[Mo Dao Zu Shi] Storm and Fire

Titolo: Storm and Fire
Fandom: Mo Dao Zu Shi
Personaggi: Lan Xichen, Jin Guangyao
Parte: 1/1
Rating: R
Parole: 4202 (yWriter 7)
Note: per il Lan Valentino, un’iniziativa Secret Valentine organizzata fra me, Wren, Harriet Ed, Cate, MystOfTheStars e Yuki Delleran. Questa è per Myst, su suo prompt AU, omosessualità, angst con un po’ di violenza guerresca e un paio di cose brutte che però sono spoiler.

Storm and Fire
[Lan Valentino, per Myst] Lan Xichen e Jin Guangyao nella versione AU dove sono un drago e una volpe (ho in mente una cosa tipo questa ma va bene qualsiasi declinazione del tema: https://www.pinterest.it/pin/732679433143594003/ )

I.

Alle prime gocce di pioggia, Jin Guangyao arricciò il naso, contrariato. Preso alla sprovvista in quella giornata di primavera, trovò riparo fra le fronde del pesco in fiore più vicino – che riparo non gli offriva, a dirla tutta, ma di certo gli fece dono di una scenica prima impressione nel momento in cui il fautore di quello scroscio d’acqua si addensò prima in uno sbuffo di nebbia e poi nelle solide fattezze di un essere quasi umano. Si guardò intorno con attenzione, le squame d’argento che rilucevano come gioielli, per accertarsi che tutta la natura nei dintorni, di cui era personalmente responsabile, si fosse abbeverata a sufficienza. Scostandosi i lunghi capelli neri dalla fronte, annusò il terriccio nero d’acqua con la lingua serpentina. Soddisfatto del suo operato, rinsaldò il nodo del nastro bianco che gli circondava la fronte e fece per recarsi altrove, dove era richiesto il suo aiuto.
Oramai tutto fradicio, Jin Guangyao continuò ad osservare lo straniero da lontano, incapace di celare il suo interesse. In spregio a tutte le abitudini di autoconservazione così care al suo cuore, allargò i grandi occhi d’ambra e si fece più vicino, il manto dorato del clan Jin che, intessuto di una magia mutaforma, lo celava agli sguardi di coloro che non sapevano della sua presenza.
Bastò un rametto capitatogli per disattenzione sotto le zampe – o così amano raccontare le leggende che hanno dipinto il loro primo incontro in più e più sfumature – a tradirlo.
«Chi va là!» tuonò il giovane drago, poco avvezzo ad essere sorpreso durante i suoi doveri.
Solo allora Jin Guangyao si accorse che quel volto era uno dei più noti di tutto il regno. Alla cintura pendeva il medaglione del clan Lan.
«Lan Xichen? Siete davvero voi?» gli chiese, un fremito di baffi carico di ammirazione.
«Con chi ho il piacere di conversare?» fece il drago, raddolcendosi, ma restando vigile nel riconoscere la livrea d’oro intessuta di peonie. Jin Guangyao, ricordandosi delle sue fattezze di volpe, tornò subito alla sua forma umana, salutandolo con un placido, soave sorriso e un cenno del capo.
«Solo con un’umile volpe che vi conosce di fama.»
«Vostra Altezza!» esclamò, il flauto di giada intagliata che gli cadeva di mano mentre riconosceva infine il Principe Ereditario.
«Vi prego, mio caro amico, niente formalità!» rispose lui, con aria gioviale e con un gesto di diniego privo d’affettazione, anzi, quasi dimesso «Sono qui in incognito, e in cerca di pace!»
Rivolse il viso di ragazzino alla luce del sole, appoggiandosi al tronco di un albero, e la pioggia cessò all’istante, evaporando in un caldo alito di primavera.
Jin Guangyao aprì un occhio, con l’aria sazia e soddisfatta di un grosso predatore «Giacché siete qui, però, ho un favore da chiedervi, se avrete la grazia di ascoltarmi.»

II.

