[Phantasmagoria] Cotidie morimur

Titolo: Cotidie morimur
Fandom: Phantasmagoria (longplay completo in inglese)
Personaggi: Adrienne Delaney, vari
Parte: 1/1
Rating: R?
Conteggio Parole: 2721 (LibreOffice)
Note: scritta per il F3.U.C.K.S. Fest di fanfic_italia, e suppongo spoiler per il finale

Cotidie morimur

Boston, 22 ottobre 2020

Venticinque anni dopo, Adrienne Delaney si svegliò di soprassalto, aggrappandosi al lenzuolo come se si fosse trattato di uno strato della propria pelle.
In uno spiraglio della veneziana, il cielo era scuro come petrolio, e un vento freddo e ostile appiattiva la serranda contro il vetro, filtrando fino a lei da chissà quale fessura negli infissi.
Rabbrividendo, Adrienne infilò una vestaglia e scese dal letto a piedi nudi, per dirigersi in cucina a passi ancora intorpiditi dal sonno.
Quando tornò, con una buona tazza di caffè in mano, si sedette alla scrivania per accendere il laptop, evitando di fissare la parete sulla quale il calendario e lo specchio sembravano sussurrarle quanto tempo fosse passato.
Scrivere era la cosa che Adrienne aveva fatto fin da ragazzina, per esorcizzare i propri timori e alleggerire ogni tipo di angoscia, così cominciò, come faceva ogni 22 ottobre, senza nemmeno pensare alle parole che digitava.
Ricordava vagamente il periodo in cui, prima di sposarsi, aveva scritto Pallida luna, e quello in cui, prima di conoscere Don, aveva scritto una miriade di racconti brevi per il giornale locale.
Del periodo trascorso nella casa di Zoltan Carnovasch non sopravviveva una sola parola.
Ripensandoci ora, a venticinque anni di distanza, la spiegazione più logica e razionale era anche la più ovvia: presa dalle circostanze, non aveva avuto un attimo di tempo, e tutto, prima che la verità sconfinasse nel soprannaturale, le era sembrato degno di suggestioni da film horror di serie C.
Dopo l’esperienza, doveva ammettere che le sue protagoniste femminili si erano munite di notevole intuito, aperto a ogni possibilità, anche la più impensabile.
Eppure, mettendo a tacere i dettami della ragione, Adrienne sapeva che, in realtà, il principio era ancora più semplice e – proprio a volerla dire tutta – anche discretamente melodrammatico.
Su simili orrori, non esisteva catarsi capace di stendervi sopra i propri veli.
A guardarsi negli specchi, ogni volta Adrienne si ritrovava ad osservare con minuzia tutti i segni che quei venticinque anni avevano inciso su di lei, e anche quella mattina, mentre intingeva la lingua nel caffè bollente, strinse le labbra, lottando con la voglia di abbassare lo sguardo.
Com’era giusto che fosse, quel po’ di biondo che le era rimasto fra i capelli sbiadiva sempre più, come un ciocco roso dalla cenere, e la pelle allentava sempre più la propria elasticità. Gli occhi, vacui come non lo erano stati quando era ragazza, e pure un po’ pesanti, si affossavano pigramente nelle orbite in un processo inarrestabile, ma per il quale lei – si disse, osservando il letto e la stanza ingombra dei propri oggetti, di una vita condotta sempre in solitudine – aveva immaginato un diverso epilogo.
Sì, certo, la fama aveva perdurato: dopo Pallida luna Adrienne aveva scritto tutto quel che poteva, a patto che non riguardasse la casa dei Carnovasch. In retrospettiva, era facile notare che, più che l’impegno di scrivere veri e propri romanzi, a sostenerla e a darle la forza era stato l’intento di annotare tutti i pensieri che non ruotassero attorno a quella casa e a quel che vi era accaduto, come a voler ricordare a se stessa che esistevano ancora pensieri normali, puliti e razionali all’interno del mondo e della propria mente. Aveva inseguito quel proposito come un’ossessione, nello sforzo di permettere alla propria vita di ricominciare.
