[Tsubasa Reservoir Chronicle] Incantation

Titolo: Incantation
Fandom: Tsubasa Reservoir Chronicle
Personaggi: Ashura-ou, Yasha-ou, Kumara qua e là
Parte: 1/1
Rating: NC17
Conteggio Parole: 8174 (LibreOffice)
Note: omosessualità, nsfw, spoiler sui volumi 8, 9 e 10, che per me potrebbero tranquillamente fare manga a sé e sono l’unica parte di Tsubasa che mi è piaciuta… su prompt di 52flavours.

Incantation
41. Every act of love is separateness

Then come love, let us dance all night
Until birds they waken at the dawn
Then come love, let us sing all night
And all our loves will slumber with a song
(Loreena McKennitt –
The Gates of Istanbul)

Estate.
Lenta e sdrucciolosa attraverso i fiori del giardino.
Ashura-ou non l’aveva sentita arrivare: solo una sera aveva avvertito l’impellente bisogno di scendere in giardino per concedersi un momento di pace, e un soffio di aria rovente e greve di umidità l’aveva salutato frusciando attraverso il fogliame.
Sì, aveva trascurato un simile spettacolo troppo a lungo.
Kumara lo seguiva arrancando sui gradini di marmo rivestiti di viticci e di tremule gemme: gli era alquanto impossibile capire come il suo signore potesse muoversi senza impaccio con tutto l’imponente carico di gioielli e tessuti in cui amava avvolgersi, ma non avrebbe emesso il minimo brontolio, si promise. Non quando aveva l’occasione di notare che, quella sera, il suo viso sembrava disteso quasi come lo era stato un tempo.
Si voltava ogni tanto per controllare che non fosse troppo lontano da lui – buffo, non erano forse guerrieri entrambi, abituati a ben altri ritmi di marcia? -, con un sorriso assente e malinconico, i capelli neri che scivolavano via dalla presa del grande fermaglio e danzavano nell’aria, nel ricamo d’argento delle stelle sopra le loro teste.
Qualcosa, nell’immagine bianca e brillante del suo re, gli spezzò letteralmente il cuore.

Perché non c’è nulla che non farei, Maestà, per scoprire cosa mi nascondete di così inconfessabile, quando mi sorridete così…

Ashura-ou spostò gli strascichi intessuti d’oro mentre scivolava piano attraverso l’odorosa distesa del roseto. Lì il profumo era così intenso da far girare la testa, ma lui non apparve infastidito dalla cosa. Con un sospiro soddisfatto, si arrestò solamente quando ebbe raggiunto il suo angolo preferito, un imponente gazebo circondato da un colonnato e letteralmente sommerso da un mare di glicini, gigli e azalee.
«Hai portato qualcosa da mangiare, Kumara?» chiese il sovrano, tentando un’infantile tono di casualità. Il suo vassallo rise leggermente: in fondo non cambiava proprio mai.
«Certamente, Maestà…» rispose, facendogli rotolare un kiwi in grembo con un piccolo lancio. Munitosi di coltello, Ashura-ou prese a sbucciarlo riducendone la peluria a un lungo ricciolo.
Rivolse un sorriso a Kumara.
«La tua efficienza è l’unica cosa che non manca mai di stupirmi, nonostante io sappia di potervi riporre piena fiducia.».
Lui rise, imbarazzato e lusingato.
«Semplicemente, Maestà, vi conosco.» si sminuì, con una scrollata di spalle.
Ashura-ou lo fissò con sguardo improvvisamente serio, liquidi occhi dorati immoti e lucenti come il mare all’alba.
Ritagliò un piccolo quadratino dalla polpa del frutto e se lo portò distrattamente alle labbra, il succo zuccherino che scivolava fra le pieghe delle dita in due gocce appiccicose.
Senza fiato, Kumara lo osservò mentre se le passava attentamente sulle labbra, e odiò il suo cuore che si ostinava a battere a singhiozzo.
«Davvero mi conosci, Kumara?».
Detestò anche Ashura-ou, che si intestardiva a porgli domande simili: lo sapeva, il suo re, di essere l’unico a possedere la risposta.

