[Final Fantasy XII] Dynast-Queen

Titolo: Dynast-Queen
Fandom: Final Fantasy XII
Personaggi: Ashelia B’Nargin Dalmasca, Basch von Rosenburg
Parte: 1/1
Rating: PG13
Conteggio Parole: 5444 (LibreOffice)
Note: spoiler dal Faro in poi, un poco di violenza generica.

Dynast-Queen

Anche a distanza di tempo, Basch non riuscì mai a capacitarsi pienamente del perché Lady Ashe avesse preteso la sua silenziosa presenza in una cerimonia di così grande intimità, in onore della quale tutto il placido villaggio del Deserto Est si era ritratto timoroso nelle sue capanne di argilla, lasciando la regina sola con il suo séguito di vergini, immacolati teli bianchi e l’acqua azzurra e scintillante del Nebra, unici testimoni di un rito rimasto immutato nella lunga storia di Casa Dalmasca, eppure relativamente nuovo per l’occasione. Quel bagno purificatore, così essenziale all’interno di una cultura che guardava all’acqua come a un bene più prezioso di ogni altra cosa, era da secoli un augurio di fecondità alla principessa consorte, che si ripercuoteva sull’intera terra di Dalmasca.
Una principessa consorte non era tuttavia una regina, e una regina non era mai stata davvero sola come ora. La cerimonia a cui prestava il proprio corpo di ragazza rappresentava un vero e proprio salto nel buio: il suo sentimento benaugurale scoccava la propria freccia in un futuro vago e lontano, in cui Dalmasca, oltre al favore che gli dèi le avevano da sempre accordato, aveva di nuovo un re che potesse concretizzare una simile previsione.
Ashe aveva riso, ogni volta che aveva udito quelle parole in mille salse diverse.
«Credo avrei indubbiamente preferito la benedizione di un mondo senza dèi, piuttosto che uno in cui gli dèi ci deridono dall’alto!» aveva esclamato nei suoi appartamenti, mentre sceglieva a Basch un travestimento adeguato, ora che, nell’attesa di impersonare Gabranth, l’ex-capitano non poteva prendere possesso di se stesso.
Aveva riso anche lui in risposta, con la stessa punta di amarezza, quando lei l’aveva avvolto in candidi scialli dalmaschi, contro il caldo ardente del deserto, in uno schermo che l’avrebbe protetto da qualunque occhio non fosse il suo.
«Voglio che voi presenziate alla cerimonia.»
«È peccato, Maestà» sussurrò Basch, severo, lottando contro il tono irremovibile di lei.
«Verso che dio?» rispose lei, tagliente «È sufficiente che nessuno degli astanti vi veda. È più che abbastanza, dato che nessun occhio divino vi scruterà dall’alto.»
Basch rimase a fissarla con l’aria indecifrabile e distante che l’aveva sempre messa in soggezione.
«Perché lo desiderate?»
Lady Ashe aveva lasciato che le sue labbra disegnassero un sorriso molto più genuino di qualunque cosa fosse ormai abituata a mostrare.
«Ho bisogno di avere accanto qualcuno che sappia la verità riguardo a che razza di dèi rivolgiamo simili salamelecchi superstiziosi.»

*

Ashe sollevò una mano contro il sole che le lampeggiava negli occhi, il viso lambito dal vento bollente che le arrossava le guance. Lo sentiva fischiare fra le dune come uno spettro, o come la risacca di un mare lontano, mentre spiccava il volo fra le rade fronde verdi che nascondevano il recinto del piccolo villaggio lì vicino. In un gesto impercettibile, si morse piano l’interno della bocca: le era sembrato di cogliere un lembo bianco fra le foglie, ma sapeva che l’accortezza di Basch poggiava su ben altri livelli, e decise di guardarsi attorno, attraverso i teli di cotone tesi attorno a lei da piccole mani bianche, per nasconderla dal resto del mondo. Erano veri e propri arazzi, sul cui lino grezzo erano state ricamate tutte le gesta di Raithwall: divinità dal sorriso benevolo gli baciavano la fronte nell’accordagli prosperità e potere, e Ashe temette che la sua nudità rendesse ben visibile il brivido che l’aveva attraversata da capo a piedi nel momento in cui aveva osato fare un raffronto con la realtà. Il caldo si era fatto insopportabile, e le corde degli ud scandivano una musica lenta e solenne, greve come piombo, come la bugia su cui tutto l’orgoglio della famiglia reale si era innalzato mattone dopo mattone.
E al disopra del vento, del gocciolare lento e coinciso della musica, del canto sottile delle vergini, del salmodiare delle sacerdotesse e del tendersi dei loro drappeggi, l’unica consapevolezza erano gli occhi di Basch che le scivolavano addosso.
Il brivido fu caldo e invisibile, stavolta, e Ashe se lo lasciò scorrere dentro con un feroce senso di soddisfazione. Era un pensiero terribilmente profano, nel cerchio privato dei suoi pensieri, e fu l’unico in grado di mantenerla con i piedi per terra.
Gli Occuria le avevano aperto gli occhi senza volerlo, meno tangibili e più veri di ogni pesante statua di marmo che si costruivano gli uomini in onore dei loro pantheon immaginari. Dovette dar fondo a tutte le proprie risorse di attrice per trattenere un ghigno, lasciandolo arrotolarsi sulla punta della lingua, dietro alla barriera dei denti. In un annoiato capriccio, avevano creato tutte le razze d’Ivalice, e poggiato i loro tizzoni di morte solo sugli hume, che millantavano di godere di tutte le dolcezze del pieno benestare divino, di essere stati foggiati a immagine e somiglianza dei loro creatori.
In un certo qual modo, non si stupiva di dover dar loro ragione, meno di quanto gli hume immaginassero, e più di quanto gli Occuria stessi – tessitori bugiardi di sogni, destini, storie – avrebbero mai potuto sperare da parte sua.
L’acqua era calda come pece, e Ashe vi entrò alzando bene un ginocchio e poi l’altro, in un lieve sciabordio di bolle.
«Ashelia B’nargin, Regina Dinasta di Dalmasca e Nabradia, figlia di Raminas, ultima stella del valoroso sangue di Raithwall…»
Ascoltò distrattamente, reprimendo un riso amaro.
Regina Dinasta.
Un fregio regale che pesava come una catena di schiavitù spezzata a fatica da un bagno di sangue – sangue non suo, sangue che avrebbe potuto risparmiare.