Quando smetteva di scrivere, tuttavia, il mondo esterno – che non sapeva niente di Don, di Carno, e neppure di lei – l’assaliva nel tentativo di trovare una spiegazione razionale a quella sera in cui tutta Nipawomsett l’aveva vista uscire sporca e stralunata dalla vecchia villa dei Carnovasch, sola, gli occhi sbarrati e le labbra ostinatamente chiuse. Chi aveva provato a farle domande non aveva ottenuto che risposte confuse, o, più spesso, del tutto inconsulte.
Quando la polizia aveva aperto le porte, non aveva trovato che cadaveri – due vagabondi orribilmente sfigurati e seviziati, e un tecnico del telefono massacrato da quelli che la scientifica aveva giudicato colpi d’accetta.
Setacciando la casa, di Donald Gordon non era stato rinvenuto che qualche misero resto, insieme alla certezza che ogni collegamento telefonico della casa era stato brutalmente reciso, e che ovunque, fra quelle sale cupe, aleggiava il proposito di un quarto omicidio in grande stile.
La camera oscura allestita al secondo piano era stata perquisita, e l’ufficiale addetto all’operazione non aveva più nutrito alcun dubbio quando aveva rinvenuto le foto di Mrs. Gordon strappate dal collo in giù. Se davvero la colpevole era lei, non aveva potuto agire se non per legittima difesa.
A irrobustire una simile affermazione occorsero, alla giuria, anni di processo, durante il quale capannelli di avvocati presero ad accapigliarsi sulla peculiarità del caso: troppe erano le stranezze perché solo Adrienne Delaney-Gordon potesse essere l’unica implicata, ad eccezione del defunto marito, già considerato parte attiva e prominente di quella follia.
I sopralluoghi successivi, tuttavia, non avevano dato alcun esito preciso, e avevano lasciato Adrienne Delaney alla propria vita di scrittrice, dopo che le continue riproposizioni di quella settimana avevano lasciato in lei segni talmente indelebili da ripresentarsi incessanti giorno e notte.
Prima di compiere trentun anni, Adrienne si era resa conto di avere già i capelli grigi, e aveva preso atto di come le rughe e le ombre nere che le si affollavano attorno agli occhi fossero quelle di chi, anche nel sonno, non dormiva mai.
L’avevano stupita oltre ogni previsione gli abitanti di Nipawomsett, pronti a coprire e testimoniare riportando avvistamenti in paese di Adrienne anche quando non erano avvenuti: anche gli scettici conoscevano la fama della villa dei Carnovasch, e anche gli scettici avevano fatto i loro conti, quando gli agenti avevano trovato i segni di così tante efferatezze in una sola volta e le avevano additate a un ragazzo cordiale come Mr. Gordon, innamorato di sua moglie come pochi se ne vedevano al giorno d’oggi.
Parecchi di loro – a partire da Lou Ann – avevano cercato invano di mantenere i contatti, ma di lei, come di molti altri, non era rimasto che un fascio di telegrammi mortuari chiusi nel cassetto della biancheria, insieme al ricordo dei loro visi, rigidi e mortificati, nei giorni del processo.
C’erano stati dei giorni, poi, in cui Adrienne aveva pensato che di lei fosse rimasto molto meno.
I proventi del suo primo romanzo, che ancora erano cospicui quando lei aveva lasciato in tutta fretta la tenuta dei Carnovasch, senza nemmeno pensare di recuperare quanto di suo era ancora sparpagliato per le stanze, si dimostrarono più che sufficienti per l’acquisto di una casa a Boston, e aumentarono con l’incremento della tensione mediatica che circondava la sua persona e l’uscita di un suo nuovo libro – avvenimento che, almeno per i primi cinque anni dopo quella settimana, fu sempre subordinato a quello che la stampa aveva ribattezzato “il misterioso caso Delaney”.
Per quel che le interessava del vespaio di ipotesi che si era venuto a creare, e di una sostanziale divisione in innocentisti e colpevolisti fra i suoi lettori, Adrienne si ripeteva di lasciar correre, e, incapace di frenare la piena di ricordi che balzava ad affondare i denti nella carne, aveva permesso che invadessero ogni momento della sua giornata, anche il più insignificante, e si disseppellissero a tradimento dal suo inconscio.
