Titolo: Momentum
Fandom: Sailor Moon
Personaggi: Haruka Tenou, Michiru Kaiou
Parte: 1/1
Rating: NC17
Conteggio Parole: 1685 (LibreOffice)
Note: omosessualità, nsfw, prompt per la BDT defunta
011. Rosso
Stasera Princess Neptune è vestita di rosso.
Il morbido, sensuale drappeggio della gonna le si avvolge attorno alle caviglie come un felino e un semplice nastro le raccoglie i lunghi capelli.
Nessuno la sente arrivare. Lei non si fa mai annunciare e il suo arrivo non si sente mai.
Eppure la sala intera riesce sempre a puntarle gli occhi addosso. Stasera in particolare, è tutto un vociare concitato e confuso di fronte ai suoi strascichi che si aprono come una macchia sulle lastre di lucido azzurro del pavimento.
C’è chi, con una punta di ingorda cattiveria, fa notare quanto il colore di quell’abbigliamento stoni con quello dei suoi capelli, e chi, ancora, insinua di avere poca fiducia nelle modisterie della Via Lattea.
Io ridacchio e basta.
Non esiste malelingua in grado di capire di quanti messaggi sia intriso il rosso sangue di quelle vesti, così tanto derise dal folklore del luogo e denigrate dalla stessa etichetta di palazzo.
Neptune non è mai stata una ribelle, né ha mai avuto in progetto di diventarlo, eppure la vedo farsi languidamente avanti fra le mie braccia, fra la pressa ingombrante del primo valzer, per concedermi la prima danza, con grande delusione dei cavalieri anelanti, ma che sbiadiscono sotto l’incommensurabile peso del nostro segreto, che Neptune può ostentare in pubblico con orgoglio, ben conscia che io sarei l’unica a cogliere il suo significato.
Non è una ribelle. Lo è diventata crogiolandosi in un ballo fra le braccia di una persona che ama e che non potrebbe avvicinare in alcun modo, che si deve vestire da cavaliere per permetterglielo.
«Non credevo saresti venuta.» mormora, con un lieve sorriso, la voce attutita dal suono di un violino mediocre. Si appoggia al mio petto, stando ben attenta agli sguardi indiscreti dei cortigiani.
«Credevi male.» la redarguisco giocosamente, con una risatina che si scorge appena.
«Perdonami se ogni tanto sospetto in te l’insorgere di un barlume di buonsenso che si decida a salvarti quella pellaccia coriacea!».
«Ti giuro, mia bella e imbronciata danzatrice, che, anche se fosse, non sarebbe certo il buonsenso a tenermi lontana da te proprio come non è un abito rosso a tenermi vicina.».
«Uranus, sai benissimo che non è bene presenziare a una festa a cui saresti tutt’altro che benvenuta. Il Silver Millennium è sull’orlo del crollo, la gente è al limite della psicosi. Se ti scoprissero, tutto andrebbe peggio di quel che pensiamo.».
«Non così forte.».
«Scusami.».
«Perché continui a vestirti di rosso, allora?».
«Scusami.»
«Non fa niente. Sono io che avrei dovuto impedire per prima che qualcuno scoprisse che non avevo affatto interesse a diventare la tua migliore amica.».
«Sai che quelle spalle si piegheranno, se continuerai ad accumularci responsabilità?».
«Sì, scusami.».
«… continuo a vestirmi di rosso perché ogni sera spero di vederti in questo mare di visi odiosi, e non posso smettere di cercarti.».
«Conta così tanto per te essere la mia amante?».
Non avevo voglia di chiederglielo. Non così, perlomeno: potrebbe sentirsi umiliata, ferita, delusa, da una simile domanda.
La verità è che sono oltre la psicosi anche io. Che la mia ansia si è disciolta in terrore. Che le forze di Beryl ci costringeranno presto a contravvenire al nostro ruolo di custodi del sonno di Saturn. In caso ve ne sarà necessità, ci toccherà risvegliare la Dea della Distruzione.
