[Il Corsaro Nero] Nera di malasorte

Titolo: Nera di malasorte
Fandom: Il Corsaro Nero (ovvero il ciclo dei Corsari delle Antille di Salgari)
Personaggi: Emilio di Roccanera, Honorata Wan Guld
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 5014 (LibreOffice)
Note: ambientata dopo La Regina dei Caraibi, nonché vincitrice del Premio Giuria per la Sfida dell’Anno @ Anonima Autori nell’anno del signore 2016 non la scriverei così mallopposa, ma le voglio ancora tanto bene e vorrei riprovarci ancora…

Nera di malasorte

La pioggia s’infrangeva sulle finestre in uno scroscio fragoroso e ininterrotto, tanto che, sul far dell’alba, Honorata si ritrovò a raggomitolarsi nella stoffa damascata del lenzuolo, destata da un sonno leggero e inquieto. Al suo fianco, il cavaliere di Ventimiglia riposava tranquillo, offrendo il viso alla tenue luce che si spandeva dalla vetrata.
La giovane duchessa – o meglio, contessa – appoggiò i grandi occhi sul torace pallido, e lasciò che scorressero fino al bordo delle coperte in un esame quasi incredulo, il cui silenzio era screziato dai rumori ovattati della casa che, lentamente, si destava; già sentiva, fuori dagli appartamenti, un circospetto trafficare di fantesche che, leste, strusciavano le scarpine sui tappeti.
Honorata si avvolse timidamente nell’incavo del braccio del nobiluomo, lasciando che le lunghe dita le si aggrovigliassero delicate fra i capelli in un gesto inconscio, e la stretta si facesse salda. Non era abituata agli usi italiani, e le pareva ancora impensabile dividere con suo marito l’ampio letto rivestito di seta delle Fiandre in cui egli le aveva narrato fossero nati tutti i signori di Ventimiglia. La sua vicinanza era talmente estranea ai dettami con cui era stata ammaestrata che, spesso e volentieri, la piccola sposa fiamminga di Emilio di Roccanera si sorprendeva strappata al riposo per osservarlo, come avveniva in quel momento: la ruga che gli aveva solcato la fronte s’era appianata del tutto, non lasciando che un timido segno della sua presenza, e guizzando, talvolta, nei momenti in cui il cavaliere si lasciava andare agli incubi che lo assalivano come marosi, una volta scivolato nell’incoscienza.
Quando un tuono scosse i vetri con forza, Honorata si affrettò a rimboccargli le coperte sul petto, ma la premura si rivelò inutile, perché, in un rapido esalare di respiro, suo marito spalancò i fondi occhi neri e si voltò ad assicurarsi della sua presenza.
«Sognavi, Emilio?»
Il gentiluomo sembrò raddolcirsi, placando l’espressione dura che il risveglio gli aveva dipinto in viso.
«Temo di sì, mia cara…» mormorò, confuso, lasciando che Honorata lo aiutasse a indossare il solito cupo costume in seta nera, coprendosi con una veste da camera.
«Il signor di Ventimiglia dovrebbe darsi pace e smettere di correre appresso alle proprie visioni…»
«Se solo fossero le visioni, a smettere di seguirmi!» sibilò lui con voce sorda, guardando il diluvio che andava a ingrossare il mare.
«Cosa intendi dire?» azzardò Honorata, stringendogli la mano fra i pizzi della veste.
Lui alzò semplicemente gli occhi verso il cielo, grigio e pesante come una lastra di metallo.
«Follie!» borbottò soltanto, accennando un gesto di diniego con la mano e accingendo a ritirarsi per lasciare la moglie alle cure delle cameriere «Questa pioggia mi ispira cupe riflessioni, mia premurosa sposa, non dartene troppo pensiero, e concentrati unicamente sul ballo di questa sera – la mia patria tutta deve dare il benvenuto alla signora di Ventimiglia in modo grandioso, come da tempo non si vedeva fare in questo castello abbandonato a se stesso!» esclamò, rasserenato tutt’a un tratto, così tanto che Honorata annuì con un sorriso, lieta che il consorte si fosse finalmente alleggerito dei superstiziosi crucci che lo rodevano.

