[X] Sine qua non

Titolo: Sine qua non
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Kanoe
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 1899 (LibreOffice)
Note: per il compleanno della mia Michiru adorata ♥. Angst a sfare e spoiler su X16 e 17.

Sine qua non

Il freddo filtrava con tenacia quasi beffarda attraverso i vecchi paraventi che ingombravano la stanza. Alcuni esibivano stampe alquanto dozzinali, macchiate qua e là di caffè, e Subaru, vagamente sorpreso – nella giusta misura in cui il mondo intorno a sé riusciva ancora a suscitargli interesse – ammise che mai avrebbe immaginato un simile luogo nelle viscere del Palazzo del Governo.
«Finirà per congelare, Sumeragi-san.»
Come un bambino sorpreso a copiare i compiti, Subaru si riscosse dalla propria posizione scomposta: aveva le ginocchia piegate, le caviglie nascoste sotto il basso tavolino di legno e la schiena poggiata contro il muro. Non aveva indossato le ciabatte (giacevano intonse vicino ai suoi piedi), e l’impermeabile, sul quale sopravviveva ancora qualche fiocco di neve, luccicava pigro sotto la lampada.
Nel tentativo di farsi trovare in una postura quantomeno accettabile, riuscì semplicemente ad alzare il braccio in un gesto inconsulto e a lasciarlo ricadere attorno alle gambe piegate.
Le labbra di Kanoe, incorniciate nell’ovale di luce giallognola della lampadina, sorrisero di una smorfia che sapeva un po’ di sprezzo e un po’ di superiore compatimento.
Subaru non salutò – andava contro i principi di rigida educazione nei quali era stato foggiato, ma cosa, in tutto quello che era avvenuto in generale negli ultimi dieci anni, e in particolare nell’ultimo mese, non li tradiva nel profondo?
Non era una visita di cortesia.
Non era nemmeno una visita, a dirla tutta.
Kanoe schiacciò la sigaretta nel posacenere in un gesto rapido e brusco, indugiando con le dita sul filtro macchiato di rossetto, prima di sedersi per fissarlo in viso.
«Sakurazuka-san aveva ragione,» disse, accennando un gesto svagato con una mano «lei non mangia abbastanza.»
Subaru inghiottì il nome di Seishiro, sparato a bruciapelo come un colpo di pistola, e lo sentì contorcersi in un guizzo amaro nello stomaco. Abbassò immediatamente gli occhi, contando mentalmente le immaginarie macchie bluastre che galleggiavano nel suo campo visivo dopo l’esposizione troppo ravvicinata alla luce elettrica.
«Seishiro-san avrebbe potuto lasciarmi un’eredità più consistente di alcuni ragguagli affettati sul mio stato di salute» ribatté in tono ostile, privo della solita pacatezza.
Kanoe rise, facendo oscillare i massicci pendagli degli orecchini e sparpagliando sulle spalle nude i lunghi capelli scuri, in un persistente effluvio di shampoo e profumo.
«È un tipo abbastanza impaziente, vedo!» esclamò, con una vivacità che si dimostrava falsa quanto quella che Seishiro era così bravo a ostentare: Kanoe stava osservando l’occhio vuoto e opaco, e nel suo sorriso non c’era alcuna allegria.
Non era più tempo per i convenevoli.
Con un’occhiata tanto fredda da scurire quasi il verde intenso dell’occhio superstite, Subaru appoggiò l’urna d’argento sul tavolino con più forza di quanta ne sarebbe stata necessaria. Dal canto suo, Kanoe esibì un mortaio e un pestello, con calma serafica, quasi con aria di sfida.
Dispose ordinatamente piccoli sacchetti di tela qua e là sul tavolo, e si alzò per avvicinarsi al ragazzo, i piedi nudi che facevano appena rumore sui tatami.
Accovacciandosi silenziosamente accanto a lui, radunò gli strumenti di lavoro e, prima che Subaru potesse accorgersene, aprì un taglio sul suo indice, lasciando che qualche grossa goccia di sangue cadesse nel mortaio, facendolo impallidire impercettibilmente. Sul suo impermeabile, le macchie di quello di Seishiro avevano lasciato aloni inamovibili, di cui Subaru sapeva ancora tracciare i contorni. Il pensiero che, nel giro di una mezzora, sarebbe stato lo stesso che gli si arrampicava
lungo le vene lo riempiva di una gioia talmente sotterranea da diventare nausea una volta affiorata in superficie.
Non si dava più neppure la pena di bollarla come disdicevole.
Era quello che era.
Era quello che erano stati.
Si succhiò distrattamente il pollice, serrando la lingua contro la ferita nell’osservare i gesti pratici e sbrigativi della donna – fiori di ciliegio, bacche di ginepro, eufrasia, limone, zucchero, un pizzico di sale e uno di zafferano. Le donne. Le donne avevano sempre un tocco particolare, per queste cose, si disse, senza pensare troppo, con un refolo di Hokuto che attraversava i suoi occhi e la sua memoria come un lampo.
Kanoe sembrò leggere nei suoi pensieri, mentre, china sul mortaio, ne tritava il contenuto con efficienza.
«Non ancora si chiede perché mai non tocchi a Kamui una simile incombenza?»
Subaru elaborò l’informazione per un attimo, prima di realizzare che era Monou Fuuma l’oggetto del discorso, e che tutto il resto era da rimuovere come se non fosse mai davvero esistito.
«È magia che insegnano solo alle donne, Sumeragi-san, non appena raggiungono l’età adatta per utilizzarla. Succede in ogni famiglia dove il potere scorre a profusione, e l’arte s’insegna a chi possiede meno… estro» fece lei, senza attendere una sua risposta.
Subaru cercò di cancellare tutte le immagini reali e fittizie che quell’affermazione aveva scatenato, e scoprì, troppo tardi, che la lingua si era già mossa di propria sponte.
«Avevo una sorella, un tempo.»
«Anch’io» disse lentamente Kanoe, in un guizzo un po’ aspro della bocca troppo truccata, agli angoli della quale, adesso, Subaru scorgeva le pieghe leggere di qualche ruga precoce. La guardò senza capire. Il pestello, ora, si muoveva in larghi, fluidi movimenti circolari.
«E non ha mai rimpianti?»
«Lei ne ha mai?» lo provocò lei, riuscendo a stento a trattenere il tono sferzante.
«Mai abbastanza» borbottò Subaru in un sospiro.
Kanoe si limitò ad annuire.
«Questo è esattamente il motivo in cui il mondo non può essere salvato, Sumeragi-san» sentenziò, abbassandogli le palpebre con la punta delle dita.
Subaru obbedì al tocco, e fremette nel riconoscere il disegno che, a poco a poco, quei polpastrelli estranei allargavano attorno all’orbita, in un incrocio di linee che scorrevano poi sulla rotondità delicata sotto la palpebra.