Le terre dorate del Clan Lanling Jin si erano da lungo tempo rattrappite in uno stato di siccità che aveva tutte le caratteristiche di una maledizione: sotto le sembianze di una volpe, raccontava il Principe Ereditario al suo nuovo e distinto amico, era andato in cerca di un aiuto in ogni angolo del regno, senza riuscire a trovare sostegno in nessuno, prima di quel fortuito incontro, sicuramente benedetto dal destino.
«Mio nobile amico, non sapete davvero quanto mi sia stato di conforto trovarvi sulla mia strada! Alle vostre gesta potrete aggiungere la più mirabile di tutte, quella di aver salvato il più sovrano dei clan!»
Le lodi mettevano Lan Xichen in imbarazzo. Quando Jin Guangyao lo condusse presso la sua casa con tutti gli onori, mostrandogli il suo florido regno ridotto a una conca sassosa, il giovane drago non poté che trattenere un moto d’orrore: il sole cocente gli bruciava sulla pelle come un acido, spaccando l’argento umido delle sue squame. Accartocciati e riarsi, gli alberi punteggiavano i campi sterili come mani di demone tese verso il cielo.
Trattenne a stento la commozione nel vedere un gruppo di bambini, sporchi, sudati e mezzi nudi, le pance gonfie dalla fame, grattarne la corteccia a mani nude per trovare qualche goccia di resina – troppo giovani per imparare Inedia, avrebbero finito per morirne se Lan Xichen non avesse messo a disposizione le sue arti. Guardò Jin Guangyao dritto negli occhi, desolato.
«Vostra Altezza, corre voce che il clan Qishan Wen abbia scagliato una maledizione sulle vostre terre, ma mai avrei creduto di poter essere testimone di tanta desolazione con i miei stessi occhi, e farò tutto il possibile per aiutarvi!»
Gli occhi di Jin Guangyao si riempirono di lacrime commosse mentre il drago portava alla bocca il suo mistico flauto.
Alle prime note, la pioggia cominciò a scrosciare su di loro e, con un sorriso, convinto di non essere visto, Jin Guangyao osservò le squame del suo amico farsi traslucide come petali di loro sotto l’acqua, in un guizzo d’argento.
Tutti si assieparono loro attorno, lanciando grida di gioia, e Lan Xichen continuò a suonare senza posa, modulando i cieli perché l’acqua non annegasse le radici o il popolo.

*

Quando persino l’ultima nota tacque, sui campi si potevano già scorgere le prime gemme d’erba, come la peluria giovane di un neonato.
«Lasciate che dia per voi un banchetto» sussurrò il principe con traspoorto, prendendogli le mani.
«Lasciate che suoni ancora per voi» gli rispose Lan Xichen, la voce che gli si asciugava senza ragione sotto la carezza di quelle dita sottili.
Jin Guangyao, le vesti dorate imperlate di pioggia, lo prese per la manica senza mai smettere di sorridere.
«Venite.»

III.

Sua Altezza era certamente cresciuto in grazia e bellezza, ma certo non era stato amato, dovette considerare Lan Xichen, stupefatto, quando fu accolto con tutti gli onori nei più intimi padiglioni del suo palazzo.
Dietro i pannelli dipinti dei suoi appartamenti, le sue concubine e i suoi eunuchi, i lunghi capelli neri lustri d’olio odoroso, lo riverivano in una pioggia d’inchini, se ne litigavano i favori e cercavano di anticipare e accontentarne i desideri, perché il loro signore era un giovanotto amabile, educato, che trattava ognuno di loro come un fratello, bello e rifinito come una statuina d’avorio: alla luce del sole, la pelle trasparente sembrava il manto d’oro di una volpe fatata. Lo spettacolo, di tanto in tanto, strappava qualche fievole, sconveniente sospiro fra quelle pareti, ma la situazione, nel resto del palazzo, era completamente diversa. Fuori dal bozzolo felice delle sue stanze, il principe più amato dal popolo restava il figlio di una concubina caduta in disgrazia: nessun talento o guizzo d’intelletto avrebbe potuto redimere le vergognose circostanze della sua nascita. Suo padre non mancava di fargliene monito ogni volta che Jin Guangyao si trovava al suo cospetto, e tutta la servitù che ne seguiva gli ordini ne imitava l’esempio senza esitare, senza curarsi neppure del necessario decoro in presenza del nobile ospite che aveva salvato le sorti del regno e aveva preso a seguirlo ovunque.
«Non curatevene, Altezza, voi conoscete bene il vostro valore…» gli mormorò all’orecchio, una sera in cui si era attardato presso di lui così a lungo da non poter fare ritorno a casa. Aveva bevuto poco più di qualche coppa di acqua mista a miele, eppure il viso gli bruciava come quello di un ubriaco quando A-Yao alzò lo sguardo per incontrare il suo, mordendosi il labbro arrossato dalle spezie del banchetto.
«Il mio valore non significa nulla, se non è mio padre a riconoscerlo.»
Lan Xichen fece per alzare la mano per carezzargli una guancia, in un gesto più liquido di ogni pensiero ragionato. Si trattenne con uno sforzo sovrumano.
«Per lui, mia madre resterà per sempre la concubina che è fuggita per tornare a esercitare in strada il mestiere.»
Impotente davanti alla sua tristezza, Lan Xichen curvò le spalle.
«Nemmeno avergli portato il vostro aiuto per la salvezza del Clan è servito ad elemosinare la sua benevolenza!»