*

Fuori, la pioggia aveva smesso di cadere.
Chino sul suo scrittoio, il Corsaro Nero – perché era questo che, ahimè, sentiva ancora di essere, nel profondo del cuore – guardò la cera vermiglia del sigillo luccicare oltre i contorni del timbro, e accostò la missiva a un lato del tavolo, catturato dal lembo di mare che, fuori dalla finestra del proprio studio, mugghiava come un animale trattenuto nelle proprie catene, riflettendo nella spuma il cielo greve e cinerino.
Il tintinnio delle ceramiche e dell’argenteria che venivano sfoderate nel salone principale lo raggiungeva attraverso le porte chiuse, come a ricordargli che il mare non avrebbe rigettato nel mondo dei vivi alcun fantasma, alcun lugubre riflesso delle ossessioni che per anni si erano tenute la sua anima.
Eppure, non aveva modo di stornare il sentore che, in quel particolare periodo, lo stava braccando da prima del risveglio. Ogni abitante del suo palazzo, oppresso da quel laccio fine d’uggia e immotivato timore sceso su di esso, si spostava guardingo, e guardingo gettava occhiate dietro le proprie spalle. Solamente Honorata reagiva al clima con vivo spirito d’opposizione, bianca e volitiva. Riempiva l’intera casa di luci e di musica, d’ospiti e di chiacchiericci che la secolare dimora dei signori di Ventimiglia sembrava aver da lungo tempo cancellato dalla propria memoria, mentre egli si calava a fondo nella propria, di memoria, per cercare il pezzo informe di passato che desiderava riportarlo indietro.
Chiuse gli occhi e, con un tetro sospiro, nell’udire la cara voce di Honorata che aiutava la servitù a srotolare chissà quale arazzo, realizzò che non era l’eco di qualche vendetta mutilata a turbare la sua pace, non erano cadaveri che si sollevavano dalla spuma del mare accesa di fuochi soprannaturali, né il rimorso per il sangue sparso lungo il filo delle sue imprese.
Si trattava di una nostalgia potente, ancestrale – gli si aggrappava allo stomaco e ai polmoni come l’acqua salata durante un naufragio, bruciandolo fino alle ossa.
Era un tipo di rimpianto che non conosceva, e che lo invadeva di una sottile, segreta vergogna. Gli anni che aveva vissuto oltre la legge comune e il timore di Dio per tagliare la testa di un solo uomo – o almeno assicurarsi che il mare lo inghiottisse a fauci spalancate – avevano lasciato solchi profondi. Se non avevano mutato la sua fibra, certo avevano spalancato i suoi occhi sull’ampiezza indicibile di mondi variegati e selvaggi. Avevano stirato il suo cuore in spettacoli di crudezza e intensità così immense che, adesso, la silenziosa tranquillità della tenuta gli serrava la gola, facendo correre la sua memoria con più disperazione di quanto avrebbe ritenuto possibile: certe mattine era come svegliarsi in mare aperto e non vedere l’orizzonte in mezzo alla foschia. Era un uomo felice, tranquillo, amato, eppure qualcosa, sfuggita ai suoi ricordi, cantava al suo orecchio per svelarsi ai pezzi mancanti di quel mosaico.
Proprio mentre stava per strofinare le dita contro le tempie, uno strillo, seguito dallo schianto di qualche ninnolo di vetro, lo strappò al silenzio dello studio, per farlo praticamente balzare su, lungo la scalinata, fino alle stanze di Honorata.
«Cosa succede?» tuonò, facendo dardeggiare gli occhi da un lato all’altro della camera.
