fuori dal mazzo di un’alleanza politica: il fascino austero che emanava la rendeva già una sovrana, si disse, con espressione ammirata.
Indugiò su di lei a lungo, in un esame che Ashe avrebbe voluto trovare indiscreto, ma che le sembrava sentito, pieno di genuina curiosità, tenero e innocente come il suo glabro viso di ragazzo.
«Oh, lo tenete con voi» lo sentì esclamare all’improvviso, e solo allora si accorse che si riferiva al medaglione appoggiato fra le trine scintillanti del vestito.
«Sì…» rispose lei, precipitandosi ad avvolgerlo fra le mani «Mi ha fornito più spunti su di voi di quel che crediate.»
«Il che dovrebbe autorizzarmi a fare una lavata di capo a quel pittore da due soldi. Non mi ritengo un campione di bellezza, ma a tutto c’è un limite, insomma! Dovevo fare bella figura!»
«Non preoccupatevi» lo rincuorò la principessa con aria enigmatica, slacciando il gioiello per giocherellarci «Va bene così»
Nel salone allestito per la cena, i kiltiani avevano servito scodelle piene di calde zuppe d’erbe, che i commensali ingoiavano con piacere, allietati dalle note di un liutista.
Solo Ashe, stretta nel suo nuovo abito di velluto, non vi stava prestando molta attenzione, presa dalla singolare sensazione di quel pregiato manto invernale steso sulla sua pelle. Quando Rasler gliel’aveva mostrato, rigido e sontuoso nell’armadio d’avorio, lei era rimasta immobile, senza potergli offrire più di un ringraziamento stupito: non era un gesto di galanteria comune nei suoi confronti, ma il piacere che ne era derivato l’aveva fatta sentire sciocca. Sciocca e ammirata, dopo che il pomeriggio trascorso le aveva svelato un principe colto, giudizioso, idealista. Parlava di Dalmasca e Nabradia come una sola cosa, un unicum in grado di resistere alla potenza soverchiante degli imperi che minacciavano di sopraffarne il benestare – tutto consisteva nell’usare l’intelligenza e battere il gigante in velocità ed astuzia. Le aveva parlato di romanzi e di viaggi, di spade e vessilli, poesie, discendenze, facezie, leggende, felice di sentire che lei, entusiasta, faceva eco ai suoi gusti e ai suoi credo, e poi—
E poi, facendo tintinnare il cucchiaio nella zuppiera, Rasler, di fianco a lei, le tese la mano.
«Vorreste concedermi l’onore di questo ballo?»
Lo seguì al centro della sala, gli sorrise, lo abbracciò, lasciò scivolare gli occhi sulla spada assicurata nel fodero.
Il clangore dell’acciaio sovrastò la sorpresa di lui.
«È bellissima. Posso avere l’onore di provarla?» azzardò, sfilandola dalla sua custodia istoriata e sollevandola verso di lui.
Ridendo, Rasler afferrò al volo una seconda spada che, realizzò, gli era stata lanciata da Vossler.
State attento – gli sembrava dicesse il contenuto risolino del capitano dalmasco – perché Sua Altezza sa bene il fatto suo, e si tratta di un fatto assai tagliente, quando vuole.
«Certamente.»
Solo in quel momento, coperta da quel familiare frastuono, in quel roteare di merletti e di lame incrociate fra loro, Ashe gli si aprì con il sorriso consapevole di una donna.
«Forse non sono la tipica principessa che possiate desiderare, Lord Rasler.»
«Temo siate perfetta così, Lady Ashe» sussurrò, parando il suo fendente.
Il pallido sole del mattino splendeva come argento attraverso le vetrate incrostate di neve. Stavolta, la tensione non diede modo alla piccola principessa di sentire il freddo intenso che abbracciava il corridoio: procedeva rapida, con Rasler sotto al braccio e un piccolo drappello di dignitari e cortigiani raccolti sotto il sempre irreprensibile comando di Vossler. Non aveva bisogno di sostegno, ovviamente, ma tenersi stretta al ragazzo accanto a lei stava decisamente migliorando il suo stato d’animo. Mentre Lord Rasler era lì solo, in mezzo alla neve a alla rocciosa solitudine di Bur-Omisace, lei era alla sua prima visita diplomatica fuori Dalmasca, con un folto seguito di dignitari e un padre che – a quanto pareva – aveva scelto il giorno sbagliato per soffrire gli effetti di un clima tanto diverso dal suo consueto. La sua infreddatura la lasciava, suo malgrado, unico rappresentante dalmasco a cui il Gran Kiltias avrebbe potuto rivolgersi. Tutto questo senza dimenticare che Ashe incarnava, al contempo, l’oggetto della questione.