*

Entrambi finirono per coricarsi con il cuore amaro come un veleno.
Lan Xichen dormiva annusando il profumo dell’erba nuova che spirava dai pannelli di carta aperti sul giardino, ma fu svegliato all’improvviso da una zaffata di zolfo e latte cagliato, un rigurgito acre che risaliva lungo l’esofago: una mano dalle lunghe dita bianche d’osso, troppo lunghe per essere umane, si era allargata sulla coperta di seta variopinta.
«Giovane drago, non lasciate che la vostra innocenza vi confonda! Io ero la sua nutrice, ma le volpi sono predatrici, e il principe mi ha strappato le mammelle con i suoi canini, non è il mio latte ciò di cui si è abbeverato!» lo ammonì una voce lamentosa. Lan Xichen voltò il capo da un lato e dall’altro nel buio, cieco di spavento e di sonno.
«Niente è come sembra, in questo palazzo di mammiferi ingannatori!»
Avrebbe voluto replicare con rabbia alle maldicenze di quello spirito bugiardo, ma sentì che la presenza si dissipava, perciò si ridistese, rigido e insonne, fra le coperte, sapendo che più non si sarebbe addormentato.
La mattina dopo, tuttavia, si svegliò sotto i raggi di un sole caldo e dorato, una mano che avvolgeva la sua.
«Potremmo portare la vostra pioggia in ogni angolo di questo mondo assetato, per renderlo un giardino in fiore e annegare i nostri nemici nella dolcezza delle vostre acque.»
Non aveva nominato i Wen: chi fossero per davvero i loro nemici, Lan Xichen non lo seppe né quel giorno, né mai, eppure lo seguì attraverso i pannelli socchiusi, lontano dal giardino imperiale e dai suoi leziosi profumi, tenendo fra i denti serpentini lo sbuffo di pelliccia dorata della sua coda, per scagliarlo lontano, oltre le mura, e sollevarlo meglio in volo.

IV.