Impara a non sfidare la collera degli dèi, ingrata impudente figlia di hume!

Nel momento stesso in cui la corona di voci le esplose nella testa, una quarta, orribilmente reale, si alzò a sovrastarle con un rantolo.
Ashe si voltò all’istante, senza nemmeno preoccuparsi di coprirsi, correndo nella sabbia ardente fino a bruciarsi la carne, mentre afferrava Basch fra i cespugli e lo stringeva contro di sé, sentendolo tremare violentemente.
Anche il sole smise di scottare, quando si accorse che l’incavo fra i seni si era macchiato di sangue, e che, allontanando appena il viso di lui, poteva vederlo sgorgare dalle palpebre piagate.
Cieco.
Con uno sforzo enorme per dominare la voglia di unirsi ai suoi lamenti, ordinò, con voce fredda, che fossero usati gli arazzi per trasportarlo a Palazzo.

*

Le pesanti tende di broccato erano calate sulle ampie finestre per impedire a gran parte della luce di filtrare nella stanza, e la regina, infilata in una sottoveste, stava cercando, a tentoni, di sfilare gli arazzi da sotto al corpo del capitano. Il dolore l’aveva fatto dimenare con le mani sugli occhi, ne rimanevano le tracce in piccole gocce sul lino e in grossi rivoli disseccati fra le dita di lui, che adesso giaceva svenuto fra le lenzuola. Il medico di corte tardava ad arrivare, e Ashe non si sarebbe di certo azzardata a intervenire in sua vece. Gli asciugò il sudore dalla fronte e percorse la linea dell’attaccatura dei capelli con le dita, fino a intrecciarvele in una carezza esitante, china sul viso, così familiare anche in una penombra così intensa – ed era di nuovo colpa della sua tracotanza, se Basch pativa le conseguenze di peccati non suoi.
Si appoggiò con la fronte sul bordo del materasso, e faticò a sentire il lieve fremito di Basch che riprendeva a muoversi, solo per arrestarsi quando gli giunsero alle orecchie i suoni incerti della presenza di lei attraverso quella cortina di buio. L’ultima volta che aveva udito un singhiozzo provenire da Lady Ashe, stava restituendo la libertà a tutta Ivalice, cercando di rimetterne insieme i pezzi.
Non aveva potuto offrirle più di una mano sulla spalla, e adesso – si disse, lottando contro le fitte di dolore che gli incendiavano i nervi – non poteva nemmeno confortarla con lo sguardo, nell’unico modo che poteva permettergli di non toccarla, e mai avrebbe pensato – o voluto pensare – che, un giorno, l’avrebbe sentita piangere per lui.
«L-Lady Ashe…» articolò, in un filo di voce roca, mentre tendeva una mano verso la fonte del suono e tastava il calore della sua guancia prima ancora di toccarla.
«Non parlate» sussurrò lei, afferrandogli le dita per chiudervi dentro le sue e appoggiarsi alle nocche caldissime con la fronte «È stata colpa mia.»
«Come… come se agli Occuria servisse un pretesto per angustiarci…»
«Shhh…» ribatté semplicemente lei con una dolcezza che gli spezzò il cuore, mentre gli faceva scivolare alcune gocce d’acqua fresca fra le labbra, intingendo un mestolo nella brocca sul comodino e sperando di prendere la mira.
Basch bevve in silenzio, prendendo un sospiro tremante quando si staccò dal bordo di metallo.
«Quando agite così comincio a temere per la vostra incolumità» esalò, estinguendo un tentativo di sorriso quando si accorse che non riusciva a muovere un muscolo senza dover trattenere un grido di dolore.