Non era stata sua moglie a urlare, ma una delle sue cameriere. Mentre Honorata osservava con muto sbigottimento la scena davanti a sé, ancora vestita della sola sottana bianca, la povera domestica aveva lasciato cadere sul tappeto la brocca con cui aveva aiutato la padrona a lavarsi. L’acqua si spandeva indisturbata in un’ampia macchia scura, ma nessuna, fra lei e il resto del personale, sembrò ricomporsi nel rimediare. Tutte pallide e istupidite, fissavano il monumentale armadio di quercia.
Le due ante, di peso e ampiezza considerevole, erano completamente spalancate, e gettavano un’ombra possente su tutto l’arredo, dando loro modo di constatare che, fra i preziosi capi presenti all’interno, uno era palesemente mancante.
«L’abito della festa,» mormorò Honorata, incerta «quello di broccato rosso che avevi fatto giungere dalla Francia.»
Emilio aggrottò pensosamente le sopracciglia.
«Dalla tua espressione suppongo non sia la sparizione del vestito in sé a sorprenderti!»
«No, infatti» asserì rapidamente lei, precipitandosi a frugare fra le pieghe della vestaglia dismessa, ancora appesa al paravento.
«Come puoi vedere, la chiave è rimasta con me tutto il tempo» gli disse, lasciando scivolare una grande chiave di bronzo fra le dita di suo marito, che la rigirò con aria assorta fra i palmi, lanciandole qualche occhiata di tanto in tanto, come se non gli fosse mai appartenuta prima di allora.
Era lucida dall’usura, massiccia. Ricordava quando, da bambino, si accalcava con i suoi fratelli allo spiraglio della porta aperta, per assistere al rituale proibito di cui la loro madre era l’unica testimone: alla vigilia di ogni serata di gala, durante la quale i più piccoli erano consegnati senza appello alle cure della balia, la precedente signora di Ventimiglia soleva girare la grossa chiave in quella toppa antica per trarre fuori da quel guardaroba i suoi abiti più preziosi, con l’aiuto della serva più fidata. I quattro ragazzini, quantunque uomini – o, almeno, futuri tali – non potevano esimersi dal restare un attimo a bocca aperta nell’osservare quella pomposa moltitudine di ori, sete e colori che sbucavano da lì, come lussuose farfalle colorate. Anche lei, mentre la cameriera accorreva a lisciarne il velluto con una spazzola, o ad appuntare chissà che orlo con ago e filo, sembrava addirittura meravigliarsene a sua volta. Dopodiché, nell’ordinare che la porta della sua camera venisse chiusa, si voltava con un sorriso che – Emilio se ne sarebbe reso conto solamente uscito da quell’età di fiaba – era ben consapevole dei quattro piccoli nasi curiosi, laggiù nella fenditura.
Riscuotendosi, Emilio riconsegnò la chiave alla legittima proprietaria.
«Quella serratura deve avere un secolo, ma dubito la si possa scassinare con facilità, e certamente non senza un gran fracasso… Noi eravamo dietro il paravento…»
Emilio la fissò con un lieve sorriso.
«Troverò il responsabile» le assicurò, frenando l’urgenza di ridere – era la prima volta che il Corsaro Nero pronunciava simili parole per una circostanza di tal fatta.
Uscì dalla camera a grandi passi, lasciando le cameriere a raccattare i cocci.
Rabbrividendo di freddo, Honorata fece cenno a una di loro perché l’aiutasse a vestirsi, fissando il proprio viso serio nella cornice dorata dello specchio.