Nei giorni di particolare umidità, ricordava che le linee del pentacolo inverso pungevano come fuoco sulle mani. Si stupì di come la propria pelle potesse riconoscerne anche solo un vago disegno fatto di poltiglia speziata, facendolo rabbrividire di un desiderio nero come una notte senza stelle.
«Sakurazuka-san era la ragione della sua barriera, sbaglio?» domandò Kanoe, con la certezza di non sbagliare affatto, ripercorrendo al contrario le linee tracciate dal suo indice. Subaru lo riconobbe anche stavolta: il suo pentacolo, quello che apparteneva alla sua famiglia da sempre, e che mai avrebbe fatto da marchio sulle mani di chicchessia.
Storse le labbra come se il nome che aveva accompagnato quel gesto avesse potuto ammazzarlo – e adesso era convinto che Kanoe insistesse a pronunciarlo di proposito.
Non rispose.
Kanoe rise, così vicina al suo viso che Subaru avvertì un lieve odore di tabacco nelle narici.
«Ne converrà con me che non ha senso voler proteggere il mondo per il bene di una persona soltanto, se poi, per avere quella stessa persona, si è disposti a cedere il mondo intero, senza scrupolo alcuno.»
Il poco colore che Subaru ancora possedeva, persistente come una presenza importuna, svanì senza lasciare traccia, abbandonandolo, bianco come un morto, sotto la luce artificiale.
«Io sono diverso dagli altri. Non mi è mai interessato il des-»
«Oh, Sumeragi-san, la prego,» lo interruppe lei, con quell’acredine beffarda che una sacerdotessa intenta in un rituale non avrebbe mai azzardato «lei è esattamente come tutti gli altri. Di anomalo non ha che il briciolo di onestà che deriva dalla sua educazione.»
Sotto lo schermo delle labbra, l’uomo strinse i denti fino a sentirli scricchiolare fra loro.
«Il monaco del monte Koya, la sacerdotessa di Ise… la prostituta e il giornalista inamidato. Perfino la ragazzina col cane e lo stesso Kamui! Si sacrificherebbero vicendevolmente senza pensare alle conseguenze, se fosse per coloro che amano. Eppure, mi chiedo, azzarderebbero mai un simile passo, se il mondo ne fosse privo, e solo per disinteressato amore verso la razza umana?»
Le palpebre chiuse di Subaru tremarono come foglie.
«Oh, certo,» proseguì, come se trovasse la cosa infinitamente divertente «poi c’è lei, che ama quell’uomo a tal punto da esserne diventato un perfetto esoscheletro.»
Questa volta, Subaru tremò violentemente – Kanoe stava marcando nuovamente il simbolo, e la singolare tempera che stava utilizzando fremette in uno scarabocchio.
E non era per quel tono di casualità che insisteva sul presente, come se il Rainbow Bridge non fosse mai esistito e mai caduto, ma per quell’amare che nessuno, neppure Subaru, aveva mai osato pronunciare ad alta voce, e forse neppure fra i propri pensieri, in una sorta di condivisa omertà.
Nella sua mente, c’erano barriere che, convenzionalmente, non erano mai cadute. Sakurazuka Seishiro era stato ‘la persona importante’, ‘l’unico in grado di esaudire il suo desiderio’, tutte perifrasi per non indicare una disfatta già avvenuta.
Perché Subaru lo amava. Era l’unica parola che riuscisse a descrivere tutto, anche il peggio, in un solo colpo, e adesso – adesso che Seishiro non poteva più rispondere alle sue domande, ma nemmeno porne di nuove – poteva arrischiarsi a chiamare le cose col proprio nome.
D’altronde, non era più un Sumeragi.
Non più di quanto fosse effettivamente un Sakurazukamori.
«Non è esattamente quello che si potrebbe constatare, guardando un avanzo che un assassino ha lasciato sul bordo del piatto, giusto per il gusto di lasciarsi morire di fame!» la rimbeccò, compiacendosi persino della scia di veemenza che si gonfiava in quelle parole, e che tentava di rappezzare tutta l’indignazione nel doverlo rammentare a se stesso, prima ancora che a lei.
Il silenzio che seguì lo autorizzò a credere che Kanoe fosse incredula, o almeno interdetta.
«Lei… lei crede che sia questo il motivo dell’ultimo desiderio di Sakurazuka-san?»
La sorpresa sembrava prettamente genuina, aveva la tipica cadenza di chi veniva preso in contropiede.
Subaru annuì lentamente con aria dimessa, quasi di scusa, senza neppure chiedere il perché di tanto scompiglio – qualunque fosse stata la risposta, sapeva per certo che nulla di quanto avrebbe scoperto sarebbe tornato a suo vantaggio.
«Vediamo di fare in fretta, non ho tutto il pomeriggio da dedicarle» continuò, brusca, lasciando che quelle parole metalliche attutissero come un palliativo il rumore del coperchio d’argento che veniva svitato, e il fruscio delle dita di lei fra le nappe.
Il bordo era ghiacciato e spiacevole contro la pelle, nonostante i ghirigori rituali avessero preso a bruciare come febbre, una volta che il cilindro ebbe sottratto alle palpebre il colore della luce.
C’era odore d’incenso, di quello che in Casa Sumeragi non veniva mai usato, ma i cui bastoncini, anzi, venivano accantonati con timore in astucci di legno. Subaru si diede dello stupido: era l’odore dei vestiti di Seishiro, quello di cui il tweed, nove anni prima, era impregnato, sotto la recita dell’acqua di colonia.
Avrebbe dovuto capirlo fin da allora.
Forse l’aveva sempre saputo.
E non aveva più alcuna importanza.
Un attimo dopo, fu restituito alla luce – che non sembrava più quella di prima – e aprì gli occhi nello specchio, per vedere il suo sguardo non combaciava più con quello che era sempre stato, ma con quello che aveva sempre osservato da lontano.
Una volta, qualcuno gli aveva detto, col sorriso, che avrebbe dovuto essere gli occhi di Seishiro, per guardare il mondo al suo posto.
Una lacrima gli scivolò pesante fra le ciglia, colorata dell’impasto del rituale, per cadere in silenzio sul bavero della giacca, come il picco di un pianto che durasse da minuti.
Si morse il labbro.
Kanoe, voltando lo specchio, si alzò in piedi, massaggiandosi le ginocchia, per poi attenderlo sul limitare degli shoji socchiusi.
«Venga, i suoi vestiti sono ancora umidi, si prenderà un malanno.»
Annuendo, con un fazzoletto per pulirsi il viso stretto in una mano, Subaru la seguì nel buio del corridoio.