«Quando agisco in modo da farvi temere per la mia incolumità, Sir Basch» sibilò Ashe, incapace di trattenere il proprio naturale impulso di scattare sulla difensiva a prescindere dalla situazione «non mi scomodo nemmeno a imporvi il silenzio.»
Basch sospirò, sconfitto, reclinando la testa sul guanciale. Non ci volle molto perché perdesse di nuovo i sensi. Prima che Ashe potesse allarmarsi, il medico aveva già fatto ingresso nella stanza e, con un rapido inchino, aveva esaminato le piaghe sulle palpebre del paziente.
Nel sottile filo di luce che passava dalle tende, Ashe seguì il solco profondo della ruga di disappunto che aveva preso a correre lungo la fronte, nel momento in cui il vecchio aveva tentato varie magie bianche per riportarlo alla salute. Non era il momento adatto, no, ma il veder ripetere gli stessi gesti che lei aveva eseguito quotidianamente sui compagni, con quella scioltezza propria di quei momenti di pericolo indescrivibile, le gonfiò il cuore di una nostalgia densa come sciroppo.
«Mia signora, quella di cui siamo spettatori può essere solo una maledizione fra le più prodigiose, contro la quale la magia di un povero vecchio può meno che nulla.»
Pur non essendo del tutto impreparata a una risposta di quel calibro, lei si sentì stretta in una morsa, e stette in silenzio abbastanza a lungo da permettergli di proseguire.
«Non ci resta che la via naturale, per tentare di lenire gli effetti, dato che piaghe così profonde sono facile nido di infezioni, che potrebbero intralciare un possibile recupero della vista.»
Ashe non osò manifestare tutto l’orrore che l’aveva scossa per l’ultima notizia: era una regina e, cosa non meno importante, Basch era un Giudice Magister appena uscito da una guerra contro Dalmasca.
Non parlò neppure quando il dottore si mise a frugare nell’ampia bisaccia per trarne fuori una fiala e un vasetto.
«Somministrategli non più di cinque gocce di laudano ogni giorno, per alleviare il dolore, e applicate quest’impasto di eufrasia su una garza da appoggiare sugli occhi. Il resto, lo sanno solo gli dèi» aggiunse, sconsolato, mentre si ritirava con un cenno del capo.
Oh, sì, considerò Ashe, rigirandosi la fiala fra le dita con la rabbia che le corrodeva lo stomaco e siccome sono gli dèi a saperlo, sarà bene che siano preparati a ricevermi meglio di come abbiano fatto in precedenza.
Lasciò che le cinque gocce di oppiaceo bagnassero la gola di Basch perché sprofondasse in un sonno immobile e privo di spasmi.

*

Il primo pensiero che guidò i suoi passi, quando infilò i suoi vecchi abiti da battaglia e si calò nei Canali di Garamsythe per sgusciare fuori come se qualcuno avesse potuto davvero rimproverarla, fu quello delle Cascate di Ridorana. Già sentiva la salsedine di quelle acque immense tagliarle la faccia: quello era il luogo dove aveva dato una risposta al patto che gli Occuria le avevano sottoposto, e lì era sicura di poter trovare la loro, di risposta.
Certo, si disse, con aria dura, non avrebbe prestato sincera fiducia a una sola nota delle loro voci, qualora le fossero davvero apparsi come l’ultima volta, ma avrebbe fatto qualunque cosa per strappar loro la chiave con la quale stavano giocherellando a sua insaputa.
D’altronde non doveva dimenticare che parole come “qualunque cosa” andavano usate con estrema intelligenza, all’insorgere di simili occasioni.

