[Cime Tempestose] This north wind that chills me

Titolo: This north wind that chills me
Fandom: Wuthering Heights (Cime Tempestose)
Personaggi: Heathcliff, Catherine Earnshaw
Parte: 1/1
Rating: R
Conteggio Parole: 2508 (LibreOffice)
Note: what if, quinta classificata e premio per personaggi più IC al concorso Storie Inquietanti sul forum dell’EFP, su prompt di 52flavours

THIS NORTH WIND THAT CHILLS ME
40. A new iconography of resurrection

Era stata lei a chiamarlo, quella notte.
La sua trasparente, gelida presenza era scivolata silenziosa attraverso gli spessi pannelli di quercia dietro i quali si era profondamente assopito, e aveva soffiato una risatina infantile nel suo orecchio, rotolando giocosa sul suo petto e appoggiandovi sopra il capo diaccio.
Heathcliff si era svegliato con un sussulto, la fronte madida di sudore freddo, e aveva scostato bruscamente le spesse e polverose coperte del letto in cui, da bambino, si era raggomitolato tante volte in compagnia di Catherine, e in cui lo spettro di lei sgattaiolava indisturbato da diciotto anni, senza che ai suoi occhi fosse mai stata data la possibilità di scorgerne anche solo una fuggevole immagine.
Inginocchiatosi sul materasso, lanciò una lunga occhiata fuori dalla finestra, sulla quale il vento sbatacchiava i rami dell’abete vicino.
Della neve che aveva preso a cadere quando era andato a coricarsi era rimasta una coltre bianca spazzata dal maestrale, e nulla, eccetto quel cupo lamento, rompeva il silenzio della notte.
Digrignando i denti, l’uomo chiuse gli occhi e appoggiò il volto contro il vetro, tentando di recuperare un frammento di sogno che la bufera, là fuori, sembrava si stesse impegnando a riportargli alla mente, ma, col dilatarsi dei minuti, la collera e la frustrazione lo inondavano a fiotti sempre più roventi e incontenibili.
Nemmeno il più navigato demone dell’inferno era così rapido a sfuggire a occhio umano.
Serrò le lenzuola lise nel pugno, saettò con lo sguardo fra i volumi muffiti sullo scaffale, ne ghermì uno in uno scatto collerico e, aperta una pagina a caso, ne cominciò a leggere il nome scribacchiato lungo l’intero margine.
Catherine Earnshaw. Catherine Linton.
Catherine Heathcliff.

In un moto di rabbia, l’uomo scaraventò il vecchio libro lontano da sé; lo vide volare attraverso la stanza fino a che non si abbatté contro la parete opposta e si accasciò sul pavimento, spaginato e malconcio, come una bestiola esanime.
Heathcliff balzò fuori dal letto.
Questa volta non avrebbe avuto alcun dubbio.

***

Il terreno sotto la neve era duro e permeato dal ghiaccio, ma Heathcliff ribolliva di un’inenarrabile misto di disperazione e rabbia che sembrava discioglierlo. La sua vanga si sollevava a ritmo frenetico, quasi fosse stata un cane che si avventa su un pezzo di carne cruda.
C’era silenzio, nel camposanto: solo lo sbuffo sofferto del suo respiro e quello lugubre del vento della brughiera, che soffiava fischiando fra le lapidi.
Catherine Linton – così recitava l’iscrizione che torreggiava sulla testa del profanatore – riposava sul limitare di quel fazzoletto di terra, giù lungo un pendio, accanto al recinto, e d’estate l’erica e il mirtillo lo scavalcavano per avvolgersi materni attorno al suo tumulo.
Ma stanotte Heathcliff l’avrebbe stretta fra le braccia, avrebbe cullato e baciato il vuoto sarcofago dal quale era evaporata la sua anima selvaggia ed egoista, nella speranza di dissolvere il proprio tormento, o di dissolversi laddove lei giaceva.
La vanga gettata da un lato, afferrò la terra e la neve a grandi manciate per lanciarle via, l’acqua sporca che colava in rivoli fra le pieghe dei palmi e fra le unghie, che – dopo quelli che a Heathcliff parvero secoli – raschiarono finalmente la superficie legnosa di una cassa.
Innumerevoli e inutili furono i suoi tentativi di allentare i chiodi arrugginiti che ne sigillavano il coperchio. Solo quando scorse il sangue sulle dita decise di arrestarsi per un gruzzolo di istanti, frustrato dalla rabbia e logorato dal proprio desiderio.
Gli occhi gli lacrimavano per il troppo vento, e il gelo li stava trasformando in due bulbi di ghiaccio. L’incisione impressa sul marmo della lapide lo derideva dall’alto.
Catherine Linton.
Linton.