*

Seguendo lo schiumare delle onde attraverso il vetro, il Corsaro Nero rabbrividì a contatto con l’aria gelida che doveva filtrare da uno spiffero là attorno.
Misurando l’interno dello studio a passi silenziosi, sbirciò fra i riquadri delle finestre che davano sull’ingresso principale e osservò le schiere di addetti in livrea che trasportavano fiori d’ogni tipo e colore attraverso lo scalone principale, spargendo e pesticciando petali ovunque.
Si mosse impaziente, facendo scricchiolare il cuoio degli stivali, e si diresse nel salone.
Quantunque presa dai propri pensieri, Honorata era già lì, intenta a dirigere il battaglione di domestiche cariche di ceste. Piccole dita esperte intrecciavano ghirlande e festoni con cui adornare tavoli e pareti, mentre altri mazzi giganteschi venivano appoggiati nei vasi, fino a che l’intera sala non cominciò ad esplodere di colori, e un intenso, soffocante profumo primaverile non l’ebbe riempita fino al soffitto.
Emilio se ne compiacque, lieto di poter così distrarre i pensieri della piccola sposa fiamminga. In mancanza dell’abito rosso, ne aveva indossato uno azzurro e ricamato d’argento, ma suo marito capiva bene che quel cruccio che Honorata si dava tanta pena di nascondergli non si poteva ricondurre a un semplice vezzo vanitoso. Entrambi sospettavano quanto fosse in realtà bizzarra l’intera faccenda, cosicché il signor di Ventimiglia, che sapeva di non poter lasciarla sola in balìa di quel rovello, si risolse a prendere la mano bianca nella sua.
«Mia cara, non importa da quale prospettiva io mi approcci alla questione – comunque la si voglia vedere in maniera razionale, resta il fatto che sparire con appresso la mole ingombrante di un abito come quello sia del tutto impossibile» bisbigliò, umettandosi le labbra «considerando che non solo la sparizione è stata operata nel più totale silenzio, ma anche con la massima discrezione, e con la sola copertura di un paravento.»
Honorata arricciò le sopracciglia e le labbra in una lieve smorfia dubbiosa.
Voltò il capo in direzione dello specchio lì di fronte, per scorgere il riflesso di Emilio che, chinando il capo, abbassava ulteriormente la voce.
«A meno che–»
Honorata tornò a guardarlo con un rapido scatto del collo, ridendo delicata nel tintinnio dei propri orecchini.
«Non riuscirai a convincermi dei tuoi intrighi soprannaturali!» lo ammonì scherzosa, baciandolo appena sulle labbra.
«Mi rincresce crederlo…» sussurrò lui di rimando, quando sua moglie invitò le cameriere a salire le scale, guardandole sciamare via in una pioggia di riverenze «… ma temo non ci resti che dubitare delle fantesche.»
Mentre Honorata annuiva con vigore – troppo, per le forcine che le tenevano le due trecce bionde e la retina argentata ben strette sulla sommità della testa, si accorse – il vento tremò con forza contro le finestre.
Occorse un secondo perché il rumore si trasformasse nel rotolare fragoroso di un tuono, ma ci volle anche meno di un battito di ciglia della contessa perché la stanza venisse invasa da un’oscurità temporalesca.
Per quanto la situazione rendesse la necessità tutt’altro che disonorevole, Honorata, stringendosi con forza contro il consorte, evitò di gridare. Per qualche strano motivo, la rassicurava notare, nel buio, il balenare argentato della spada di lui, sebbene comprendesse benissimo che, di qualunque cosa si trattasse, di certo le abilità del Corsaro Nero avessero poca potestà nell’arrestarne l’avanzata.
Il loro stupore toccò vette inimmaginabili quando, in una frazione di secondo in cui rilasciarono il respiro terrorizzato che avevano trattenuto, le nuvole sembrarono dissiparsi. I due, liberi di guardarsi negli occhi, lessero lo stesso accenno di superstiziosa paura, che di superstizioso, tuttavia, pareva conservare ben poco.
«Suppongo, caro, che qualcuno dei tuoi geni voglia spingermi a concederti credito ulteriore…» considerò lei, senza fiato.
«Iddio voglia che si tratti di uno dei miei, mia cara» borbottò lui, cupo, fissando un punto imprecisato della sala.
Honorata decise di seguirne il filo con lo sguardo e, se fu risoluta nel trattenere un grido anche stavolta, si lasciò sfuggire almeno una sopraffatta esclamazione di sorpresa.
Tutti i fiori s’erano tinti di rosso.