*

Rabanastre era un formicolio di vita.
Era una cosa che Ashe aveva sempre saputo, fin dai tempi in cui la sua vita agiata e priva di scossoni si era srotolata in un lungo filo prezioso fra gli ori antichi del Palazzo Reale, lontana dalla gente sulla quale lei e Rasler avrebbero dovuto regnare.
Tuttavia, anche alle orecchie regali del Quartiere Nord risuonavano, vividi e vicini, i rumori del cuore di Dalmasca: il brusio incessante del bazar e dei mercatini, il ritmo della musica che saliva dai loro banchi, le voci tonanti dei venditori che li animavano, lo stridio e il frullare d’ali degli animali chiusi in costrittive gabbiette, l’affollarsi di verdurai, strilloni, musici, puttane, commercianti d’incenso e di tappeti nei sudici spazi lasciati vuoti dalle bancarelle… Più volte, soprattutto durante la sua infanzia, danzatori e venditori di passaggio a Corte avevano cantato che, qualunque cosa lorsignori avessero cercato, l’avrebbero trovata in quel dedalo di viuzze. Suo padre e sua madre (un volto vago e pallido al margine della memoria) non avrebbero mai creduto, allora, che la loro Ashelia sarebbe stata l’unica, fra loro, che avrebbe potuto seguire, un giorno, un consiglio così inopportuno per una donna di sangue reale.
Ashelia, in incognito, l’aveva vista tutta, la sua gente, aveva camminato per il suo regno e per quelli altrui. Solo quando, per la prima volta in tutta la sua vita, si era mischiata davvero alla folla del bazar aveva capito quanta verità dormisse nelle parole di quegli artisti girovaghi: non c’era nulla che sarebbe sembrato estraneo a qualunque sua ricerca.
Replicare quella singolare emozione, dopo quasi tre anni in cui aveva potuto infiltrarsi in quel luogo, la provocò con la stessa forza, e fu una sensazione talmente viva – una zaffata di sensi su tutta la pelle – che, per un attimo, Ashe dimenticò ogni cosa, salvo poi ricordarsene immediatamente quando un rapido soffio di vento alle sue narici sgusciò fra la gente in una scia di odore sorprendentemente antico.
Non era qualcosa che la regina potesse spiegarsi con il solo aiuto dell’olfatto. Era stata partecipe di grandiosi fenomeni sovrannaturali durante il suo viaggio: che le piacesse o meno, aveva imparato a scoprirne i moti e a percepirne le vibrazioni.
Passò fra la gente a spintoni, per seguirne la traccia – urtò liuti e cingoli, scialli e sonagli, con le narici frementi e dilatate, pronte a cogliere quell’odore che Ashe ammetteva di riconoscere più che altro con la mente.
Lasciò che la conducesse dove voleva, e non si fece domande, quando realizzò che l’aveva condotta presso una porta sgangherata, oltre la quale la regina non udiva alcun alito di vita.
L’aprì – aveva imparato a spingere indietro la paura in favore dell’avventatezza, quando era utile a salvare qualche vita in più.
La stanza non aveva finestre. Il caldo era soffocante, l’ombra pesante, e così l’odore di chiuso che la impregnava. Era vuota di tutto, fuorché di un vecchio inginocchiato a gambe incrociate sul pavimento inspessito da una spessa patina di sudiciume e crepe.
Ashe avanzò lentamente, lo sporco sotto i suoi tacchi sembrava essere così radicato da coprire il rumore.
Il tempo aveva asciugato l’uomo che aveva di fronte: la testa, troppo grande rispetto al corpo avvolto in pregiate stoffe blu, esibiva un cranio lucido e rasato. La fissava con un gran sorriso, o almeno così avrebbe fatto se avesse potuto fissarla. Il contorno dei grandi occhi, dalla forma vagamente a mandorla, conteneva due cornee bianche e vuote, che le davano comunque la sgradevole sensazione che il vecchio, mentre si lisciava la lunga barba d’argento, potesse seguire i suoi movimenti, approvandoli con un ampio sorriso di grossi denti ingrigiti e troppo radi.
Aveva un colorito giallastro, che si schiariva in prossimità delle lunghe mani.
«Figlia di Dalmasca» gracchiò. In tempi antichi doveva aver posseduto una voce a dir poco stentorea. Ashe gli si parò di fronte, rigida e altera come un giglio di Galbana in piena fioritura. Nel rilassarsi di quel sorriso da giullare, notò la presenza di due disegni tatuati in azzurro cupo sotto gli occhi, fra le grinze delle guance cascanti: due gigli stilizzati.
«Siete stato voi a condurmi qui?» chiese, con freddezza imperiosa. Le rispose una risata sibilante, catarrosa, a cui il vecchio mise fine con un rauco colpetto di tosse.
«Non esattamente» rispose, sollevando un palmo e facendovi fluttuare sopra una piccola sfera di luce blu, che subito assunse le fumose sembianze di una donna che tagliava una sagoma di uomo con un colpo secco.
Ashe non poté evitare di rabbrividire. Vide quegli occhi vuoti, lubrici e osceni farsi silenziose beffe di lei.
«Ti vantasti tu, o sciocca mortale, di aver ottenuto sulla tua Storia un reclamo di assoluto dominio?»
«Vantarmi non è nella mia natura, così come non lo è farmi imbrigliare nuovamente negli stessi fili. Non permetterò nuociate ancora alle cose che amo!»
La gelida serenità con cui aveva parlato fremeva di una rabbia e di una passione che, quasi un anno prima, sarebbe del tutto esplosa, fomentata dall’orgoglio, lo stesso che, in quel momento, ne tratteneva l’impulso.
«Nuovi patti s’affastellano oggi al cospetto di chi, allora, un gran ripudio oppose.»
La voce, stavolta, era trina, e i tre toni di coro che assunse le penetrarono le ossa.
Ashe inarcò un sopracciglio.
«Ebbene, esponeteli.»
«Recaci un frammento dell’uman lido su cui trovò dimora il nostro maledir.»
Non le fu ordinato null’altro: il vento la spinse fuori dall’uscio, negandole nuovo accesso.