Scolpito sulla pietra per l’eternità, una beffa imperitura ai suoi danni che stringeva i chiodi che tenevano Cathy gelosamente custodita sul fondo di una bara.
Un cognome che un uomo aveva scritto sull’orlo di una fossa per rendere sua moglie una donna che non era mai stata sua.
Come se un cognome fosse mai bastato.
Ma così era, sibilò, con i polsi che gli tremavano.
Si rizzò in piedi e sputò con odio sulla pietra tombale, prima di afferrare la pala per forzare il feretro.
Gli fu sufficiente trovare una piccola fessura perché, con un colpo secco, il coperchio ruzzolasse via in una miriade di schegge, e lui cadesse fra i frusti cuscini della bara.
Per una frazione di secondo, mentre tentava di riaversi dal proprio stordimento, fissò il lembo di merletto ingiallito di una manica, per poi trascinarsi sulla neve.
Era un prodigio del diavolo.
«Cathy.».
Nulla era sfiorito.
Lei era come Heathcliff l’aveva serbata nella propria memoria, fresca come il giorno in cui la vita le si era asciugata dalle guance.
Sul viso affilato riluceva il marmoreo biancore della morte, e i suoi capelli – tutti perfettamente intatti – incorniciavano in mille boccoli bruni un vacuo sorriso, slavato e indifferente come quello di un angelo che non ha occhi per gli uomini.
Una mano di Heathcliff si sollevò, scossa da un lieve tremore, per accarezzare quella liscia e minuta che ricadeva lungo i fianchi inerti.
Era piccola, infantile.
L’impeto che l’aveva animata era stato oramai lacerato come una vecchia tenda.
Risalì con un dito lungo la sua guancia.
«Conoscendoti,» non poté trattenersi dal mormorare «potrei quasi dire che tu sia rimasta in vita sottoterra per fare dispetto a me.».
Seguitò a osservarla per lunghi minuti, finché l’atona serenità del suo sonno non lo riempì a tal punto che lui si gettò su di lei, per tirarla fuori da quel letto esanime.
Se la mise rannicchiata contro il petto, le dita attorcigliate fra i riccioli e gli occhi che non riuscivano a distogliere l’attenzione dal suo viso.
«Solo perché ti ho chiesto di assumere ogni forma, tu, per capriccio, hai deciso di non prenderne nessuna! Nemmeno la mia preghiera sei stata in grado di accogliere, maledetto demonio!» ruggì, con voce rotta dall’ira. Abbracciava il corpo di Cathy senza essere più in grado di controllare i singhiozzi e la furia di cui era preda.
«Mi sfiori, ti accucci sul mio letto, ti acquatti in ogni angolo e poi ti nascondi ai miei occhi, senza concedermi nemmeno un debole riflesso che potrebbe far dormire la mia anima nella tua pace! Sei dunque tu a decidere come farmi scontare la mia pena? È questo il prezzo che io debbo pagare perché tu ti sei rifiutata di seguire il tuo cuore?».
Gli rispose solo il lugubre fremito degli abiti di lei malamente arruffati dalla bufera.
Lui si addentò il labbro con forza, aggrappandosi a quei sottili strati di seta ammuffita.
Un singhiozzo violento vibrò nel cuore immobile di Catherine, e il vento trascinò lontano il suo pianto infinito, intervallato appena da una fervente cascata di invocazioni e bestemmie.
«… e se io ho avuto il fegato di strapparti dal tuo sudario, abbine tu per venirmi a strappare da te, sciocca codarda incapace di pronunciare il mio nome anche sul letto di morte!».
Ma Cathy non avrebbe mai osato infliggere alle proprie spoglie mortali il castigo che nessuno di loro aveva potuto impartire alla sua anima, ancora intrappolata nel selvaggio mare d’edera della brughiera.
Semplicemente, Cathy restò ad osservare come lui fosse intento a carpire ogni minuscolo particolare a cui non aveva mai potuto prestare attenzione prima di allora.
Quanto sottili fossero le sue labbra.
Quanto folte fossero le sue ciglia, e quanto Catherine assomigliasse a una bambina, nel suo corpo sottile di ragazza, nel suo viso affilato, nei grandi occhi castani e selvatici che non avrebbe mai più dischiuso. Occhi nei quali aveva visto viaggiare a folle velocità tutta l’arroganza, l’amore e la stupidità del mondo.
Occhi che mai davanti a Linton avevano avuto l’ardire di mostrare quale intrico di passioni violente e arbitrarie gonfiasse davvero il cuore di lei. Eppure per lui non era stato difficile. Come avrebbe potuto esserlo, quando Catherine era l’unica destinata ad essere l’altra metà della sua anima, e aveva preferito lasciarsi morire nella scia di quel desiderio ineluttabile, anziché assecondarlo come avrebbe dovuto fare fin dal principio.
Aveva preferito illudersi, e crederlo non un’anima complementare, ma lo specchio del suo spirito.
Aveva preferito non porsi limiti, s’era accaparrata l’amore di due uomini con la pretesa che si riconciliassero fra loro in nome dell’idolatria che lei era convinta le dovessero.
E si era innalzata sopra di loro, lasciandoli ad adorare un’immagine ormai scolorita.
Come nebbia sul far dell’alba.
Anche se lei era lì, solida, gelida carne fra le sue braccia.
«Non vi è pace in me, Heathcliff.» rise una vocina sottile.