*

Acceso l’ultimo candeliere in un grappolo di luci, Honorata scosse appena la mano fra le pieghe delle maniche. Il fiammifero si spense in un sottile filo di fumo, e lei si guardò intorno, ispezionando la sala con occhi attenti, per vedere se tutto, al riverbero di quella tenue luce dorata, fosse al proprio legittimo posto, primi fra tutti i fiori che li circondavano. Nessuno aveva osato smuoverli o rimpiazzarli, e la signora di Ventimiglia si aggirava fra di essi in attonito silenzio, facendo scivolare lo sguardo verso il marito di tanto in tanto. Si era seduto compostamente su uno degli eleganti divanetti rivestiti di damasco e stava provvedendo a infoderare la spada. Schiuse le labbra come per parlare, nell’accorgersi della ruga che gli solcava nuovamente la fronte, ma il gentiluomo la precedette rapido.
«Che i miei fratelli vogliano realmente rivendicare il proprio diritto su queste nozze?» si domandò, la voce che si ripercuoteva sul soffitto in un basso rimbombo.
A dispetto del tuffo sordo del proprio cuore nel petto, la sua sposa sorrise.
«Se così avessero voluto, temo che sarei giunta morta a varcare le porte di questa dimora…» e subito, di riflesso, si sorprese di come una frase talmente irrazionale le fosse sfuggita di bocca.
Emilio vide il suo naturale pallore sbiadire ulteriormente nel pronunciarla, e raddolcì la tesa solennità dei propri lineamenti, complice anche il morbido, fiabesco chiarore delle luci che li avvolgevano, per poi decidere di ricondurre la loro conversazione a livelli di terrena rassicurazione.
«Ho ragione di ritenere che stasera i nostri ospiti costituiranno comunque una preoccupazione di tutto rispetto…» sospirò «Girano molte voci sulle mie imprese nelle Antille, e molte di più sul fatto che io abbia preso in moglie la figlia del governatore di Maracaibo…»
«La tua preoccupazione mi lusinga, amore mio, ma ti posso assicurare che le mie orecchie sono già state svezzate da tutte le dicerie che seguivano la mia famiglia nelle Fiandre – suppongo dovrò solamente preoccuparmi di essere una padrona di casa esemplare!» considerò placida. Emilio rispose baciando le nocche della sua mano di bambola, senza aggiungere parole al gesto.
Honorata giocherellò distrattamente con il ventaglio, esaminando con discrezione Emilio e il suo disagio, palpabile nell’aria come un profumo troppo forte: nonostante tutto, strinse le labbra. Il nome di suo padre era cosa proibita fra i signori di Ventimiglia – la contessa non osava pronunciarlo e il conte non la incentivava di certo, rifuggendo ogni occasione di farne aperta menzione. Honorata si domandava spesso se si trattasse di orrore nei suoi riguardi, o per il ricordo lancinante di quella vendetta e dei suoi dolori, ma non avvertiva mai alcun impellente bisogno di metterlo a parte dei suoi pensieri. Il ricordo che serbava di suo padre era quello di un uomo che l’aveva cresciuta come una principessa, nel quieto clima di una fiaba. Le voci che si rincorrevano per le vie della città non arrivavano con forza alle sue orecchie e, nel caso vi giungessero, non acquisivano che il tono di una svagata menzogna da salotto, prontamente irrisa e allontanata dal suo raggio d’azione.
Uomini impiccati, indigeni trafitti dalle proprie stesse lance, ragazze dalle vesti lacere gettate a viva forza fra gruppi di soldati urlanti, meschine pugnalate alle spalle e vendette organizzate fino al più crudele dettaglio per gelose ripicche d’infima importanza… non erano che incisioni spiate di nascosto fra i libri d’avventura dei suoi fratelli maggiori, fino a Emilio, fino alla maledizione che suo padre gli aveva scagliato nel sangue. Aveva reso vere quelle storie cupe, l’aveva riempita di tali verità da cancellare una compassione immeritata, l’aveva abbandonata per affrontarne il peso con tutte le conseguenze, fino a salvare entrambi, e a fare di lei una persona, e non una principessa di vetro. Se era un nome a cui non voleva dar voce, Honorata poteva perdonargli una simile omertà, eppure quei presagi e quella voce – la voce appena amara che sentiva modularsi da quelle labbra, e lo sguardo ardente che ne seguiva il rintoccare la facevano tremare dentro. Perché sapeva bene, ora, che erano i suoi fratelli, a popolare il sonno del signor di Ventimiglia. A dispetto delle parole che gli aveva rivolto, il dubbio che avrebbero potuto prima o poi domandare il loro ultimo tributo di sangue non poteva non sfiorarle davvero i pensieri, raggelandola a tal punto che le sembrò che gli occhi le pungessero per le lacrime: non dubitava che, se il Corsaro Nero l’avesse domandato, Honorata di Wan Guld, come a salvaguardia di un patto d’onore non scritto, avrebbe potuto davvero rovesciare i propri capelli biondi e offrire il collo alla sua spada, per liberarlo di quel fardello.
E quella, con ogni probabilità, era la più rimarchevole differenza fra lei e suo padre.
Trasalì impercettibilmente, senza azzardare fiato, nel notare che Emilio la osservava con aria assorta e intenta insieme, come a volerla spogliare del proprio cuore strato dopo strato, indovinando i suoi pensieri.
«Mi domando se sia bene dare ancora questa festa» sospirò, funereo, alludendo con un cenno alla giungla di fiori rossi che faceva loro da cornice.
Honorata trattenne un brivido, imponendosi di far affiorare un sorriso.
«Non temere, amo il rosso a sufficienza.» E lasciò che lui allacciasse di nuovo le dita alle sue.
Quando Honorata accennò ad allontanarsi in direzione della terrazza, le trattenne un istante ancora, riluttante a sciogliere la presa.
Avrebbe voluto dirle, in un impeto nel quale non ritrovava il proprio usuale raziocinio, che, come aveva fatto allora, l’avrebbe nuovamente preferita.
Ad ogni cosa.
Poi rise quietamente di sé, e si chiese perché mai Honorata non avrebbe dovuto saperlo.