Lan Xichen era abituato a ingrassare la terra di frutti e di fiori: dove le sue squame d’argento toccavano terra, i fiumi riprendevano a scorrere e schiumare nei loro letti, come sangue lungo un’arteria. Quando i soldati dei Wen, o di qualsiasi contendente alle ricchezze del clan Lanling Jin si apprestavano a guadare il fiume, rallentati dalle pesanti corazze, il rampollo di GusuLan abbatteva una sola onda rabbiosa sulle loro teste, accertandosi che l’acqua penetrasse in ogni apertura fino al cuore, per spegnerne il battito. Fredda d’inverno, l’acqua gelida teneva i corpi sul fondale, ma il tepore della primavera li faceva tornare a galla e li rispediva alla terra in una poltiglia fetida, limacciosa: mai, prima di allora, aveva avuto la sensazione che ogni fiore che cresceva sotto le sue dita fosse macchiato di sangue.
Poco abituato alla colpa, e ancor meno al desiderio, una sera si ritirò nella tenda da campo di Sua Altezza incapace di respirare, ruminando alla luce della lanterna che splendeva tenue all’ingresso, in una nebbia di moscerini che, avvicinandosi al suo fuoco troppo caldo, s’incenerivano in una scia di polvere ardente.
Ipnotizzato dal loro ronzio, il giovane drago li osservava con un groppo alla gola, sordo ai rumori della notte.
«Il mio giovane amico è pensieroso?»
Quando le mani affusolate del principe gli circondarono le spalle, fresche come se avessero appena toccato acqua, Lan Xichen sobbalzò fra le coperte di broccato.
«Da quanto siete qui?» chiese, arrossendo.
«Da un po’, ridevo di voi nell’osservare come un gruzzolo di moscerini vi fa battere il cuore, ma eravate troppo assorto per rendervene conto.»
Incalzato dal suo sorriso, Lan Xichen ridacchiò a sua volta, resistendo alla tentazione di evitare il suo sguardo.
«In realtà, è al vostro clan che stavo pensando. La siccità si ritrae dalle vostre terre, e con essa, anche le velleità dei vostri invasori.»
«La cosa suscita in voi del turbamento?» fece lui, curioso, sistemandosi così vicino a lui da toccargli una spalla.
«No,» mentì Lan Xichen, deglutendo rumorosamente mentre i suoi capelli gli solleticavano il collo «al contrario, penso ai bambini nudi e affamati che correvano per strada, e che invece oggi si godono la pace, e dico a me stesso che forse tutto questo–»
«–che tutto questo vale la pena?» gli suggerì il Principe Ereditario all’orecchio, appoggiando una mano nella sua e intrecciandovi le dita come a coprire il sangue di cui si erano macchiate.
«Credetemi, un giorno le nostre gesta verranno cantate per generazioni a venire, e coloro che ci tacciano di assassinio, defezione e opportunismo giaceranno in delle tombe senza nome. I tirapiedi del clan QishanWen non avranno che da rimangiarsi tutto, compresa la maledizione che hanno scagliato sulle mie terre. Darò fuoco al mondo, pur di avere la mia vendetta!» sibilò, i pugni stretti fino a illividirgli le mani, sottili come rami in fiore. Fissava un punto lontano della tenda, rapito nelle proprie fantasie di conquista.
«E io sarò al vostro fianco, pronto a spegnere le fiamme di ciò che resta» mormorò Lan Xichen, la colpa che aveva spiccato il volo dal suo petto in punta di piedi, in favore di qualcos’altro che il drago non era del tutto in grado di decifrare. Jin Guangyao tornò a fissarlo intensamente. Illuminata del riflesso d’oro della lanterna, la pelle di giada bianca gli splendeva di luce propria. Il drago districò la mano dalla sua solo per prendergli la nuca fra le mani, ubriaco di sogni di gloria che non gli erano mai appartenuti, e fu solo molto, molto più tardi, durante quella lunga notte, che si accorse di non poter più tornare indietro.
Solo sul far dell’alba ripensò alla nutrice, alle costole giallastre che si intravedevano fra i brandelli di ciò che rimaneva della sua carne.
Voltò la testa da un lato del cuscino: A-Yao dormiva profondamente.

*

Nessuno fra i più giovani e promettenti guerrieri di GusuLan comprendeva con esattezza il motivo per cui il clan dovesse scavare una propria nicchia nella geografia di una guerra che nulla aveva a che vedere con la loro storia e, cosa ancora più inaudita, con i loro più antichi principi. Non cercare la gloria per la gloria stessa, recitava uno di essi, inciso a fondo nella pietra, ed era certo che nessuna delle possibili accezioni ammettesse varianti blasfeme come cerca solo la gloria di Zewu-jun.
Qualcuno dei draghi suoi coetanei lo andava sussurrando con sempre più malcontento nei corridoi profumati d’incenso dei Meandri delle Nuvole. Qualcuno si vergognava dell’invidia che avvelenava i loro cuori. Altri, invece, riuscivano a trovare la prudenza nel nocciolo di quelle affermazioni all’apparenza così nocive e inappropriate. Altri ancora, inebriati dalle loro promesse di rivalsa, incoccarono nell’arco tutte le loro frecce, pronti a sommergere la tirannia dei QishanWen e del loro sole famelico, che avrebbe bruciato i monti e le valli di febbre e disperazione.
E da Gusu partirono insieme, alla testa del loro esercito, cantando a squarciagola canzoni di guerra, fino a far tremare la neve della foresta sulla cima degli abeti.