*

Trattenendo fra i denti la frustrazione e la paura, Ashe ripulì le gocce di pus dagli occhi di Basch con una garza imbevuta di linimento d’eufrasia.
La disperazione, adesso che aveva la certezza che i suoi nemici fossero perlomeno rintracciabili, era un sentimento più solido, che riusciva a controllare con maggiore razionalità. Compiere gesti così delicati su Basch aiutava a distrarla: lavare via l’infezione a mano era di fondamentale importanza, dato che una possibile espansione di essa troppo in profondità avrebbe potuto intaccare le iridi in maniera permanente. Una responsabilità tanto pratica le permetteva di non divagare con la testa, e le scaldava il cuore più di quanto avrebbe dovuto permettersi.
«E così…» articolò Basch «gli Occuria vi si sono manifestati in un’unica forma umana.»
Ashe annuì, poi ricordò che Basch non poteva prenderne atto.
«Così sembra» disse, pensierosa «Non credo nutrano un piacere talmente truculento da desiderare che io vi faccia a pezzetti e vi porti al loro cospetto…» meditò, caustica, gettando via la garza e rimpiazzandola con una pulita.
Basch la ignorò.
«Avrebbero potuto convocarvi di nuovo al Faro di Ridorana… perché non l’hanno fatto?»
«Fatico a concepirlo» fece lei, con una scrollata di spalle «È però certo che vogliono di nuovo attirarmi in loro potere, indebolendo quel che ho attorno.»
«Io comincio a pensare che un avversario, dopo essere stato sconfitto, possa cercare di portarsi a pari livello con il proprio nemico, per potersi prendere una rivincita.»
«Cosa intendete dire?» mormorò Ashe, perplessa.
«L’uomo che hanno creato è apparentemente cieco, come me. Prima di oggi, mai hanno avuto bisogno di infiltrarsi a Dalmasca. Nel passato, poi, non avrebbero certo fatto ricorso a una forma di carne, per un tentativo.»
«Soprattutto, non dopo che abbiamo provveduto a tagliare l’unico veicolo di influenza tangibile che condividevano con l’uomo…»
«Li avete già sconfitti una volta, Maestà. Tagliando la loro fonte di potere, come loro non si sarebbero mai aspettati.»
«Da parte mia, mi aspetto solo tranelli» sospirò Ashe, cupa «Vogliono che porti un frammento dell’uomo su cui è caduta la loro maledizione. Dall’alto della loro onniscienza, sembra quasi abbiano voluto lanciare un fulmine a casaccio su Dalmasca per colpirmi…»
«… Ignari in prima persona di dove tale fulmine sarebbe andato a cadere» completò Basch, con il tono di chi si trovava sull’orlo di una rivelazione.
«Se non sanno, è probabile che adesso vogliano sapere quale bersaglio abbiano mai colto!» esclamò Ashe, facendo vibrare l’entusiasmo fra le parole.
«Potrebbe essere una trappola» l’ammonì lui, severo.
«Non lo escludo. Ma non escludo neppure che, a furia di voler battere il proprio nemico scendendo al suo livello, gli Occuria si siano spinti troppo oltre.»
Basch si morse il labbro.
«È probabile che un simile decadimento possa anche non essere avvenuto di loro sponte. Non dopo che la Spada dei Re ha distrutto la negalite.»
Ashe soppesò l’ipotesi senza emettere fiato.
«Basch?» lo chiamò. Qualunque uomo incapace di guardarla in faccia avrebbe ravvisato un tocco di alterigia in un tono talmente fermo. Non lui, che riusciva a sentirne l’accenno di sorriso.
«Se avete avuto l’intuizione giusta, giuro che vi nomino Consigliere in pompa magna!»
Il silenzio eloquente di Basch la invitò a proseguire.
«Gli dèi hanno tentato di elevare una mortale con l’inganno, e la mortale li ha ristretti nel corpo di un uomo.»
«Beh,» Basch approfittò della garza per nascondere un sorriso, e rinunciò a scrollare le spalle, data la posizione «non tutte le sante porgono l’altra guancia, a quanto pare…»
«Non tutte le sante mancate accecano gli dèi» gli fece eco Ashe «A quanto pare, la distruzione della negalite li ha regrediti a una forma che, per loro, non è molto diversa da quella di una larva. Che davvero non abbiano più la facoltà di scrutare cielo e terra?»
«C’è un modo in cui possiamo esserne certi»scandì lentamente Basch «Staccate un frammento dall’armatura di Giudice di Noah.»