*

La signora di Ventimiglia aveva ben appreso, fin dalla più tenera età, che le feste nobiliari e il loro brusio non l’affascinavano quanto avrebbero dovuto, e che l’allegria, in simili occasioni, era un sentimento del quale fare gran sfoggio, essendo quello l’unico svago a cui una nobildonna potesse aspirare.
Eppure, quella sera, l’irruzione così quotidiana e festante dei suoi ospiti aveva restituito una normalità talmente confortante a quelle stanze che Honorata vi si era abbandonata con una gioia grata e liberatoria – il rimescolarsi dei loro profumi speziati copriva quello dei fiori, così come lo sciabordare delle loro risate copriva il mare e i fantasmi che ne agitavano le acque. Ben poche, fra di esse, erano rivolte con lo spregio che Emilio aveva tanto temuto – un gran numero, in realtà, si era levato in ammirazione, quando la padrona di casa s’era seduta alla spinetta, accompagnando la propria voce chiara in una di quelle romanze d’amore che udiva spesso, da quando era giunta in Piemonte.
Sulla scia del suo canto, si alzò lesto l’eco dei musici, che continuarono con maggior vigore quando videro che la contessa, alzandosi dallo sgabello con un lembo della gonna fra le dita, prestava il braccio a uno degli ospiti che le aveva gentilmente domandato una danza, notando che Emilio conversava con una giovane donna che pendeva dalle sue labbra, e faceva di tutto per prolungare il discorso, esasperando visibilmente la sua consueta soglia di sopportazione.
Nel vederlo far buon viso a cattivo gioco con un sorriso, Honorata rise a sua volta e, al primo arrestarsi della musica, fu ben lieta di sostituirsi alla garrula ragazzina.
«Sembra che, per la prima volta, sia stata io a salvarti, mio caro…» bisbigliò divertita, mentre suo marito faceva uno sforzo per inghiottire l’innata tetraggine che gli eventi di quel pomeriggio avevano illividito.
Pieno di oscuri pensieri qual era, fissò i suoi occhi per un istante e si riscosse, sorreggendo la piccola vita in una sola mano.
«Lo credo anch’io» rispose soltanto, facendosi spazio fino al limitare del salone, orlato dagli ampi e pregiati specchi di Venezia che tanto amava. In un gesto del tutto istintivo, si voltò verso il riflesso nel vetro, e quello che vide dissipò non solo la fievole traccia di colore che, per natura, stentava a tingergli le guance, ma anche il sospetto che le sue intime credenze su alcuni inspiegabili fenomeni fossero null’altro che fantasie.
La, negli squisiti confini della cornice, il vetro lucente riproduceva – con ovvia e minuziosa fedeltà – lo sgranarsi stupefatto dei suoi occhi, e la stretta lieve attorno all’esile vita di ragazza.
Costei, tuttavia, non era Honorata.
L’abito di broccato rosso che la fasciava splendeva superbo alla luce delle candele come quello di ogni altra dama presente, e altrettanto vivo e reale era il colorito ramigno della sua pelle.
Laddove Honorata fissava l’immagine con un orrore tale da annichilirla, la giovane donna nel riflesso sorrideva d’una risata dolce, appena malinconica, sfoggiando due file di dentini candidi e regolari, grandi, profondi occhi neri e una cascata di folti e lucenti capelli dello stesso colore, ordinatamente acconciati sul capo in una stretta treccia, non coperta da alcuna retina.
Qualcosa, nella mente di Emilio, rispose al muto, commosso saluto di quello sguardo, ancora prima che i ricordi arrivassero a soccorrerlo.
Balzò a scrutare sua moglie, irrigidita contro il suo petto, ed ebbe a malapena la possibilità di osservarla svenire, per afflosciarsi cedevole nel suo abbraccio.
Con le mani ancora scosse da un accenno di tremore, l’uomo la depose con delicatezza sul divanetto lì vicino. Colto poi da un dubbio, si voltò per comprendere se gli astanti avessero preso atto della scena, e fu con sorpresa anche maggiore che li vide sbadigliare sonoramente uno ad uno mentre rotolavano al suolo, russando con aria completamente addormentata, nessuno immune: dormivano rannicchiati negli angoli i paggi e le fantesche, così come ronfavano i cavalieri con le pompose gonne delle dame a far loro da cuscino, mentre costoro riposavano beate sui guanciali dei loro stessi boccoli.
Nell’aria, come una nebbia, fluttuava il polline dei fiori.
Con le labbra ancora mezze dischiuse, Emilio tornò a contemplare lo specchio in silenzio, stordito.
La ragazza, incrociando sul grembo le piccole mani, sorrise in maniera lievemente più vergognosa, il capo appena chino, e fu quando mosse un passo con la naturalezza di una fanciulla di carne, varcando la barriera del vetro, che Emilio comprese con la violenza improvvisa di un lampo, in un’esclamazione di sorpresa.
«Mi avete dimenticata, mio signore?» sussurrò quella voce argentina, in tono più sommesso di quel che il cavaliere di Ventimiglia ricordava.
«Yara» disse, con un filo di voce, ricordando, tutt’a un tratto, la prima e l’ultima immagine che gli era rimasta di lei: una ragazza che lo fissava ammirata sull’orlo di un passaggio segreto, gli occhi ardenti, e il suo volto immobile e pallido reclinato sul divano della marchesa di Bermejo, il sangue che ancora si raggrumava sulla trama del tappeto.
«Mia povera Yara!» le disse ancora, e la ragazza evitò di ricordarle che quelle erano le ultime parole che aveva udito dalle sue labbra, mentre giaceva rovesciata al suolo da un proiettile.
Dimentico di qualunque timore, l’uomo si slanciò ad afferrare le mani di lei nelle sue.