Aveva fatto passare qualche anno, prima di farsi visitare, consapevole che non avrebbe mai tratto alcun sollievo dal responso che avrebbe ricevuto, e che nulla di quello che sarebbe stato detto avrebbe ripulito la sua memoria. Dal cumulo di mezze verità che aveva dovuto arrabattare, le era stato diagnosticato uno stress post-traumatico.
Di quel giorno, Adrienne ricordava l’umidità e la foschia all’orizzonte, il peso della giacca a vento – che non era affatto un peso – che sembrava trascinarla sottoterra. Ricordava la sensazione sgradevole di sentirsi defraudata di tutto quello che possedeva, e ricordava di averla sentita per la prima volta con la chiarezza che meritava, e che, anni prima, lasciandosi quella porta alle spalle, non aveva elaborato, anestetizzata dalla nausea e dal dolore che le bloccavano qualunque funzione non fosse puramente motoria.
Quel pomeriggio del 1999, scendendo dal gradino dello studio dello psicanalista, Adrienne Delaney ebbe l’impressione di essersi svegliata da un sogno, e di aver trovato la propria casa letteralmente svaligiata dai ladri, come se i ricordi della tenuta non fossero un incubo di per sé sufficiente.
Era stato più o meno da allora, che aveva cominciato ad avere paura di guardare le persone negli occhi.
Ammetterlo costava molto al proprio orgoglio e alla propria tenacia – lei stessa lottava con testardaggine quando la necessità la metteva in condizione di farlo notare, ma, in un processo che Adrienne non riusciva a spiegarsi, aveva sempre timore che chiunque la fissasse potesse vedere, nella nera puntura d’ago della pupilla, tutto il male di cui era stata testimone, e di cui Don era stato vittima e braccio destro.
Forse era anche uno dei motivi per cui non si era mai risposata: la foto di Don era ancora lì sulla mensola, dopotutto, e il senso di colpa per aver sguinzagliato il demone, e tirato la leva che l’aveva squarciato non era molto lontano: bastava rimuovere un lieve strato di polvere.
Ciononostante, chiudersi in casa, o semplicemente in se stessa, non le sarebbe stato di grande aiuto – principalmente perché gli spazi chiusi la caricavano di un’angoscia irrazionale che le si allargava nel cervello come un liquido, e perché il suo carattere sembrava impedirglielo fisiologicamente. Aveva sempre imparato a combattere le proprie debolezze, anche quando queste sembravano vincerla del tutto, ma ritrarsi di fronte alla gente era il primo passo per aprirsi a tutto l’orrore che viveva nella sua mente ogni giorno, e che aspettava il minimo cedimento per divorarla, per farle chiedere a cosa fosse servito salvarsi, quel giorno.
Finito di trangugiare il caffè, Adrienne ciabattò piano verso il bagno, per consegnarsi a un getto di acqua calda ed emolliente, l’unico antidoto contro la tensione che le contraeva i muscoli durante tutta la giornata.
Aveva un’intervista, quella mattina, e destreggiarsi fra le domande troppo dirette o troppo timorose da parte di studenti alle prese con le loro tesi era una di quelle cose che più l’aiutavano a incanalare i propri incubi, quasi potesse riportarli, nel camuffarli, a una parvenza di blanda normalità. Certe volte si sentiva più come un’evasa da Auschwitz che come una vittima di un fenomeno paranormale: aveva udito vari racconti sugli ex-internati, e mai aveva dimenticato uno di loro, che affermava che il pensiero era sempre lì, pronto a rincorrerlo anche quand’era in bagno. Sentiva di comprenderlo come nessun altro al mondo, e le occorse un attimo di tempo per chiudere gli occhi sotto l’acqua e ricacciare i suoi, di pensieri, indietro da dove erano venuti.
Mentre si avvolgeva nell’accappatoio, sospirò, guardando le gocce che cadevano dai capelli.