Non costringetemi a parlare, Maestà, ve ne prego…

Kumara ricambiò il suo sguardo con la stessa serietà, appena velata da una nota di teso stupore. Non disse niente, lasciò che l’unico rumore udibile fosse quello del coltello. Ashura-ou gli tese una fettina di kiwi con un accenno di sorriso, e lui l’accettò senza una parola, messo a disagio dal suo sorriso lieve, scintillante di malinconica rassegnazione, la stessa espressione che compariva durante il giorno a seguito dei suoi improvvisi sbalzi d’umore: era duro un momento, per essere dolce e triste, o capriccioso e inarrestabile e vanitoso, in quello successivo.
Senza posa.
Come se fermarsi lo costringesse a pensare, e davvero Kumara non poteva sospettare cosa potesse angustiare a tal punto il suo signore, eccetto la guerra contro gli Yasha, un conflitto che era rimasto stazionario da secoli e di cui ogni sovrano di Shura aveva raccolto l’eredità senza nutrire per essa grande preoccupazione.
Seguitarono a mangiare senza scambiarsi più di qualche monosillabo, Kumara con le mascelle contratte e Ashura-ou armato del proprio imperscrutabile sorriso d’angelo. I suoi occhi indugiavano sull’espressione dell’altro con intenta melanconia, mista ad una goccia di impercettibile rimorso.

Ci sono segreti che non sfuggiranno mai alla mia maschera.
Nemmeno per te.

Ma Kumara contemplò il suo riso mesto senza capire. Senza immaginare, e senza azzardarsi a farlo, suppose.
«Questo caldo è davvero incredibile, credo sia ora di tornare dentro.».
«Come desiderate, sire.».

E così sarà sempre.

җҗҗ

I corridoi fiocamente illuminati di Ashura-jou erano decisamente più freschi e tetri: le candele lasciavano colare dense gocce di cera agli angoli dei pavimenti, e le loro fiammelle fremevano come fiori di fuoco, in un inudibile crepitio.
Ad Ashura-ou, l’aria immobile pareva addirittura fredda: camminava verso i suoi appartamenti con le braccia contro il petto, massaggiandosi delicatamente gli avambracci, ostentando un volto così tirato da far astenere Kumara da ogni tentativo di conversazione. Il suo sguardo si rivolgeva verso il suo sovrano con una preoccupazione palpabile, che il re si sforzò di ignorare in ogni modo.
Non gliene importava.
Avrebbe dovuto, invece, ed era per questo che si sentiva così male.
«Buonanotte, Maestà.» si sentì augurare, con un rispettoso inchino, quando Kumara l’ebbe scortato fino all’ingresso alle sue stanze. Il sovrano lo ringraziò, per poi fermarsi nel mezzo del salotto lustro e buio, il sentore dell’estate che gli aveva irrorato la pelle, per poi ghiacciargliela con la frescura degli androni di Ashura-jou.
Come faceva l’amore, rise scioccamente, nell’abbandonarsi sul sontuoso mucchio di cuscini al centro della stanza, nell’occhio di un ciclone di tendaggi e paraventi.
Che prima bruciava il cuore con i suoi tizzoni ardenti, per poi lasciare che il loro fuoco covasse insopportabile sottopelle, ad alimentare il desiderio di qualcosa che Ashura non avrebbe mai potuto avere.
Chiuse lentamente gli occhi, una mano in grembo che giocherellava con i nastri scarlatti della cintura per discioglierne la treccia e separare i fiori ricamati che la chiudevano, in un tintinnio di perle e di ganci, le dita bianche che scivolavano al disotto degli strati di veli e di seta, come se si stessero aggrappando ai capelli di lui, sotto i suoi occhi, sotto quelle labbra che mai avrebbero avuto sapore, e che pure avevano un calore vivo e tangibile in ogni suo sogno, mentre si poggiavano seducenti sulla sua pelle, tracciando, baciando, soffiando, accarezzando, promettendo, scivolando, e Ashura sussultò violentemente, il labbro fra i denti mentre il bacino tentava quasi di seguire la curva della sua mano, il respiro che pulsava frenetico nei polmoni, fino a che non si rilassò mollemente fra i cuscini, le vesti sgualcite, la pelle lucida e il corpo completamente svuotato, sommerso da una sontuosa aureola di capelli color dell’ebano.
Attese che il suo respiro tornasse regolare, che l’immagine di Yasha-ou – desolata e dolce allo stesso tempo – si dissipasse da sotto le palpebre, e che il sangue riprendesse il suo consueto flusso. Si raddrizzò con uno scatto d’improvvisa resistenza allo struggimento che gli drappeggiava la mente.
Il debole scintillio della luna riflesse sul marmo della parete una figura pallida e sottile, scarmigliata e seriosa, con i gioielli penzoloni e i veli stravolti, simili a cenere su un incendio. Solo i suoi occhi, ora che il nido sicuro delle sue stanze lo proteggeva dall’indagine altrui, tradivano la presenza di quell’inferno che divampava sempre più dirompente minuto per minuto, accesi di una luce che sembrava consumare Ashura dall’interno.
Se fosse stato il semplice desiderio di un corpo, tutto sarebbe stato più semplice, più immediato. Serrare le palpebre e arrendersi fra le braccia di chiunque, nell’illusione che fossero le sue, magari facendo in modo che fosse sufficiente; senza che nessuna parte della sua mente si stirasse come un tendine nell’immaginare al suo fianco la presenza incrollabile di Yasha-ou, il suo sorriso, la sua stima…
Quando invece non esisteva che un rimando addolorato di sguardi attraverso due lame di spade, e un deserto sommerso di cadaveri dell’uno e dell’altro popolo.
Non aveva neanche la forza di fermare quella guerra: avrebbe significato non potersi incontrare mai più.