«Io, mio signore. Non dubitavo diceste il vero, quando mi assicuraste che non avreste mai dimenticato il mio nome»
«Il signor di Ventimiglia non dimentica mai le persone a cui deve la vita, mia buona fanciulla» fece lui, con fierezza, e l’indiana gli si avvicinò in un paio di timidi passi, esaminandolo con attenzione, con uno sguardo così intento che Emilio giurò di non averle mai visto quand’era in vita, e lo metteva quasi a disagio.
«Cosa ti porta nel mondo dei vivi, povera anima?»
Yara sollevò per un attimo gli occhi su Honorata dormiente, e l’uomo non udì il respiro profondo che le sfuggì dal petto mentre scioglieva il contatto.
«Mi spiace di avervi spaventati, mio signore» si scusò, accennando al vestito della contessa e sfiorandone le lussuose pieghe della gonna con riverente timore «Non volevo certo incupire voi e la vostra sposa con il sentore del mio arrivo. Non era mia intenzione causare disordine» proseguì, indicando i fiori e gli ospiti avvinti nel loro incantesimo con un gesto della mano «tuttavia, lo spirito amareggiato di chi è andato incontro a morte violenta possiede una e una sola possibilità di tornare a calcare il suolo dei mortali, quando qualcosa non è andato reciso insieme alla propria vita.»
Il silenzio ancora incredulo del nobiluomo la incoraggiò a continuare.
«Io ho scelto di rivedervi un’ultima volta, perché solo a voi posso chiedere di esaudire il mio ultimo desiderio, e a nessun altro.»
«Parla, Yara. Non ti sarà negato nulla» le rispose, con aria gentile, quasi commossa.
La ragazza, illuminandosi di una gioia che mai il Corsaro Nero aveva potuto leggere sul suo volto, non fece altro che tendere verso di lui la propria mano.
«Una danza con voi, mio signore» gli rivelò con calore, e con una lieve nota di imbarazzata incertezza.
Intenerito, l’uomo prese le dita che gli venivano offerte per condurla con sé, accorgendosi, non senza un certo divertimento, che i suoi invitati si erano addormentati perfettamente in cerchio, così da lasciar loro lo spazio necessario – il piccolo spirito sembrava aver orchestrato il proprio desiderio nel minimo dettaglio.
Sebbene anche i musicisti si fossero assopiti, la musica prese a sgorgare nitida, e il conte, con un breve, galante inchino, prese la ragazza indiana per mano e l’accompagnò un passo dopo l’altro, meravigliandosi della sua leggiadria, lei che era cresciuta in un groviglio di foreste selvagge, e che, delle nobildonne europee, non aveva spiato altro che le donne che danzavano alle feste di don Pablo de Ribeira.
Preferirono non parlare, ed Emilio non poté che sorridere alla vista di quello sguardo spalancato sul suo, non più consumato dalla vendetta, ma lucido di una tristezza che l’uomo non sapeva – o forse non voleva – decifrare in alcun modo.
C’era qualcosa, nella bellezza di Yara, che faceva esplodere nel suo cuore la malinconia sorda che, nel corso di quei giorni, l’aveva inseguito senza posa, e che si amplificava, ora, nel vedere come la fanciulla sbocciasse come un fiore straniero nel ricco abito di foggia europea, e nel sapere bene che il corpo che si stringeva al suo sarebbe presto svanito come evapora una nuvola al mattino. Sarebbe tornato uno spirito condannato a vivere l’eternità di una giovinezza mai vissuta, e il Corsaro Nero riconobbe in sé la colpa di non averla potuta proteggere.
Nel volteggiare accanto al tavolo, estrasse un paio di fiori scarlatti dal vaso per appuntarli nell’intreccio dei suoi capelli.
«Se solo avessi potuto proteggerti, ora—»
Yara, con un coraggio che mai avrebbe osato in passato, nei momenti in cui gli era stata vicina, appoggiò la punta dei polpastrelli sulle sue labbra.
«No, mio signore» mormorò «io sono in pace, adesso. E lo sono anche i vostri fratelli, vendicati oramai da tempo. Non datevi più pensiero per loro, e vivete come un uomo felice, con la donna che amate, senza rimpianti» aggiunse, con voce appena rotta «Serbate un gioioso ricordo di me, come io, anche oltre una morte sfortunata, lo serbo di voi» sussurrò, sfiorandogli la guancia fino ad accarezzare il ricciolo scuro della sua barba. Sporse di più il capo, e il conte, immobile, si lasciò sfiorare dal soffio lieve delle sue parole. S’irrigidì, però nel comprendere che parole non ce ne sarebbero state – chiusi i begli occhi, Yara premette le labbra sulle sue labbra, in un bacio che aveva il sapore fruttato, selvatico e innocente delle terre e dei mari che il Corsaro Nero aveva solcato.
«Vi amo, mio signore» disse lei piano, separando appena la bocca dalla sua «Sono queste le parole che non avete udito che di sfuggita, perché la palla me le tagliò via col fiato. Mi hanno tenuta legata alla terra, nel mio desiderio sciocco di potervele rivelare. Sono libera ora, e pregherò perché vi tocchi in sorte una vita prospera, ma…» esitò, districandosi dall’abbraccio.
Emilio non le rispose, e Yara prese un sospiro per andare avanti.
«Ma vi supplico di non lasciare andare il vostro cuore» e di nuovo tentennò «… Quando… quando la vostra sposa verrà a raggiungere me» disse, con il tono di una preghiera che, già in partenza, sarebbe rimasta inascoltata.
Negli occhi del Corsaro Nero passò un lampo, e le labbra si schiusero ansiose a domandare, ma Yara scosse tristemente il capo, in un lieve fruscio di velluto.
La stoffa pesante dell’abito, vuota del suo peso grazioso, si ripiegò fra le sue braccia in silenziosa risposta.