*

Di Stacey, Adrienne ricordava solamente il nome, e Pallida luna come argomento centrale della sua tesi.
Non occorse molto tempo per sincerarsi di un certo amore che sembrava nutrire per la puntualità – era arrivata alle cinque in punto – e per il tè ai lici.
Sembrava possedere anche un notevole, raffinato gusto nello scegliere l’abito adatto per l’ora del tè, a giudicare dal delicato vestitino che indossava, punteggiato di una fantasia floreale quasi invisibile.
Era educata, e sembrava trattarla con una certa riverenza; se ne stava composta e dritta nel divano di fronte, con le mani sulle ginocchia, e prendeva piccoli sorsi dalla propria tazza, facendo domande su trama, ispirazione e personaggi con voce perfettamente chiara e udibile, ma appena sfumata da un’inflessione di sommessa, rispettosa titubanza.
Guardarla negli occhi, però, era un serio problema.
Stacey aveva capelli di un biondo chiarissimo, che cadevano rilucenti sulle spalle nude, e il suo sguardo era di un azzurro talmente sbiadito e trasparente da confondersi quasi del tutto con il bianco della cornea.
Se gli occhi di qualunque altra persona le davano la sensazione di essere nuda, quelli di Stacey sembravano sfogliare il suo corpo e i suoi pensieri come se ossa, muscoli e angoscia fossero le pagine di un vecchio libro logoro, e questo la faceva sentire paralizzata dalla nausea che ribolliva in fondo allo stomaco.
«Cosa ricorda del periodo in cui ha scritto Pallida luna?» chiese la voce della ragazza, con una gentilezza sempre attenta a rimanere professionale.
Adrienne si sentì ridacchiare nervosamente.
«Avevo ventitré anni, dovevo avere all’incirca la sua età… e mi sarei sposata nel giro di due. Penso sia questo il perché di tanto romanticismo dilazionato all’interno della trama, e beh–»
«E dopo, Adrienne? Cos’è successo, dopo?»
Stavolta, della professionalità a cui Adrienne si era aggrappata come a un’ancora non esisteva più traccia: Stacey le aveva parlato con una dolcezza che le era parsa addirittura accorata, di un’intensità che nulla aveva da spartire con la curiosità un po’ mondana e un po’ morbosa del resto degli studenti che le avevano rivolto la domanda in passato.
Si strinse istintivamente nelle spalle e aprì le labbra solo per poterle richiudere.
«E dopo… dopo è stato nient’altro che vuoto.»
E non si riferiva alla propria ispirazione, sempre presente più per ostinazione che per estro, per salvezza, più che per diletto.
«È successo oggi, vero? Oggi, venticinque anni fa.»
«Le interessa?»
Adrienne sentì la propria voce impennarsi in poche parole brusche.
Stacey, in risposta, prese un lungo respiro.
«Ricorda il vecchio Malcolm?»
Adrienne annuì meccanicamente, mentre una serie di volti e luoghi si agganciavano fra loro nella mente.
«Sono sua nipote. Il giorno in cui lei venne a fargli visita e seppe… beh, la verità… io ero a giocare nella stanza accanto. Ero solo una bambina, e–»
«E pensa che questo la autorizzi ad ottenere una risposta?» la incalzò Adrienne con freddezza, dimenticando anche il proprio timore dello sguardo altrui dritto nel proprio.
«–ero una bambina, e mi è stato concesso un dono.»
Era il genere di frase capace di ammutolirla. Trent’anni prima, Adrienne avrebbe riso con disprezzo.
«I miei occhi vedono, Adrienne… vedono chi lascia questo mondo con un grosso conto in sospeso… e vedono che lei non ha assolutamente colpa.»
«E questa perla di saggezza verrebbe da–»
«Don.»
Gli occhi di Adrienne si spalancarono.
«Se pensa che io–»
«Se lei pensa che quello fosse Don, o che tutto quello che è accaduto non sarebbe successo se lei non fosse andata a curiosare in giro per la tenuta… beh, sbaglia, Adrienne.»
Nello sforzo di trattenere le lacrime, Adrienne strizzò le palpebre, facendone scivolare sulle guance un afflusso anche maggiore di quello che cercava di frenare, di quello che sarebbe stato conveniente alla sua età, e di quanto si fosse permessa in quasi trent’anni.
«Come fa a sostenerlo con tanta certezza? Io–»
«Io ti avevo promesso di non temere mai nulla che venisse da me… e tu hai fatto quello che dovevi per impedire il contrario.»
Quando Adrienne aveva riaperto gli occhi, non aveva potuto dire una parola, perché Don la stava baciando con la tenerezza un po’ goffa e un po’ felice di quando le aveva chiesto la mano con un pupazzo di neve di stoffa in una mano e un anello nell’altra.
«Sono fiero di te, Adrienne, per quello che può valere» aveva detto, proprio sul suo naso, lasciando che Adrienne guardasse nei suoi occhi, tutta un nodo di dolore e spavento, prima che si accorgesse della nostalgia che già ne scioglieva i lembi.
Stavolta era Don, ed era già andato via.
Sbattendo le ciglia, Adrienne vide soltanto Stacey che, con un sorriso, la osservava dal divano su cui era ancora seduta.
«Direi che il mio compito finisce qui.» disse, porgendole il suo fazzoletto.
Adrienne lanciò un’occhiata al nome ricamato sul bordo.
Sofia Carnovasch.
Un fremito di vento, e anche Sofia non divenne che aria.