Al momento, quest’insieme di eventi la faceva sentire sperduta e in netta inferiorità rispetto a Rasler – due cose che detestava accoratamente, perché era stata educata a mantenere sempre e necessariamente le redini della situazione nel migliore dei modi.
«Lady Ashe, rilassatevi. Andrà tutto benissimo» mormorò, con un lieve tocco sulla sua spalla.
Parole da Vossler, si disse, ricambiando la sentita cortesia di Rasler con un sorriso.
Se non altro, c’era una grande dose di umanità infusa nelle radici di quel patto politico.
Di questo – pensò, quando già il kiltiano di turno li annunciava spalancando le porte del salone delle udienze – non aveva che da ringraziare gli dèi.
Oltre la porta furono ammessi soli.
«Benvenuti, figlioli» parlò l’eco di sogno del Gran Kiltias, al suono della quale Ashe e Rasler si inchinarono con deferenza.
«Non c’è bisogno di tutto questo. Alzatevi» rispose lui, un accenno di dolcezza nell’amplificarsi cavernoso delle sue parole, che giungevano dal fondo dei suoi sogni e rimbalzavano con veemenza sulle pareti di marmo attorno a loro, nel mondo reale.
«Gran Kiltias Anastasis, Vostra Grazia» lo invocò Rasler, con controllata reverenza, guardando dritto quel viso assottigliato dall’età «Sono qui insieme a Lady Ashelia B’nargin Dalmasca, mia cugina, per chiedervi di rendere santa e legittima la nostra unione» proseguì, con una sottile vena di accoramento a cui – sotto la maschera di inamovibile posatezza che indossava – la principessa guardava con ammirazione. «Due interi regni attendono trepidi la vostra risposta, e da essa la loro salvezza» aggiunse, chinando il capo, con la mano di Ashe nella sua.
«Come l’acqua nel deserto.»
«Signore?» azzardò timidamente il principe.
«Ho sognato di voi.»
A quelle parole, Ashe sentì il cuore martellarle nel petto, mentre Rasler continuava a stringere la sua mano. D’istinto, le sue dita cinsero il medaglione che ancora portava al collo in un infantile gesto di protezione.
«È stato un sogno lungo e oscuro, figlioli miei. I corvi vi hanno indugiato a lungo, prima che la luce potesse di nuovo trovarvi posto – l’animo forte è l’unica immunità allo strazio dei loro becchi, ma non è premio facile, per noi piccoli uomini.»
I due ragazzi ascoltarono con l’orecchio rapito e i cuori in allarme, sperando di captare future evoluzioni della guerra in quelle cronache sibilline, ben sapendo che la loro unione tutto aveva a che fare con il conflitto – udirne lo svolgersi significava sentir parlare in minima parte di se stessi.
«Non c’è nulla che possiamo fare, Vostra Grazia?» si sollevò limpida la voce di Ashe. A testa alta, la principessa fissò l’antico volto del saggio dormiente.
«Solo il giusto lume della nostra ragione tesserà il filo del nostro destino, principessa. Toccherà fare delle scelte, in bilico fra desiderio e giustizia, perché questa guerra trovi soluzione.»
I suoi occhi sfiorarono quelli di Rasler.
«Ma l’ombra di quel che si ama distorce la luce che da essa si fa coprire» terminò però il vegliardo, lasciando la principessa a mordersi le labbra, in cerca di risposte.
«A meno che i nostri occhi non sappiano guardare che, oltre quell’ombra amata, che mai vorremmo posporre a qualcosa, esiste il bene di una nazione.» intervenne il suo fidanzato, come a dissipare la sua nube di dubbio. Ashe gli scoccò un’occhiata grata.
«Decisamente, giovane principe» assentì Anastasis.
«Che luce sia, allora, se voi ce lo permetterete» parlò di nuovo la principessa dalmasca, accarezzando la mano di Rasler. Anche le sue dita rilucevano di un fresco biancore, ma la loro sottigliezza già prometteva la saldezza delle mani di un uomo.
Sarebbero cresciute insieme alle sue, realizzò, come rami intrecciati l’uno nell’altro.
E così sarebbe stato sempre, qualunque stormo di corvi avesse gridato sulla loro strada, qualunque fosse stata la direzione che avrebbero scelto. Non c’erano soluzioni ulteriori: era questione di sopravvivenza di due regni.
E a guardare quel viso appena teso, a guardare quel labbro appena inclinato da un fievole alone di timidezza, Ashe sentì solamente un sottile, leggero senso di gioia e fiducia camminare a piccole ditate sotto la pelle. Sembrava così tangibile che, forse, anche Rasler ne avvertì la presenza, perché la scrutò da sotto le ciglia con occhi splendenti, e la timidezza si sciolse in un composto velo di felicità. Non era eclatante, era la veste di un’occasione ufficiale, di quelle che solo chi ne saggiava ogni giorno la stoffa poteva riconoscere.