~

A/N 13 marzo 2010, ore 01:35. Prima di tutto, buon compleanno Michiru ♥ tutto questo mi stava aspettando al varco da giorni e io ho dovuto tirarlo fuori, previo ascolto quasi terribilmente ossessivo della meravigliosa ‘Passione’ di Neffa, della quale nella storia c’è un’eco molto sottile in un punto preciso… una fic a chi la scova XD! Beh, è stata una fic catartica, difficile e particolarmente dolorosa XD nata col patrocinio di Shu, con cui ho condiviso alcune delle riflessioni più interessanti che siano mai venute fuori fra noi su Seishiro e Subaru – e di cui il 99,9% è finito qui dentro. Una “conditio sine qua non” è una condizione senza la quale un dato evento non può verificarsi, e penso che questo spieghi abbastanza da sola tutto il resto… Avrei voluto citare direttamente Neffa o la Yourcenar in apertura, ma onestamente non mi pareva il caso, e… e Michiru, davvero, mi dispiace che sia di un angst così dannatamente terrificante, ma i regali si fanno col cuore, e questa sono io nei suoi momenti di fangirling estremo su questi due XDDDDD… e anche qui, ho detto tutto. Spero che, attraverso questa lente, una cosa del genere ti faccia luccicare di tutta, tutta la felicità che meriti. \o/! Perché, in fondo, ma neppure tanto, a volte mi viene da pensare che, se fossi un Drago del Cielo, tu saresti una delle ragioni della mia barriera… il che ti autorizzebbe a preoccuparti, se io non fossi un Drago di peluche XD!

Ti voglio bene,

Juuhachi Go.

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