*

Seduta ai piedi dell’altro divano, e scossa dallo strascico dell’ultimo singhiozzo, Adrienne era intenta ad asciugare qualche lacrima che ancora indugiava a metà strada, incurante dei segni che il mascara sciolto le aveva lasciato sui polpastrelli.
Aveva tutta l’aria di aver fatto un capitombolo da un incubo a un bel sogno, per poi svegliarsi, con disappunto, in una realtà probabilmente peggiore di entrambi, pensò la donna delle pulizie, impietrita sulla soglia di casa.
La osservò mentre afferrava un fazzoletto per pulire il viso e si issava sul divano, in cerca di una posizione abbastanza consona.
«Credo» sbottò, in un mezzo singulto «che ci sia del lavoro da fare.»
Senza capire, la donna di fronte a lei annuì lentamente.

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A/N 25 aprile 2010, ore 1:05. Questa fic verrà postata con un’ora di ritardo per la terza settimana del F3.U.C.K.S. Fest perché la pondero da anni e perché Phantasmagoria è il gioco della mia infanzia (dateci di Wikipedia, ho troppo mal di schiena per profondermi in spiegazioni e MUOIO di sonno, perciò hush). Sofia Carnovasch era la figlia di Zoltan Carnovasch, e viene da lui uccisa all’età di due anni, dopo che il padre viene posseduto. Questa cosa, insieme alla morte di Don, non ha mai smesso di traumatizzarmi. L’ho fatta ricomparire spettro ma cresciuta a semplice esercizio di esorcismo (gioco di parole orribile, sì) del mio personale orrore XD, per il resto aspettate all’edit di note e formattazione e grammatica/sintassi di domattina, perché io non ragiono, adesso. Notte!
Edit quantomai doveroso e tardivo XD. Per chi è davvero andato a spulciare qualcosa sul gioco, salteranno all’occhio un paio di cose, se dico che Phantasmagoria è il più bel ricordo dei miei sette anni. Primo, nessuno si chiederà più perché vado a scegliermi pairing che finiscono male, e secondo… questa storia è terribilmente sbilanciata e terribilmente influenzata da una grossa ignoranza sul sistema legale americano XD. Il finale non avrebbe dovuto essere tanto fiabesco, ma si vede che il mio cervello si rifiutava di decidere altrimenti: la prima versione, oltre ad essere fiabesca, era pure velatamente femslash. A parte questo (e il fatto che la conclusione sembri tirata via addirittura a me che l’ho scritta .___.) è stato… bello, principalmente perché Adrienne e Don sono una parte di me e dei miei ricordi che ho messo a nudo per tutti dopo tanti anni passati a pensare davvero di scriverci… Se avete letto, spero che sia stata una lettura piacevole e non troppo deludente!^^

Juuhachi Go.

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