*

Qualche goccia di sangue appiccicaticcio scivolò a raggrumarsi fra le pieghe della pelle. Ashe si rese vagamente conto di essersi tagliata con la scheggia di bronzo che minacciava di trapassarle il palmo, se solo l’avesse chiusa più strettamente nel pugno.
Impegnata a rimboccarsi lo scialle ricamato ai lati del viso, si morse il labbro, ignorando completamente la folla e maledicendo i pensieri che si affollavano nella sua testa pesticciandosi l’un l’altro, in una scarica di terrore e adrenalina, come una folla di mercanti nel covo di cento banditi. Non era invulnerabile e non era infallibile, ma Basch le aveva lasciato la propria vita fra le mani senza alcuna garanzia di successo e senza costrizione alcuna.
Realizzarlo la fece sentire piccola e muta nell’ignaro battaglione di sari colorati che la urtavano, e la neo-regina, sola con la sua responsabilità, col cuore che sembrava affondare nelle costole col passare dei secondi, prese un respiro e cominciò a correre, riprendendo nuovamente coscienza del proprio corpo attraverso l’afrore di spezie e zucchero che saturava l’aria.
L’unico dovere che aveva, adesso, era nei confronti di Basch.
E decise di non soffermarsi sull’angoscia che le serrava la gola al pensiero di fallire, perché le costava più di quanto potesse ammettere, e più di quanto potesse sopportare.
Lasciò che la seta preziosa che le copriva il capo si gonfiasse come una vela nei suoi passi, dimentica di come un capo tanto elegante potesse attirare indesiderate attenzioni, nel fondo del bazar, dove le bancarelle marcivano come frutti.
L’incuria e la sporcizia che la circondavano, tuttavia, le apparivano come un un segnale che la avvicinava alla loro tana, constatò con una smorfia. Un fiotto di bile le bruciò nello stomaco quando, con un calcio, smantellò la porta dai cardini, i cui vetri luridi si sbriciolarono al suolo.
«Sei giunta, figlia di Dalmasca» latrarono soddisfatte tre voci androgine.
Ashe, pur alzando gli occhi, non vide nessuno, e si accorse troppo tardi che la scheggia di bronzo si dibatteva nel suo pugno come una creatura vivente. Solo quando la sentì moltiplicarsi in un gonfio sciame di metallo lasciò la presa, Sgranando gli occhi, vide quel fiume tintinnante sgorgare fino a terra e prendere le sembianze del vecchio. Fra le lunghe dita butterate riluceva il frammento, a cui le cornee vuote sembravano protendersi con una cupidigia tale che Ashe si aspettò di vederle schizzare fuori dalle orbite in un groviglio di nervi.
«Sono venuta, non mi sono inchinata» puntualizzò la regina con freddezza, certa che quello sguardo cieco potesse vedere ben più al di là delle ombre del mondo.
Sul viso degli Occuria si aprì un riso sghembo di denti neri, mentre il bruscolino si muoveva fra le dita decrepite con la rapida irrequietezza di una mosca in trappola. Lo carezzavano con impazienza, saggiandolo e tastandolo fino a schizzare i polpastrelli di sangue, e lo annusavano con altrettanta smania, facendo fremere e dilatare le narici, quasi a volerlo consumare.
«Quest’uomo per il quale nessun fardello è troppo pesante, se portato a tuo nome…» dissero, e ogni alito d’aria inghiottito dalle froge sembrava generare una nuova parola.
Suo malgrado, Ashe si sorprese a rabbrividire. Le voci, acute come coltelli, assalirono l’interno delle sue ossa come fitte di dolore, sussurrandole all’orecchio un dato di fatto carico di una sfumatura d’intimità inammissibile. Si strinse nelle spalle, fingendo di nascondere il proprio fastidio nei confronti di quell’invadenza.
«Il suo sangue, in olocausto versato, in cambio del nostro seme divino donato al ventre di Dalmasca.»
Il brivido che scuoteva la giovane donna chiuse i propri piccoli denti attorno al suo cuore.
I suoi occhi si appoggiarono, con distacco indolente, sul vecchio laido e sudicio, avvolto nei propri panni lussuosi, eppure più simile alla forma di un animale che a quella d’un uomo, rannicchiato com’era a suggere ogni briciola di Basch disseminata sul frammento di metallo.
Topi ciechi, meschini, ansiosi di scavarle un fossato attorno.
L’umanità non poteva meritare pantheon migliore.
«Questo ventre non è di Dalmasca» proruppe lei, a testa alta «Questo ventre mi appartiene come quell’uomo a se stesso, ed è il suo sacrificio di ogni momento a farmi capire che vivere per aiutarmi sia molto più difficile e utile del morire nell’impresa, nonostante le rinunce.»
Gli Occuria si torsero le dita, rabbiosi.
«Non lo fa per il sangue che porto, ma perché sa che non esiterò un istante a fare lo stesso per lui.»
Uno stridio lacerante – che nulla poteva essere se non un ruggito divino – coprì anche i suoi stessi pensieri. Lo seguì uno scoppio viscerale, ributtante, durante il quale le mani degli Occuria, divenute di un azzurrino livido, si stirarono a dismisura, prima di modellarsi come una creta orrenda e scivolosa. Ashe riuscì a chiudere le dita attorno all’elsa pesante della spada e vi si aggrappò con ogni briciola della propria forza, quando la morsa viscosa di quei tentacoli strisciò ad artigliarla. La lama di Excalibur era tutto ciò che impediva alla regina di venir trascinata lontano, e non sembrava che il taglio fosse fonte di grosse preoccupazioni per le ventose sulle quali scorreva.