Perché, alla fine, non vi è cuore che riesca a smettere di desiderare.

Neanche al cospetto di una strage. sussurrò perentoria una voce dentro di sé, mentre Ashura avanzava con la mano fra i capelli, a tirare uno dei fermagli che li trattenevano, per poi scaraventarlo al suolo e lanciare insieme ad esso la miriade di pendenti e chiusure che lo costellavano, incurante di qualche capello che seguì quell’intrico d’oro e di gemme fino al suolo.
Ashura si fermò, i capelli sciolti sulle spalle.
Neanche il cuore di un re. aggiunse, rassegnato e, ciononostante, ancora capace di sorridere appena.

җҗҗ

Al di là delle montagne soffiava il vento, portando l’odore di Shura, fu il primo pensiero di Yasha-ou, prima di ricordarsi che quello era solo l’odore che lui immaginava fosse proprio di Shura, un vago aroma di miele, di fiori, come quello della pelle chiara di Ashura, quello che si insinuava nelle sue narici quando gli affondi del suo avversario si facevano così avventati da essere un semplice pretesto per avvicinarsi troppo a lui e sfiorarlo appena.
Non faceva caldo, a Yama: la semplice primavera non avrebbe mai potuto incitare i suoi ghiacci al disgelo, ma la tempra dura del suo re non ne soffriva granché: dormiva quasi svestito, le spalle nude coperte dal lenzuolo, che pure, quella sera, sembrava troppo pesante.
Affondò con il volto nel cuscino, chiudendo gli occhi con forza.
Era incredibile come le fattezze di un re fossero, nel suo immaginario, la forma di un intero regno: nulla che non fossero le sue labbra lucenti e lo splendido tumulto dei suoi occhi. Quegli occhi così traboccanti di tristezza ogni volta che si poggiavano su di lui insieme al barbaglio di Shuratou, e quelle labbra che, quando si dischiudevano sottovoce, gli parlavano di posti che non aveva mai visto, di ricordi, di buffe sciocchezze, e tacevano d’improvviso, arrestandosi ad osservarlo con un’espressione di una tale dolcezza, di una tale infelicità, che più volte Yasha-ou si era ritrovato a parare i suoi colpi senza più un briciolo di respiro, col cuore che gli faceva male al solo pensare che c’era una sola cosa che avrebbe voluto chiedere al Castello della Luna, e per il quale avrebbe sacrificato secoli di guerra e di vittime, ed era davanti a lui.
L’unica ragione per cui continuava a impugnare Yamatou, e gli stava sorridendo con la guardia alzata e i veli dello strascico nel vento.
Avrebbe voluto mentirgli.
Dirgli che avrebbe fatto di tutto, trovato il coraggio, scavalcato quella luna che scandiva ognuna delle loro notti inondate di sangue e di orrore.
Ma il tempo.
Né Ashura, né qualunque altra cosa avrebbero provveduto ad arrestarne il flusso, simile a siero che colava da un corpo già corrotto.
Ma non aveva il cuore di farlo. Non ne sentiva la necessità.
No, non era abbastanza, sapere che avrebbe continuato a contemplare tutta la sua vigorosa fragilità, la tenerezza che gli mostrava e la fierezza di guerriero in battaglia fino a che i suoi occhi non si fossero chiusi, ma era tutto quel che aveva; non poteva pretendere di più.
L’aveva sognato.
C’era sempre un frammento di lui nei suoi sogni, fatto della sua stessa splendida materia, sostrato insopportabile delle sue fantasticherie, che rideva felice con lui, per poi svanire all’alba, nel fruscio delle tende.
Quand’era bambino, in molti avevano scosso la testa di fronte alla sua innata riservatezza, a quella tranquilla impassibilità di facciata che gli veniva naturale, e che era, di fatto, il riflesso di una serenità che non gli era mai mancata.
Rendeva tutto più semplice, adesso.
Ogni sorriso lo nascondeva gelosamente in fondo al cuore, per lasciare che la leggera euforia del suo desiderio vi infondesse calore, e guizzasse incontrollabile come carne viva, in un misto imprescindibile di felicità e di tortura.
Perché Ashura si era annidato in ogni fibra di sé, come una stupenda scintilla.
Perché la distanza che li separava era uno squarcio eterno, infinito.
Perché avrebbe dovuto odiarlo, non combatterlo per avere ancora un pretesto per vederlo.
Perché quel poco tempo che avevano avuto non sarebbe durato, e perché di tempo non ne avevano mai avuto davvero.
Un colpo di tosse gli lacerò il petto a brani, seguito da una serie di scossoni sempre più violenti e incontrollabili, che lo lasciarono disteso sul letto, col respiro ridotto a un rantolo, la mano ancora contratta sulle labbra invasa di un sangue scuro e viscoso.

Il tempo, amore mio, mette le ali quando tu vorresti tenerlo al laccio.

In silenzio, osservò la traccia rossa e ferruginosa sulle lenzuola bianche, per poi volgere pigramente il viso verso la finestra. Le tende velavano appena la luce del primo mattino che gli bagnava i capelli.
Un mattino sicuramente più rigido di quelli di Shura.
Yasha-ou si voltò da un lato, esitando, prima di scendere dal letto.

Scosta l’abbraccio lezioso dei nostri desideri e s’invola come un falco.
Senza lasciarci niente.