*

Honorata, gli occhi ancora velati dal sonno, si sentì mozzare il respiro quando scivolò fra i cuscini ricamati, senza poter rimettersi seduta: Emilio la stava stringendo in un abbraccio serrato, convulso, con il capo affondato nella sua spalla.
«Emilio! Cosa… cosa è successo?» chiese, incurante degli ospiti che, nel riassettarsi, si meravigliavano dei fiori, improvvisamente divenuti variopinti, senza contare troppo i padroni di casa.
«Nulla, mia cara» borbottò «sono semplicemente felice che tu ti sia destata.»
Ancora confusa, ma perlomeno rassicurata, la contessa gli cinse le spalle con le braccia.
Dietro la sua schiena, il signore di Ventimiglia sgualciva con tormento due margherite rosse nel pugno, contro la seta azzurra del suo vestito.

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A/N 4 febbraio 2010, ore 01:59. No, gente, note e beting domattina – casco dal sonno.
EDIT (10:41) Okay, comincio subito col dire che questa fic l’avevo pianificata da eoni, ma ho avuto il coraggio di scriverla solo ora, a fronte di una lettura quasi integrale del Ciclo. Risultato: adesso oltre a Shakespeare e alla Brontë, mi aspetta al varco pure Salgari.
Ad ogni modo, il Corsaro Nero è un personaggio che amo senza ritegno, e chiamarlo per nome – salvo alcune eccezioni strategiche – dato che Corsaro non è più, e quello è il suo POV, è stata un’esperienza stranamente imbarazzante XD. Poi, a me Honorata piace un sacco, così come sono ovviamente contenta che alla fine del secondo romanzo si sposino, però allo stesso modo adoro l’idea che anche Yara si fosse innamorata di lui ♥, non potevo quindi lasciarla a un finale così triste… Ovviamente, come mio solito, non poteva che essere una storia di fantasmi. Insomma, parlando di questa fic in linea generale, devo dire che le rimprovero il fatto di essermi venuta fuori terribilmente lenta °_°”. Ok, doveva effettivamente esserlo perché volevo trasmettere un senso di angoscia e sospensione prima che Yara apparisse, ma temo di aver esagerato. Temo che un po’ sia da attribuire al fatto di aver inconsapevolmente voluto fare uno studio dei personaggi per abituarmi a loro e anche, perché no, adattarli al mio modo di scrivere: non ho assolutamente la capacità scrupolosa di documentarsi che possedeva Salgari, né una grande esperienza in termini tecnici che mi possa aiutare a scrivere trame concitate con i suoi personaggi, perciò è venuta fuori così .__., con questo stile demodé rispolverato un po’ per l’occasione, che sospetto un po’ lasci vedere al lettore i miei limiti di narratrice in generale, anche quando scrivo in modo un po’ più sciolto .___.. Oh, e vorrei precisare che l’idea del vestito, dello specchio e dei fiori rossi sono più recenti dell’idea del fantasma XD, spero che Salgari non si rivolti nella tomba! Bacio speciale, oltretutto, a Fiorediloto per il suo aiuto ♥, per il beting, il supporto, e per avermi ricordato – dopo tre lunghi giorni in cerca di un titolo – che de André ha scritto Dolcenera *_____*! E grazie pure a Valychan – senza di lei a condividere i fandom più assurdi il mondo sarebbe un luogo molto triste ^__^.

*viene sparata dai lettori per le note chilometriche*

Juuhachi Go.

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