*

Persuasi dell’eternità del fiore bianco della loro gioventù, i guerrieri non erano, però, davvero preparati all’idea del sangue e della morte: i Wen discesero in picchiata su di loro senza pietà, stritolandoli fra gli artigli fino a fargli zampillare il midollo dalle vertebre. Il suono del flauto di Lan Xichen si levava come un richiamo desolato di usignolo sulle grida dei feriti, per fortificare i vivi e accompagnare i morti. Proprio come A-Yao gli aveva predetto, si sarebbe cantato a lungo di quella battaglia: nonostante il sangue che i loro nemici scrollavano via dalle lunghe piume, brune e coriacee, nessuno dei due condottieri era pronto a rassegnarsi alla loro soddisfazione. Mentre A-Yao digrignava i denti, le fauci ancora amare della bile dei suoi nemici, muovendosi rapido da un capo all’altro della valle, lui faceva quanto in suo potere per ripulire il sentiero di ogni minaccia per far sì che arrivasse illeso fino a Wen Chao e lo azzannasse alla gola come avevano sognato per mesi e mesi, vendicando così la sua gente morta di sete e di fame. Di tanto in tanto, il principe si guardava alle spalle, accertandosi che il guizzo d’argento del suo compagno non lo avesse abbandonato, e piantò le zampe nel fango molle solo al cospetto di Wen Chao, che, isolato al centro della pianura, dispiegò le ali, tanto vaste da gettare un’ombra nera sul sole.
«Cosa crede di poter fare un cane malconcio come te, dopo che ho massacrato tutta l’avanscoperta del suo esercito?» rise, in uno schiocco del becco d’acciaio.
Jin Guangyao arricciò il naso in quell’espressione di sdegno e disprezzo che Lan Xichen conosceva bene, e di cui aveva imparato ad essere orgoglioso.
«Molto più di ciò che crede un despota che non sa di essere spacciato.»
«Insolente e vanesio!» tuonò lui, senza sapere che quelle, sputate col viso contorto di rabbia, sarebbero state le ultime che avrebbe mai pronunciato: la musica di Lan Xichen, che, fino a quel momento, aveva accompagnato lo scambio di minacce come un lieve sottofondo, divenne un verso di animale ferito.
Wen Chao sollevò la testa, allungando lo sguardo fino alla linea dell’orizzonte. La paura gli fece gli occhi grossi come ciliegie mature: l’aria si riempì dell’odore della pioggia, ma di fronte ai loro occhi non salì che un refolo di foschia.
All’improvviso, dalle colline, al suono del flauto risposero le grida di lotta di GusuLan e dei suoi guerrieri assiepati in cima alle colline: prima che Wen Chao potesse aggiungere altro, una sola onda d’acqua, vasta e profonda come il mare, si abbatté sulla sua testa, zavorrando le enormi ali e soffocandolo in un gorgo di schiuma insanguinata, mentre gli odiati rivali salivano a passo leggero sulle loro spade.
Saldo nella presa di A-Yao che si faceva tagliare la faccia dal vento gelido d’alta quota, Lan Xichen si guardava indietro, osservando l’acqua rosata che, impregnando la terra, trascinava fino alla foce del fiume i cadaveri di vinti e vincitori.
Nessuno di loro aveva esitato a sacrificare la prima ondata di cavalleria per una vittoria più grande, più giusta, più gloriosa.
Chiuse gli occhi per inspirare l’odore del vento, sempre più rarefatto e puro mentre si allontanavano dal suolo, ma non gli tornò indietro che quello del sangue sulle squame e sulle vesti.

V.