җҗҗ

Era sempre stato un uomo – si diceva – di incredibile ponderatezza. Solido d’animo, frugale, imperturbabile, imperscrutabile. Forse era quello il motivo per cui la sua corte era divenuta un composto e silenzioso riflesso delle sue abitudini, almeno in superficie: si era piegata come argilla sotto il peso della propria calma.
Ma tutto questo si era rivelato una delle cose che Yasha-ou non riusciva più a sopportare.
Da quando aveva conosciuto Ashura-ou – o meglio, da quando si era accorto che conoscerlo gli aveva provocato un tuffo al cuore, e che mai aveva desiderato così tanto qualcosa – la costumata stasi del suo palazzo lo irritava profondamente: i segreti che si agitavano dentro di lui erano tanti, inarrivabili, e lui era oramai avvezzo a muoversi al ritmo capriccioso delle loro onde, senza che nessuno potesse arrivare a notarlo, ma avrebbe voluto che almeno una parte della sua inquietudine, di quel ruzzolare incessante, fossero anche fuori di lui, per farlo sentire meno solo, meno esposto, meno colpevole. Quando alzava gli occhi all’orizzonte – aveva preso l’abitudine di farlo spesso – non poteva più fare a meno di chiedersi quanto Shura fosse lontana, e qualcosa dentro di lui prendeva ad avvoltolarsi con furia, urlando, come a voler scoppiare, mentre il re taceva.
Non poteva più continuare così, raggelato dai venti di Yama e divorato vivo dalle fiamme di qualcosa che non si dava pace, che non gli avrebbe mai dato pace.
Non lontano da Ashura, almeno.
Ma era così che sarebbe sempre rimasto.
«Buongiorno, Maestà. Avete dormito bene?».
Il re sollevò il capo dallo scrittoio e dai documenti che stava distrattamente leggendo.
«Buongiorno, Kendappa.» mormorò, con un lieve sorriso. La ragazza, lunghi capelli d’inchiostro e profondi occhi azzurri e mordaci, appoggiò un vassoio d’argento sul piano di mogano lucente della scrivania e porse al sovrano una tazza di the fumante. Costui afferrò il manico con cautela, per timore di rovesciarne buona parte sulle preziose scartoffie, e proseguì nella propria lettura, attorniato dal sonoro tintinnio dei pendenti che la giovane donna portava cuciti sulle vesti di seta.
In realtà, il silenzio del re era carico di aspettativa: Kendappa era l’unico elemento dinamico del silenzio cortigiano che aveva attorno, e il suo consueto arrivo nei suoi austeri appartamenti era preludio a uno scoppiettante scambio di battute, o a qualche salace tentativo di indagine sul tarlo che lo rabbuiava in quel modo – e di cui lei sola aveva indovinato l’esistenza.
Pur essendo addetta a occuparsi delle stanze reali, Kendappa era, di fatto, una dama in grado di competere con quelle che lo erano per titolo, in prontezza di spirito e in raffinatezza nell’atteggiarsi e nel vestire. Voci che serpeggiavano da tempo fra i nobili la volevano sorellastra illegittima del loro sovrano, il che sembrava la spiegazione adatta al perché quella bambina di umili origini gli fosse stata affiancata fin dalla nascita dal padre, pur facendo parte del gradino più elevato e meno oberato della servitù.