Heathcliff, esterrefatto, sollevò lo sguardo.
E la vide, candida, seduta sulla propria lapide, piccina, e se la ricordò quando solevano sfrecciare insieme nella brughiera.
«Cathy?».
La bambina non trovò ragione di sottolineare l’evidenza.
«Sono al disopra dei tuoi occhi, non delle tue sofferenze. O delle mie.».
Spiccò un piccolo balzo perché i piedi perlacei affondassero nella neve, poi scivolò all’interno del suo antico corpo come se fosse stato una culla tanto agognata.
Heathcliff fu attraversato da un brivido quando si accorse che il cuore di Catherine batteva selvaggiamente contro il suo, non attraverso le vene, ma nella sue testa: il suo pulsare ininterrotto gli diceva che non era il flusso caldo del sangue ad animarla, ma la sua stessa anima.
Annichilito, la vide aprire lo sguardo sornione nel suo, e le mani esili che si agitavano per adagiarsi sui suoi palmi.
«… Ma ciò ti arreca assai più sofferenze di quelle che avevi pregato a me.».
Nell’alzarsi, Heathcliff la attirò contro di sé, gelando fino alle ossa quando sentì che il suo corpo era ancora freddo come porcellana.
Prigioniero della sua incredulità, mentre la accarezzava sul viso, udì le proprie parole squarciare il velo in cui era stato avvolto.
«Quale sarà il prezzo di tutto questo?» chiese, in un misto di dolcezza e astio, beatitudine e tormento.
Cathy gli circondò il collo con le braccia, prima di muovere qualche passo indietro, senza alcun rumore, i piedi nudi che sprofondavano nella neve.
«Tutto quel che ti resta. E hai una sola notte per offrirmelo fino all’ultima briciola.».
Heathcliff vide nitidamente l’immagine del proprio corpo che si sgretolava come una statua di sale per finire fra quelle mani esangui.
Afferrò con forza quelle spalle, i capelli di lei che gli finivano sul viso e fra le mani, le braccia sottili aggrappate a lui che lo stringevano in un anello di ghiaccio e la sua guancia gelida contro la sua, a risucchiargli il calore dal viso.
«Non mi inviti a ballare?» bisbigliò.
«Credi di meritarlo?» fu la risposta di lui, che tentava, con scarso successo, di coprire il proprio struggimento con una maschera di ostilità, stringendola con un impeto tale che, in altre circostanze, l’avrebbe uccisa.
Non volle una risposta, né Catherine volle concedergliela, mentre lo avvinceva a sé in una giravolta, costringendolo ad abbracciarla come se il vento che ululava fra le tombe fosse il suono di un valzer, e loro i ballerini in una bianca sala addobbata a festa, trasportati al ritmo di un feroce incantesimo che li faceva vorticare come fuliggine nelle spire di un uragano.
Danzavano in rapita contemplazione, in un turbine sempre più allucinato e frenetico di piedi e ginocchia, di merletti e neve, cozzando l’una contro l’altro, il fuoco negli occhi e il gelo sulle mani mentre si stringevano convulsamente, volteggiando con uno slancio così impetuoso che il cimitero divenne una macchia sfocata davanti ai loro occhi, punteggiata dei fiocchi bianchi che adesso scendevano dal cielo in uno sciame in balia della tempesta.
Improvvisamente, Heathcliff fu preso dallo strano terrore che Catherine fosse della stessa labile costanza, e che, allo stesso modo, avrebbe potuto sfaldarsi in mille bruscolini che si sarebbero dissolti nell’aria.
Quando la strattonò contro di sé, serrandola fra le braccia con avida gelosia, lei si arrestò per poi fissarlo in viso, splendente di una serenità che mal si adattava al suo animo, e che sembrava prendersi velatamente gioco di lui.
A labbra strette, Heathcliff la scrutò con il suo sguardo senza fondo, quasi volesse incenerirla, ma Catherine non smorzò affatto la luce angelica e maliziosa del suo sorriso mentre eludeva l’abbraccio in cui lui l’aveva intrecciata, allontanando le dita dalle sue con un’insoffribile, carezzevole lentezza.
«Non vorrai abbandonarmi ancora!» si scagliò lui, trattenendo con violenza le sue mani e sperando di nascondere il pianto sotteso come un filo nella sua voce.
La risatina leggera e trillante di Cathy salì oltre il rombo del vento, scintillante e glaciale come un fiume.
«Oh no, Heathcliff, caro.» sussurrò, appoggiandosi contro il suo corpo intirizzito. «Non più.».
Fu come se il suo respiro si fosse scaldato, mentre si sollevava sulle punte per accarezzare le labbra di lui con le sue.
Heathcliff si accasciò docilmente su di esse, mentre l’inverno gli calava nelle vene come un veleno tanto atteso, e gelava finanche i suoi pensieri.
Scivolò rapidamente nelle acque profonde e scure di un mare ghiacciato.
Poi, trovò l’appiglio delle manine di Cathy e, senza alcuna esitazione, vi si aggrappò e risalì in alto, cullato fra le sue braccia.
Quando cadde nella neve, stringendola disperatamente, il cuore si era già arrestato in un sospiro di sollievo, e riposava, placido e immoto, accanto a quello altrettanto quieto di Cathy, rannicchiata al suo fianco come se si fosse appena addormentata.