Libero del giogo dei Wen, tutto il mondo della coltivazione si apprestò a celebrare gli eroi di quell’impresa, spartendosi le regioni e i palazzi abbandonati dei vinti e facendo a gara per decidere quale di questi dovesse ospitare la più sfarzosa festa in onore dei vincitori.
Nessuno fu sorpreso quando fu la Torre della Carpa Dorata ad aprire per prima le porte al suo rampollo – riconosciuto per la prima volta come tale, a somma corona di ogni ambizione di Sua Altezza! – e ad accoglierlo in una pioggia di canti, fiori, banchetti.
Giunto al cospetto di suo padre, per la prima volta dal giorno della sua nascita, Jin Guangyao vide riconosciuta la propria presenza: lui gli riservò un breve cenno del capo, che funse anche da segnale per l’inizio della musica e dei fuochi d’artificio. Con la gioia che gli inebriava le vene, il principe si gettò in ginocchio ai piedi del suo trono, quasi in lacrime, mentre Lan Xichen, incapace di trattenere un sorriso fiero, lo nascondeva esibendosi in un inchino più sobrio.
«Mi dicono siate voi colui che devo in parte ringraziare, per i successi di mio figlio e per la liberazione dei miei domini, Zewu-jun» fece il sovrano, rivolgendosi direttamente a lui, le labbra arricciate in un ghigno condiscendente di cui Lan Xichen non riusciva a comprendere la ragione, ma che gli dava la misura esatta di quanto Jin Guangshan e Jin Guangyao fossero l’uno sangue dell’altro. Rabbrividì.
«Ho solo fatto il mio dovere, Eccellenza.»
«Qunte sciocchezze e quanti formalismi! Sedete, sedete, ragazzo, bevete e mangiate a sazietà!» disse, facendo cenno a una ragazza prosperosa, che cominciò a pizzicare le corde del liuto.
Ancora stordito da quanti e quali onori gli venivano tributati, Jin Guangyao trascinò il suo secondo al tavolo, tirandolo per la manica, ansioso di condividere i resoconti delle proprie imprese con quanti dessero segno di pendere dalle sue labbra, con più o meno affettazione. Alla vista di tutto quel servilismo, Lan Xichen aggrottò la fronte, ma non disse nulla, osservandolo bere vino di riso dolcissimo da una tazza di ceramica dipinta.
Si perse in uno strano senso di malinconia mentre ascoltava con mezzo orecchio i brusii e la musica che gli accadeva attorno, ma se ne riscosse d’improvviso, come dopo un colpo di frusta, quando Jin Guangshan, allargando le braccia, pose bruscamente fine ad ogni nota.
«Niente male, insomma, per il figlio di quella puttana testarda!»
Lan Xichen sentì il calore del sangue abbandonargli la faccia nel guardare A-Yao sgranare gli occhi nella tazza di liquore. Si alzò in piedi in un rigido scatto, e Lan Xichen lo imitò, in un riflesso incondizionato.
«Guardate, figlio mio, come lo avete addestrato bene! Neppure io avrei mai potuto vantarmi di un’opera così ben riuscita! Ciò dimostra che, nonostante tutto, voi siate davvero mio figlio, e siate stato all’altezza delle aspettative.»
Il pallore di A-Yao si accese di un rosso violaceo.
«Padre–»
«Cosa intendete dire?»
Come separato dal proprio corpo, la testa leggera di orrore, il giovane drago sentì la propria voce intervenire in un brontolio di tuono, prima del principe e di suo padre.
«Solo che Meng Yao è un ottimo stratega, e che gli è bastato poco più di un gioco di specchi per attirarsi la vostra pietà e sedurvi. Ciò dimostra che è anche figlio di sua madre!» considerò placidamente il sovrano «La terra ridotta a sabbia asciutta, persino i bambini affamati e mezzi nudi… io non padroneggiavo l’arte dell’illusione così bene, alla sua età.»
Lan Xichen aprì bocca, ma subito la richiuse, come una carpa sottratta all’acqua del lago, e si costrinse, in quell’attimo, a morire soffocato, le ginocchia che gli tremavano sotto le vesti d’argento.
«Non ascoltatelo, A-Huan!» si levò la voce del principe, asciutta di lacrime e vacillamenti «Cosa importa quali siano stati i motivi con cui vi ho mosso alla guerra? Ciò che importa è che insieme abbiamo spazzato via i Wen e dato fuoco al mondo, per costruirne uno migliore sul loro letto di cenere!»