«Che la benedizione di tutti gli dèi scenda su di voi e sulla vostra stirpe, figlioli miei.»
«Faram» risposero due voci bianche, frementi nel tentativo di controllare un grido di sollievo.
Eppure, l’unico fruscio fu quello delle sue gonne nell’inchino. Frusciò la mano di lui sul suo braccio, frusciò l’orlo del merletto croccante della sua sottana, mentre si allontanavano nuovamente nel corridoio inondato di luce. Il resto, era il silenzio più pieno che avessero mai sentito.
«L’avete mai vista la brina sui fiori del giardino?» le domandò Rasler, quasi timoroso di rompere un incantesimo.
Ma no, lei non aveva mai visto la brina, gli disse, seguendo i suoi passi come la farfalla gira attorno al fiore.
In pieno inverno, impigliata fra i pizzi della camicia da notte, sotto lo spesso calore della coperta, si rese conto che il medaglione restava gelido contro il suo petto, come il cuore di un soldatino di stagno. Stanca e indolenzita da una giornata passata con la neve fino alle cosce, Ashe sorrise piano al baluginio della candela, raccogliendo la catenina sul palmo della mano per appoggiarla sul comodino, gli occhi pesanti, che già si sognavano bagnati del sole di Dalmasca. Il sole di casa, il sole che avrebbe brillato orgoglioso sul suo futuro.
E già dormiva.
«Dunque, è davvero un bel giovanotto» bisbigliò suo padre, sorridendo sotto la folta barba.
Ashe annuì silenziosamente, avanzando a piccoli passi, alla testa del corteo che, lungo e solenne, aveva appena ricevuto gli auguri di buon viaggio del Gran Kiltias.
«Volessero gli dèi la felicità del tuo cuore insieme a quella di Dalmasca, bambina!» esclamò brevemente, incrociando gli occhi pudichi e seriosi di Vossler, intento a porgere il braccio alla principessa. Intuendo di averla confusa, le sorrise, aggiustandosi le pieghe scure del mantello.
«Solo la letizia nel cuore di chi comanda protegge un regno da ogni tempesta.»
Col tempo, Ashe si sarebbe resa conto di aver creduto a quelle parole solo nell’istante in cui le aveva sentite pronunciare. Tutto il loro contesto e il loro significato sarebbero divenuti polvere di un passato lontano, ma le sarebbe rimasta l’immagine di Rasler in piedi sui gradini della scalinata innevata, che si stagliava controluce nel suo abito da viaggio, con un sorriso lieto e dorato come il sole.
«Mio re…» s’inchinò davanti a suo padre «… e mia principessa» aggiunse, sollevando con grazia la sua mano per deporvi un bacio. Ashe lo fissò con un’intensità che mai aveva osato lasciarsi sfuggire prima con nessun altro, tentando di imprimere nella mente i particolari del suo viso e farli filtrare sul brandello di tela del suo piccolo ciondolo.
«Non mancate di scrivermi, ve ne prego…» lo esortò con fare tranquillo
«Non mancherò» la rassicurò lui, facendola salire sulla vettura, i capelli che cominciavano a imbiancarsi di piccoli fiocchi «Fino a quel giorno»
Non aggiunsero altro, ma rimasero entrambi immobili, fino a che il galoppare dei chocobo non stirò sempre più la distanza fra loro, rendendo Rasler un puntino in tacita attesa della carrozza che l’avrebbe riportato a Nabudis.
Solo allora Ashe frugò fra gli abiti in cerca del suo portafortuna, ma si rese conto, con dispiacere, che qualcosa non andava.
«L’ho perduto!»
I suoi stivali infransero la neve di vetri sparsa sul pavimento, facendone scrocchiare i bruscolini come piccole ossa. In quelle stanze, fra tendaggi divelti con violenza, letti rivoltati e smembrati, cocci di suppellettili sparsi ovunque e imposte mutilate, Ashe riusciva ancora a vedere l’accogliente raffinatezza piena di promesse che le aveva animate quel giorno. Il dolore che ne derivava era così insopportabile che l’aria si rifiutava di passare attraverso i polmoni.
Tutto ciò che la mano di Rasler aveva sistemato con amore in un giorno lontano era stato sradicato dagli uomini di Bergan con la furia di un branco di animali, come a voler cancellarne l’esistenza. Dalle finestre penzoloni giungevano il vento freddo e il roco richiamo di qualche uccello solitario.
Ashe non osava muovere un altro passo. Se l’avesse fatto, non sarebbe stata sicura di poter trattenere al loro legittimo posto uno spesso velo di lacrime.
“Partiamo subito”, aveva comunicato a Balthier con glaciale risolutezza, ma adesso si trovava al centro di un cimitero da cui non poteva scappare. Il che rappresentava, forse, uno dei motivi per cui Basch fosse stato l’unico determinato a seguirla, senza azzardare una sola parola. La principessa sentiva il peso mesto e azzurro del suo sguardo sulla nuca.