***

Fu difficile, per gli abitanti di Gimmerton, stabilire se le circostanze della morte di Mr. Heathcliff fossero più scandalose del modo in cui aveva trascorso la propria vita.
L’avevano ritrovato così, mezzo sepolto dalla neve che aveva continuato a cadere incessantemente per tutta la notte, disteso accanto alla tomba orribilmente sventrata di Mrs. Linton e abbracciato al cadavere di quest’ultima. Il gelo e il rigore della morte avevano letteralmente calcificato la sua stretta, dimodoché nessuno, il mattino seguente, fu più in grado di separare le due salme, fra il mormorio e l’orrore degli astanti, ancora basiti dallo stato del corpo di Mrs. Linton, per nulla scalfito dal tempo.
Lo sgomento di Mr. Linton fu, se possibile, ancora più profondo: fu lui, durante la sua visita mattutina alla tomba, a rinvenire il cadavere del padrone di Wuthering Heights con quello della sua defunta consorte fra le braccia.
La sua servitù si era precipitata a prendere visione dell’incresciosa vicenda insieme a tutto il villaggio. Nessuno, fra loro, riusciva a capacitarsi dell’abiezione di quel satanasso, che, invece di raccomandarsi a Dio in vista dell’ultimo respiro, aveva preferito profanare un sepolcro.
Eppure qualcos’altro ebbe il potere di scandalizzarli più del fatto stesso: l’arrendevolezza di Mr. Linton che – vistosi incapace di far distaccare i due corpi – aveva dato ordine che fossero seppelliti insieme, stando ben attento a non far trapelare, in quel gesto, il proprio senso di sconfitta davanti ad occhi estranei.
Solo Nelly, accanto a lui, restò in composto silenzio, nonostante la sua disapprovazione.
Fissò a lungo lo sventurato scenario di fronte a loro.
Si disse che era esattamente quel che Mr. Heathcliff meritava, nonostante trovasse tale scelta oscena e dissacrante. Si disse anche che, a dispetto di tutto, quella era un’offesa inconcepibile da mente umana.
E che mai aveva visto tanta quiete impressa sul volto di entrambi.

***

A/N 11 settembre 2007, ore 1:06. Ultima fic dell’estate, ultima notte di bagordi prima che riprenda il tram-tram della mia grama e logorante vita scolastica XD. Partecipante al concorso di Storie Inquietanti indetto da Harriet e frutto dell’insana botta di ossessione/adorazione che mi ha assalita nei confronti di “Wuthering Heights”, questa è una storia che si ispira al concept di “It’s All Coming Back To Me Now” di Céline Dion, ed è sicuramente una delle cose più insopportabilmente difficili che mi sia mai capitato di scrivere. L’ho addirittura riscritta, e spero che quella vuotezza che avvertivo più marcatamente nella stesura della prima versione si sia smorzata e non sia arrivata a voi più di tanto. Ad ogni modo, la dedico, con mille ringraziamenti, a Michiru, che mi ha suggerito di riscriverla, e a Silvia e Patrizia, che l’hanno gradita tanto e che, di conseguenza, l’hanno fatta amare anche a me <3! OH. Il titolo è una citazione dalle versione inglese del romanzo.

Grazie a tutti!

Juuhachi Go.

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