«Uno in cui, immagino, sarai tu ad essere al comando?» lo irrise il sovrano. Mentre il principe lo fissava dritto negli occhi, Lan Xichen contemplava il vuoto, senza ascoltare né loro, né i suoni d’orrore che si levavano nella sala.
«Voi farneticate, nessun clan ha mai negato l’esistenza della maledizione! Anzi, proprio gli altrui clan me ne hanno messo a parte!»
«Perché ogni clan aveva il proprio interesse a rovesciare i Wen» commentò il principe, seccamente.
«Chi avrebbe mai immaginato che proprio i GusuLan sarebbero stati i principali fautori della nostra ascesa, retti e corretti come sono, solo perché Jin Guangyao si è infilato nel–»
Fu troppo da sopportare.
Jin Guangyao non vide la singola lacrima che gli luccicava su una guancia.
Quando la mascella di Jin Guangshan si serrò con uno scatto d’osso rotto, comprese però che era ormai troppo tardi.
Improvvisamente muto, gli occhi che sporgevano fuori dalle orbite come quelli di un rospo, il sovrano ricadde sul suo trono con un tonfo molle e si contorse in un guizzo orribile su di esso. Bruciante di una rabbia arginata da decenni e decenni di precetti di carità incolore, che mai erano riusciti fino in fondo a levigargli le passioni dall’anima, Lan Xichen chiuse tutte e cinque le dita fino a conficcare gli artigli nel palmo nella mano, incurante di A-Yao che gli strattonava la manica. Il corpo di Jin Guangshan s’increspò in un brivido rosso e rimase immobile, un filo di schiuma bruna all’angolo della bocca ad unico indizio di ciò che gli era accaduto: Lan Xichen l’aveva annegato nel suo stesso sangue, la pietà sradicata dal fondo del suo cuore. Barcollò, stordito, costringendo il principe a rilassare la presa sulle vesti di seta. Le dita gli tremavano.
Qualche singhiozzo punteggiò l’aria rarefatta del salone addobbato a festa.
Lan Xichen puntò sul suo antico amico due occhi di vetro.
A-Yao coprì i propri con entrambe le mani e si chinò appena in avanti, scosso da un fremito di pianto che si rivelò subito essere riso, sempre più alto e sempre più squillante. Quando le mani gli caddero ciondolando lungo i fianchi, la risata del principe divenne di un fragore incontenibile, che non si curava di come nessuno dei presenti condividesse la sua allegria.
«Infine siete stato cieco, padre, e ve l’ho fatta!»
Rise ancora e ancora, fino ad avere le guance rigate di lacrime.
«Sapevo non avresti mai retto a una simile onta, A-Huan, e che non avresti esitato a lavarla via nell’unico modo concesso alla tua coscienza!»
Si costrinse a tornare serio, asciugandosi il viso, sereno come quello di un santo, con il lembo d’oro della veste.
«Adesso che finalmente mio padre non è più, la giustizia calerà su queste terre, e con te al mio fianco non ci saranno più limiti a ciò che potremo compiere insieme!» disse, fuori di testa dall’ebbrezza, mentre cercava di abbracciarlo.
Niente è come sembra, in questo palazzo di mammiferi ingannatori, l’aveva ammonito la nutrice, esibendogli il cuore cavato dal petto.
Mosso come una pedina, Lan Xichen fece un passo indietro, la mano sull’elsa di Shuoyue.
«A-HUAN!»
Ma Lan Xichen, il collo piegato sulla spalla come lo stelo reciso di un fiore, non lo udiva più, le scaglie grigie e avvizzite: già la morte ne spegneva la lucentezza.
Occorsero molte ore perché Jin Guangyao smettesse di gridare il suo nome.

~

A/N 22 marzo 2024, ore 17:35. Perdonami, Myst, per il ritardo e per la punta di violenza forse eccessiva che mi è uscita alla fine! È stata un po’ faticosa da scrivere. Il tono fiabesco non mi convince del tutto, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente – forse mi aiuta anche un po’ a mascherare il fatto che non ancora padroneggio bene questa gente nuova XD. Nonostante non mi convinca e ci abbia messo tanto, devo dire che nei momenti in cui mi ci sono messa è andata liscia. Stavo ascoltando un po’ di OST di Yuki Kajiura e il titolo è venuto da sé. Spero ti garbi, dear! ♥

Juuhachi Go.

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