Fra tanti pensieri, quello di Neptune è terso e celeste come il cielo d’estate.
Voglio che lei dica che per lei è lo stesso, che l’amore le fa da puntello nella valle di macerie che già si affaccia alle nostre menti, e non che rotolarsi fra le lenzuola la distoglie dall’incombenza di una missione a cui non ha la forza di adempiere.
«No, Uranus.».
Meno male. Non è risentita né spiazzata dalle mie parole.
Lei capisce.
Sempre.
Come se leggesse sulla superficie dei miei occhi.
«Indosso un vestito rosso per essere sicura che tu sia la prima a vedermi.».
«Perdonami.» le dico, il capo chino.
Io abbandono casa mia, per venire da lei. A detta di molti, abbandono anche il mio onore.
Lei fa molto di più. Si spoglia dell’azzurro in cui si sente protetta, e spicca su tutti gli altri come una grande stella di sangue solo perché il mio sguardo possa notarla immediatamente, e possa capire che quella sera potrò incontrarla.
Si nasconde nel cuore di casa sua, ingannando la sua intera dinastia, abbandonandosi a me in quei luoghi del palazzo di cui nessuno ricorda più niente, ma che lei ha impresso minuziosamente nella memoria solo per me.
Sono una principessa e ho da offrirle solamente la polvere gelida e antica del suo stesso maniero.
Non è un pensiero sconvolgente, non più.
Ma stasera mi punge con tutta la forza della sua desolazione. Non vorrei dargliela vinta, ma mi sfugge una lacrima, mentre mi nascondo col capo sulla sua spalla, le dita che si intrecciano attorno alla sua vita sottile.
È il terzo giro di valzer, e scivoliamo leggiadre e complici lungo una rampa di scale, le guance arrossate dalla fatica della discesa e gli strascichi anneriti dal vecchiume incrostato su quei passaggi angusti che nessun’anima percorre più da secoli, e su cui sono visibili, impercettibili ma lampanti, solo i nostri segni.
Neptune si preme con una spalla sull’immenso portone massiccio e scolorito dal tempo. Cerca di riprendere fiato dopo la sua corsa, e mi fa cenno di avvicinarmi.
Obbedisco, senza arrischiarmi a parlare.
Le sue mani delicate armeggiano con il vetusto lucchetto che unisce i due lati dell’ingresso, fino a che questi non si aprono scricchiolando.
Si volta a guardarmi.
Quando mi guarda con quegli occhi non so mai che fare, non so se stia per mettersi a piangere o se stia per scoppiare a ridere.
Le metto lentamente le mani sulle spalle.
«Non è questo quello che vorrei offrirti.».
Neptune si sporge lentamente col capo, le labbra che si appoggiano sulle mie e prendono a baciarmi delicatamente il labbro inferiore.
«Va bene così.».
Precipito nel buio, mentre la porta si richiude con un colpo pesante, dietro di noi. Mi assale un odore di chiuso e di foglie, ma, più di tutto, mi assale l’odore morbido della sua pelle, il suo lieve profumo di sapone e di vaniglia e le sue labbra che scivolano languide sul mio collo.
La spingo lentamente sul materasso che è certamente dietro di noi. Tossisco: cadendo abbiamo sollevato una nube di polvere, ma va tutto bene: Neptune mi guida sulle sue labbra, fra i suoi capelli, sulle curve fasciate sapientemente dal vestito.
Va tutto bene.
Sopra staranno parlando di noi.
A tentoni, cerco il lembo della sua gonna, ma le sue mani sono più rapide a tenerla sollevata.
«Uranus—ah!» si lascia sfuggire, fremendo, mentre la sfioro con le labbra, lasciando scivolare lontano la biancheria. I suoi capelli frusciano irrequieti quando si inarca contro di me.