Yasha-ou si era affrettato a smontare tali supposizioni: suo padre non aveva mai fatto menzione di figli all’infuori del suo matrimonio, e, anche se così fosse stato, non avrebbe accorpato una di essi alla nutrita schiera di paggi e inservienti di palazzo.
Non poteva, tuttavia, averne piena sicurezza, il che l’aveva trattenuto dal lasciarsi andare fra la consolatoria morbidezza delle sue curve quando il desiderio lo tormentava: non ci sarebbe stato nulla di tenero e rinfrancante nello sfogare un bisogno fisiologico con un’amica di infanzia – a maggior ragione con un rischio di incesto latente -, né l’avrebbe mai aiutato ad illudersi della presenza di Ashura-ou.
Yasha-ou fece un lungo sospiro.
«In verità, spero non ti arrechi dispiacere sapere che non ho dormito affatto.».
«Ohh,» cinguettò lei, con l’intento di farsi giocosamente beffe di lui «se Vostra Altezza si è finalmente risolto a non vedere il suo letto per una notte, non posso che esserne lieta: fosse la volta buona che riusciate a sfogare come si deve quel che avete in corpo!» esclamò infine, con gioviale energia.
«Magari,» sbuffò lui «le circostanze non me lo permettono.» la deluse lui, cupo, stando attento a non darle il minimo appiglio per permetterle di capire quali fossero tali circostanze «La notte l’ho passata insonne ancora una volta, i dolori stanno diventando insopportabili.» tagliò corto.
«Non solo quelli, non fate il furbo…» ridacchiò lei.
«Non è molto carino infierire così sulle pene altrui, sai?».
«Infatti non è carino, è sacrosanto, dato che fate tanto il reticente!».
«Oh, ti prego…».
«E comunque,» lo interruppe lei, improvvisamente seria «ho provveduto personalmente a sostituire e lavare le vostre lenzuola.».
Yasha-ou le rivolse una lunga occhiata, che sembrava aver abbandonato gran parte del granitico riserbo usuale.
«Grazie, mia piccola Kendappa.».
La ragazzina arrossì.
Quell’appellativo così caloroso riempiva lo spettacolo di un’inspiegabile malinconia, quasi come se gli occhi del re stessero tentando di imprimerla nella sua memoria.
«E vi rammento» tutto pur di non sentire il cuore che soccombeva alla tristezza, anche pungolarlo con la solita falsa impertinenza «che vi converrà sbrigarvi, dato che avrete parecchie udienze stamani… quella lettera d’amore che vi state tanto impegnando a buttare giù soffrirà molto la vostra mancanza, ma che volete farci…».
Lui scoppiò a ridere, incapace, ormai, di fissare il rapporto da compilare con la serietà che avrebbe richiesto.
«Ah, piccola impudente! Fra poco ti verrà anche in mente di andare anche a consegnarle, le mie lettere d’amore!».
Il pensiero di un simile tipo di corrispondenza era quantomeno ridicolo, ma non gli risparmiò una piccola fitta di frustrazione al pensiero che anche un semplice pezzo di carta non avrebbe – nel caso – trovato nessuno capace di oltrepassare una distanza talmente incommensurabile.
Proprio in quel momento, l’allegria negli occhi di Kendappa si mitigò in un sorriso lieve, triste.
«Se riuscisse a rendervi felice almeno un poco, sapete bene che lo farei.».
Yasha-ou appoggiò la testa contro lo schienale della poltrona, per rispondere con uguale amarezza, le palpebre abbassate.
«Se solo non fossimo semplici uomini, Kendappa…».