«Ha macchiato il nome di Raithwall chiamandolo “cane bastardo”… ha macchiato il mio nome e quello della mia gente, e—» si voltò senza una ragione precisa, ricordando solo allora di trovarsi di fronte a un uomo che il suo stesso regno aveva bollato come infame traditore.
Eppure Basch non si era allontanato dal suo fianco.
«Non saranno gli insulti a far fremere così il sangue di Vostra Altezza, però. Me lo auguro, almeno… chi vede solo rosso dimentica la nitidezza di qualunque contorno, Maestà. Anche quello del proprio riscatto.»
«Rasserenati, Basch» tagliò corto la principessa, a voce bassa mentre, per un attimo, si piegava accanto a quel che restava della sponda del letto. Qualcosa, nel suo respiro, si spezzò impercettibilmente, ma Basch, vigile nella gravità tombale di quel silenzio, inarcò un sopracciglio nel captare quel suono inudibile.
Ashe, intanto, raccolse il medaglione sul palmo della mano. Il fronte era stato scardinato da un colpo secco: dalla catenina annerita dal tempo pendeva soltanto un piccolo ritratto che un pesante scarpone aveva pestato con forza, fino ad infangarne i tratti.
Fece scivolare l’indice sulla fredda superficie dell’argento sul retro, finché il polpastrello non incontrò un solco.
Rasler Heios Nabradia.
Trovò il fronte lì accanto e lo premette sui cardini maciullati.
Inspirò.
Non serviva più a nulla, ormai.
Una mano picchiettò gentilmente sulla sua spalla, e il gesto era così timoroso e dispiaciuto da essere più simile a una rispettosa carezza.
«Venite, Lady Ashe. Ci aspetta un lungo viaggio, e qui fa davvero troppo freddo per voi» si intromise timidamente, avvolgendo piano le dita attorno al suo braccio.
«Sì, abbiamo indugiato abbastanza» ne convenne lei, lasciando scivolare la medaglia sul pavimento, nascondendola sotto il letto, e seguendo i passi circospetti di Basch.
E non era fatto d’indugi, il cammino che ci eravamo promessi.
«Andiamo, Basch. Non serve voltarsi indietro.»
«Temo di no, Maestà. Vedremmo solo cose a cui vorremmo tornare.»
«Ma non possiamo più» fece Ashe, più a se stessa che al capitano dietro di lei.
Con un’ultima occhiata alla devastazione che li circondava, lasciò che l’uomo chiudesse le pesanti porte e si avviasse con lei verso l’atrio, da cui provenivano lo scalpiccio ininterrotto di Vaan e di Penelo, i passi serafici di Balthier, il laconico commento di Fran che annunciava loro l’arrivo di una tempesta, perché nubi nere di temporale si stavano addensando nel cielo.
Rabbrividì quando li raggiunse: il portone era spalancato, e da lì spirava un’aria che sapeva di fumo, di neve, di sangue.
Di tutto, meno gli odori che ricordava. Li inspirò lo stesso, fino a che l’aria non le tagliò la faccia e gli occhi presero a lacrimarle. Basch la osservò con tristezza, e solo Balthier avanzò in mezzo alla neve, facendo cenno alla principessa di tenergli dietro.
Tergendosi l’umido dagli occhi, Ashe affondò dietro i suoi passi, sorretta dalla presa di Basch, che la scrutava con un baluginio di preoccupazione.
Lei, però, si sottrasse al suo sguardo in uno scatto di vergogna.
«Non temere. Sto bene»
«D’accordo» annuì lui, semplicemente, con la rattristata indulgenza di chi riconosce a colpo d’occhio una bugia di simile entità, e Ashe sentì le parole gelarsi in gola.
Odiava l’inverno.
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A/N 26 ottobre 2008, ore 16:22. Come fare violenza scriteriata al canon. Per chi se lo stesse chiedendo, no, Ashe e Rasler non sono cugini, e non credo che il Gran Kiltias vada spargendo dispense XD si trattava di un semplice espediente per mandarli nella mia location preferita XDDDD. Non vedevo l’ora di cominciare a scrivere su questo gioco meraviglioso, e devo dire che, nonostante io stia letteralmente scalpitando per scrivere tonnellate di Basch/Ashe, è stato super-piacevole scrivere questa cosina, che ha avuto la sua piccola dose di cuoricini anche fuori dal fandom <3 perciò la dedico a Michiru, e a Shu, che invece ci è dentro XD. È venuta fuori terribilmente natalizia, e molto più lunga di quel che avevo immaginato. Aww! Il titolo viene da un film di Kenneth Branagh, che io non ho mai visto .__. . E adesso, sotto col resto del claim!