«La tua testa, così, verrà a lui tributata in dono, Regina Dinasta!»
Ashe non rispose, mordendosi il labbro per pensare, avvinta con sempre maggior forza nella stretta.
Non avevano fatto alcuna esplicita menzione a Basch, se non vaghi tentativi, azzardati solamente scaldando il frammento della sua armatura fra le dita, dopo averlo respirato e levigato, come a separare dal bronzo la sottile pellicola della sua presenza.
Ma non era quella di Basch, ad impregnare il metallo nello strato più profondo, e la cieca prigione di carne di una trinità divina non poteva prenderne coscienza.
Nel capire la verità, la regina incurvò le labbra, sorridendo alla perspicacia del capitano, e il respiro le si spezzò, nel nodo dei tentacoli che l’avvinghiavano per sbalzarla in avanti.
Il terreno si sollevò sotto i suoi piedi prima che Ashe potesse prevenirlo. Nella salda presa delle ventose, vide il viso degli Occuria avvicinarsi in un ghigno distorto, le cornee bianche e lampeggianti.
La regina rispose con aria di sfida, gli intarsi di Excalibur che scavavano nelle linee delle mani mentre lei esaminava il pavimento in cerca di un appiglio.
Eccolo, realizzò, senza fiato, nell’abbassare la lama a velocità fulminea: fra le crepe che venavano il lastricato lurido, una era profonda abbastanza.
Spinse la lama nel terriccio della fenditura per opporsi alla forza che la intrappolava, e il mondo attorno a lei ruggì di stizza: colti di sorpresa, gli dèi allentarono la morsa.
Ashe non perse tempo – con un piede finalmente a toccare il suolo, si lanciò con una spinta tale che l’aria prese a rombarle violentemente contro il viso, Excalibur pesante nel suo pugno e il nemico che tentava di frenarla, facendola ondeggiare pericolosamente nei pressi di una parete per infrangere le sue ossa contro le grosse pietre squadrate.
I terreni più selvaggi d’Ivalice avevano insegnato alla regina di Dalmasca mille e più modi per sfuggire a simili minacce: cercò di utilizzare il peso del proprio corpo per bilanciarsi come una zavorra, e di aiutarsi con Excalibur; se non poteva tagliare alcunché, almeno la forma allungata e slanciata della lama avrebbe servito da eccellente timone.
Bagnata di un sudore ghiacciato, si molleggiava rotolando e balzando qua e là fra i muri, incapace di liberarsi, ma determinata a impedire che i tentacoli decidessero dei suoi movimenti. Vide le labbra degli Occuria scoprire i denti in un grugnito di disappunto.
E poi, semplicemente smise di respirare.
Fremendo di una rabbia che le arrivava fino alla pelle e gliela scottava come vetriolo, gli Occuria lasciarono che la divina perseveranza fosse offuscata dalla finitezza della mente umana che la incasellava nella propria prigione d’osso e, in un moto di stizza inconsulto, abbandonarono le sue caviglie in uno schiocco, per vibrare una poderosa frustata.
Ashe s’inarcò, scivolando abile sotto l’orrenda protuberanza. Due ampi salti furono sufficienti ad ottenere un cospicuo vantaggio su un essere stordito dalla propria furia. La regina piombò a terra e, incurante dei graffi che le striavano le ginocchia, puntò Excalibur in direzione del mostro, flettendo al massimo i gomiti, il taglio della spada che scintillava letale e perpendicolare.
Aveva già spiccato il volo, quando i tentacoli si erano abbattuti invano al suolo.
In un secondo, che si dilatò infinito e rarefatto come del gas in un anello aeroglottico, Ashe vide il proprio riflesso curvarsi sempre più vicino negli occhi vuoti degli Occuria – un attimo dopo, Excalibur aveva infranto una barriera friabile di ossa e carne, spargendo nella stanza un lieve odore di marcio.
«Tutto quello che posso offrire ad esseri come voi è la vita di Noah von Rosenburg – e vi sfido a trovarne ancora una!» esclamò, rigirando la spada nei visceri rossi con una soddisfazione feroce, certa che, nella vista confusa di un dio cieco, Basch e il Giudice Gabranth, estrapolati da un pezzo di bronzo, non fossero che una fievole entità di memorie, odori e percezioni mescolate assieme alla rinfusa, proprio come Basch aveva intuito. Quale migliore strategia, per rescindere un obbligo, se non offrire, in luogo di una vita, il suo speculare contrario, la morte di colui che con Basch aveva condiviso ogni goccia di sangue?
Dal pertugio nero e deforme della bocca spalancata si stirò un lungo grido, perforante come un ago.
In cima ai tentacoli, fiorirono due lunghe mani di carne – una stringeva ancora il frammento. Un guizzo caldo di fuoco la ridusse a un moncone nero, salì lungo le ventose, s’accese dei suoi fluidi e crepitò in una vampa rossa appena oltre la lama della regina.
Degli Occuria non rimasero che due brandelli di stoffa lievi e accesi, come fuliggine incandescente.
Senza guardarli, Ashe girò i tacchi e corse a ferirsi gli occhi alla luce del sole, incurante di come il pulviscolo di fuoco, sollevato, rischiasse di ustionarle la pelle.

