[Magic Knight Rayearth] Mortis et inferi

Titolo: Mortis et inferi
Fandom: Magic Knight Rayearth
Personaggi: Hikaru Shidou, Zagato, Emeraude
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 1170 (LibreOffice)
Note: spoiler sul finale, credo? Terza classificata al concorso Fantasmi sul forum dell’EFP

Mortis et inferi

La strada del Pilastro è costellata di croci.
Hikaru ne spalanca le porte con un singulto violento che le assale il cuore – carne in puro, feroce movimento mentre le sue gambe sottili camminano con basita circospezione lungo un corridoio di marmo lucido, pestando il riflesso delle candele che ardono lasciando colare rivoli di cera pallida e odorosa ai piedi delle tombe.
È strano che siano delle croci. Perché dovrebbero esserlo, in un mondo come Cephiro?
Forse – rammenta a se stessa, con una calma e una chiarezza che mai l’hanno pervasa così – si tratta solo della forma che la sua mente ha dato alla sterminata fila di sacrifici che si sono succeduti di Pilastro in Pilastro, di secolo in secolo, per mano di una spada fatta come la sua, forgiata nell’acqua e nel fuoco di difficoltà forse simili.
È un destino che lei potrebbe arrivare a condividere, sepolta sotto una croce che non è davvero una croce, per mano di qualcuno che voleva il bene e si è trovato il male davanti quando non gli è stato più consentito di scegliere.
Hikaru non vuole.
Prova, anzi, avversione, per un simile pensiero.
E si sa – lo ha imparato – che la volontà, almeno a Cephiro, è tutto.
Sopra di lei, l’austera supervisione di una volta affrescata con cupe sfumature di rosso, uno srotolarsi di figure severe e bidimensionali che hanno da secoli fissato le coraggiose e friabili spalli di chi si è eretto a sommo sacrificio in nome di un pianeta, e di null’altro.
Com’è terribile ripetersi nella mente di che cosa è materiato il cuore della verità che tiene Cephiro in piedi.
Emeraude – la Principessa Emeraude, non perché Hikaru voglia relegarla nei confini angusti del ruolo che l’ha distrutta, no, ma perché è l’unica cosa che davvero renda almeno una vaga idea di cosa fosse, lei – le cammina davanti, a pochi passi, avvolta in una luminescenza bianca e purissima, e in uno strascico che fa un rumore sommesso mentre lei si muove.
Non si volta.
È probabile che non possa farlo.
È solo una cascata infinita di riccioli biondi, morbidi anelli d’oro zecchino che cadono sui veli delle sue vesti come soffici gioielli, mandando un lieve odore di fiori e primavera attraverso un impercettibile sentore di incenso, di umidità, di polvere.
Hikaru la segue, il peso della sua spada che le trascina il gomito a terra, intenzionata a percorrere dietro di lei tutto il tragitto – sgombro, ma quanto non sopporta tutto l’orrendo monito di tutta la morte custodita lì dentro!
Soprattutto, non vuole lasciarla sola, ora che può davvero fare qualcosa per lei.
Perché io ammiravo la forza che avevi nell’obbedire a un destino che hai accettato chinando la testa.
Ma avrei voluto, piuttosto, che non ti fosse mancato il coraggio per contraddirlo.
Ma come potevo sapere…