Io mi aggrappo al suo abito e ricado su di lei, abbracciandola con forza, senza smettere di parlarle a mezza voce, infilandole parole fra i riccioli, sulle ciglia, sulla punta del naso, sulla curva delle labbra, senza neanche capire cosa le stia dicendo, le sue mani che mi spogliano di questo vestito pesante e io che affondo nel suo, strusciandomi disperatamente contro di lei, le sue unghie che mi graffiano le spalle e io che tasto la sua schiena in cerca dei lacci che le chiudono l’abito addosso. Lei si contorce appena al mio tocco e solleva una gamba senza volerlo. Mi ci siedo, non prima di liberarla dell’abito e di distinguere a malapena il bianco della sottoveste che la comprime, la stessa che comprime me.
Quando sposta la gamba, capitombolo rovinosamente su di lei, nel suo abbraccio spasmodico che si impiglia fra i lacci del corsetto, fino a che non sono completamente svestita sotto le sue labbra, sotto le sue mani tremanti, che ormai sanno ridisegnarmi perfettamente anche al buio. Finalmente riprende a respirare quando anche io arrivo ad aderire contro la sua pelle nuda.
Mi bacia il lobo dell’orecchio.
«È tutto a posto.» mormora, tenendomi stretta al petto.
Nude e disarmate come bambine.
Rotolo sul materasso.
Neptune dice che sono salata come il mare.
Sento i suoi baci che scivolano in fretta fino al centro di me, i suoi capelli aggrovigliati sul mio ventre.
«Neptune… io…».
Mi manca la voce, strozzata da un’ondata di fuoco che sembra arrivarmi fino alla gola.
Svuotata, si accascia contro di me, che la bacio per non essere costretta a trovare le parole. Non sono brava, io, con le parole. Con i piedi impigliati nel suo vestito in bilico sul letto, il suo corpo teso fra le mani e la sua bocca che chiama il mio nome, mi accorgo che per noi non c’è spazio. Non qui.
Nel buio di questa stanza dimenticata nessuno può sentirci.
Non si può camminare: i nostri corpetti sono disseminati ovunque.
Non ci sono finestre né occhi che ci guardino.
Ed è il nostro piccolo mondo circoscritto in cui non riusciamo neanche a guardarci negli occhi, ma in cui siamo protette.
Basta salire una rampa di scale per infrangere questa illusione ed esporci alla tacita, ostile diffidenza del primo damerino di passaggio, basta ritardare di un solo attimo perché una valanga di sospettosi borbottii ci insegua da un lato all’altro del palazzo.
Non ci è concesso neanche il lusso del tempo.
Viste da fuori, non siamo nulla più di due ragazzine ebbre di desiderio, in un letto vecchio di un secolo, che si accarezzano come due che moriranno al sorgere del primo mattino, e che fanno tutto in fretta, in fretta, rincorse dai loro stessi doveri.
Eppure non c’è malizia che tenga, davanti al profilo in ombra di Neptune che dorme. Non c’è nessun messaggio subliminale di nessun pezzo di stoffa rossa a tenere il confronto, quando lei si accuccia contro di me, per chiudere gli occhi, niente che sia anche lontanamente comparabile alla sua mano che mi prende per il braccio per dirmi che mi seguirà oltre i confini del mondo, se io sarò in grado di fare lo stesso con lei.
Fisso il soffitto.
Sopra staranno parlando di noi.
Per cinque minuti posso appisolarmi anche io.
~
A/N 1 maggio 2007, ore 1:59 L’idea mi girava in testa da tempo immemore e, nonostante stia al momento scrivendo una shot praticamente infinita, mi sono convinta che questo fosse il momento adatto. Solo che l’idea principale era meno pointless e meno incentrata sul fattore “il mondo ci giudica”, avevo solo in mente di raccontare una scena erotica con una certa profondità e senza simili dichiarazioni XD. Ma c’est la vie. Grazie alla liz per il vitale supporto ^_^.
Juuhachi Go.