*

Prima fu il frusciare metallico degli anelli che drappeggiavano le tende contro le finestre.
Poi, la luce, così tanta, attraverso gli eleganti ricami smerigliati delle finestre, che Basch si sentì mancare il respiro.
E poi, la porta.
Faticò a realizzare di vedere, e di vedere che un simile tonfo avrebbe potuto sfilarla dai cardini, che le ginocchia e le dita nere di sporco di Lady Ashe erano gettate alla rinfusa sul lenzuolo bianco, che i colori familiari del completo di cuoio, pieni del suo corpo irrequieto di gioia, erano premuti sul suo in un abbraccio convulso e scivoloso, fatto di sangue, sollievo, fuliggine, fatto di braccia fini intrecciate al suo collo.
Dove prima c’erano piaghe, ora solo le punte arruffate dei suoi capelli.
«Quel posto da Consigliere—» boccheggiò in una risata senza fiato, che vacillava calda e strozzata nei pressi del suo orecchio, più intima di un bacio e di qualunque altra cosa – uno scherzo, una richiesta che si portava dietro troppe cose perché lei potesse terminarla e Basch potesse accettare.
Rise.
Rise anche lei, in un abbandono libero, rassegnato, aspirando il suo odore, guardandolo strizzare gli occhi nella luce calda e violenta che accendeva la stanza per voltarsi a guardare lei, poi, nell’angolo d’ombra tenue del loro abbraccio.
«Ho da raccontarvi una storia» bisbigliò Ashe fra le pieghe del lenzuolo.
«Ho da presiedere un Consiglio?» borbottò il capitano, curvando un sopracciglio con una risata trattenuta in fondo alla gola.
Calò di nuovo il buio – stavolta, si trattava di un semplice cuscino.

~

A/N 26 febbraio 2010, ore 0:51. La stesura di buona parte di questa fic risalirà à tipo a luglio 2009, ed è, tipo, uno di quei parti di dimensioni cosmiche piene di tirate di capelli e titubanze per rendere coerente la trama che non vi dico °_°. Prima di tutto, rassegnatevi a note considerabilmente pallose XD – tanto per cominciare, l’idea di innesco e di fondo viene dai Lavacri di Pallade di Callimaco, in cui Tiresia assiste per caso al bagno di Atena (o della sua statua, non ricordo ora) nuda nel fiume e viene punito con la cecità. Tuttavia, quando la madre dell’allora giovane ragazzo andrà a supplicare la dea perorando l’innocenza di Tiresia, Atena sarà talmente impietosita da compensare l’irreversibilità della punizione con la chiaroveggenza. Capirete che l’ho presa molto alla larga inventando tutto il resto XD e che quest’intuizione mi ha folgorata *_*, è stato bello scrivere con un bel plot solido in testa, che era tutto pronto, ma bisognoso di essere ben calibrato (e aveva bisogno di un bel po’ di coraggio da parte mia per essere buttato fuori tutto XDDD), ed è per questo che ci ho messo tempo XD. Due parole sugli ud: sono strumenti a corda che esistono davvero, mentre, riguardo al laudano e all’eufrasia, devo confessare una certa dose di ignoranza: so che il primo è una droga e che nel passato era largamente usata, ma ignoro in che modalità di impiego e in che quantità. La seconda, invece, è davvero una pianta che aiuta la vista, ma, anche qui, non ho trovato nulla di specifico se non il fatto che venga usata in decotti contro la congiuntivite. Ho optato per le garze impregnate di linimento contro le piaghe per licenza poetica, faceva più drammatico XD! E aggiungo che portare avanti pagine e pagine di worksafe con questi due, sviscerandoli e facendoli interagire nei modi più vicini al canon in cui io possa essere in grado, è sempre un piacere che non vi dico ♥! Sono contenta che Fiumidiparole mi abbia dato un buon incentivo per finirla, anche se la scena d’azione mi ha fatta penare XDDD…

Juuhachi Go.

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