Già, come.
È stato il cardine che ha retto i giorni che sono venuti dopo.
Chiude gli occhi.
Emeraude sta cantando.
È una canzone forse più vecchia di cento Emeraude e cento Hikaru tutte abbracciate insieme, ed è modulata sulla sua voce fine come tela di ragno, dolce e struggente come l’ultimo pigolio di un uccellino.
Non dice cose allegre.
Ma le sue parole si confondono in sottili ghirigori di fumo, nonostante Hikaru distingua che parlino di fato e di morte, di sacrificio e sconfitta, di repressione e vittoria, di obbedienza e silenzi, di tante cose a cui il suo orecchio presta ascolto controvoglia, con lo sguardo che scivola su fitte incisioni di nomi – nomi di Principesse, di ragazzine, di bambine, di uomini e fanciulli, di troppi nomi.
C’è un sagrato, sul fondo del corridoio.
Si fa sempre più vicino, ed Emeraude chiede silenziosamente la sua mano per issarsi sul lettino posto su di esso.
Hikaru sbatte le ciglia.
Solo allora distingue con precisione la figura di un uomo che vi riposa.
Zagato.
Lunghi capelli neri pendono quieti dai bordi del giaciglio, e tutti i suoi paramenti sono in ordinata stasi sul corpo possente. Vorrebbe obiettare, impedire alla piccola Principessa di salire al suo fianco, ma non le sembra la cosa giusta da fare. Le offre il suo sostegno – è tutta luccicante di stelle, tutta bianca, leggera come forse non lo è mai stata – e la adagia con delicatezza sulle gambe rigide di lui.
Emeraude ride, uno scroscio d’acqua di fonte inusuale da parte sua, mentre dondola le caviglie sottili con infantile contentezza – piange appena, nel frattempo, ma senza contrarre il viso, intrecciando fili di fiori di pesco e appoggiandoli fra le ciocche del suo amato, accarezzandone il volto con innamorata lentezza, quasi per timore di interromperne il sonno.
Le sue lacrime gli bagnano le guance immobili.
«Forse non ho nemmeno il diritto di ringraziarti.».
La sua voce risuona sorprendentemente reale.
Hikaru non le risponde, la Principessa se ne sente colpevole.
«Ho pensato solo a me stessa.» specifica, con serafica tristezza «Ma era così semplice. È così semplice tuttora. Svanire se i tuoi desideri sono più grandi di te.».
«Se lui era il vostro,» la interrompe Hikaru con dolcezza «nessuno ve l’avrebbe mai negato, voi stessa avevate il potere di cambiare le cose fra le mani.».
Cade il silenzio; Emeraude attende ancora.
«Tutti volevano che voi foste felice perché vi amavano. Non avete pensato a loro.».
«È giusto che tu me ne dia la colpa, non abbassare così lo sguardo.».
«Non è una colpa, Principessa Emeraude. Avete amato tutto con una tale vastità da dimenticare di accludere la fiducia al vostro affetto… così avete dimenticato anche chi avrebbe sofferto per voi, se ve ne foste andata.».
«Ed è per questo che Zagato dorme ancora, sono indegna anche di lui.».
Affranta, ne percorre i lineamenti con il palmo della mano.
«Zagato dorme perché nel vostro cuore non c’è la pace che avevate sperato.».
«Dio, cosa ho fatto…» mormora lei, le mani fra i capelli.
Hikaru sorride soltanto.
«Avete lasciato il posto a un altro Pilastro. A un altro sacrificio.».
«Non volevo.».
Per la prima volta, Hikaru non l’ascolta.
«Ma io voglio provare a cambiare le cose.» afferma con gioia, con energia irresistibile. «Perché, nel mio piccolo, questo grande potere possa dare a tutti il loro ruolo nel costruire Cephiro.».
L’ultima lacrima che Emeraude piange è di felicità. Piomba sul viso di Zagato come un elisir che gli schiude le ciglia.
Che toglie il fiato alla ragazza.
Che si lascia andare a un pianto di liberazione, avvinta fra le sue braccia, sotto lo sguardo tranquillo e ridente – e azzurro, sembra Lantis, ha la stessa scintilla – di lui.
«Tu puoi.» ride Emeraude «Il tuo cuore può.».
Perché tu sei fatta per costruire il mondo.
Non per vivere per esso.

Hikaru precipita in mezzo al cielo senza possibilità di fermarsi, gli occhi inondati di una commozione dirompente mentre le sue mani sollevano la sua spada – è leggera come una piuma, ardente come il fuoco.
Da quel giorno, un frammento del destino di Cephiro sarebbe caduto nel cuore di tutti, una pioggia di mille gusti, di mille colori, di mille possibilità.
Destino non ha mai avuto un suono tanto promettente.

~

A/N 18 dicembre 2007, 1:33. Il fiore di pesco simboleggia l’amore immortale nel linguaggio dei fiori e la colpa è della death scene di Romeo + Juliet. Scritta in un’ora per il contest fantasmi di lisachan. E no, non vi è permesso sputarci sopra con la saliva. Usate l’acido ;_;! Vado a letto…

Juuhachi Go.

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