җҗҗ

L’approssimarsi della luna nuova aveva, sull’umore di Ashura-ou, esiti ben diversi da quelli che i suoi soldati, sudditi e sottoposti dichiaravano di vedere.
Non vi era nulla di stravagante nella punta di rigidezza che aveva sostituito quel suo irruente sprizzo di adrenalina, quando si trattava di recarsi sul campo di battaglia: i soldati stessi cominciavano ad accusare segni di pregressa stanchezza in merito a un conflitto che non aveva mai visto vinti e vincitori.
Il sovrano non ne era affatto tranquillizzato. Sarebbe bastato un cambio minimo dell’atteggiamento del viso per ritrovarsi completamente scoperto ai loro occhi, e quel monito perentorio bastava a farlo sentire intrappolato in una friabile maschera di cera.
Solo, completamente solo con il suo segreto, e costretto ad affrontare Yasha-ou ogni dannata notte della sua vita, pregando che nessuno si accorgesse di loro, di quel loro che serpeggiava disperato fra gli sguardi, in ogni cozzare di spada, in ogni sospiro di fatica che sfuggiva loro dalle labbra.
«Soldati, al Castello!».
Nel dirlo, aveva chiuso gli occhi, come a voler ignorare la flebile traccia di eccitazione mista a sofferenza che traspariva appena dalla sua voce.

җҗҗ

Si alzavano folate di un vento gelido, rarefatto, che gli annodava i veli ed i capelli, sollevando cumuli di polvere grigiastra.
Gli occhi di Ashura-ou cominciarono a lacrimare copiosamente sotto il suo soffio, nello sforzo di mettere a fuoco Yasha-ou che si avvicinava lentamente, le lunghe ciocche scure che, diversamente dalle sue, gli finivano davanti al viso.
Trattenendo un lieve sogghigno – accidenti a lui e alle sue manie scenografiche – smontò lentamente dalla sua cavalcatura ed estrasse Shuratou dalla guaina, pronto all’offensiva. La guerra non era certo la migliore soluzione per le sue prospettive sentimentali, vero, ma, finché c’era, tanto valeva dare il meglio di sé al cospetto dell’avversario.
E il fatto che il cuore stesse battendo con violenza sotto l’armatura al solo andargli incontro – e tute le volte, tutte le notti era così, ininterrotto, immutato, senza che potesse fermarlo, e senza essersi nemmeno preso la briga di tentare – era un dettaglio su cui era abituato a glissare.
Sfrecciò verso di lui con una potenza quasi impietosa: tutta quella polvere faceva sì che individuarlo a distanza fosse molto difficile e, in effetti, Yasha-ou indietreggiò, colto di sorpresa, quando la lama di Shuratou colpì quella di Yamatou con un violento clangore. Si parò per il rotto della cuffia, e il cuore di Ashura-ou saltò un battito quando si trovò con il viso all’altezza del suo sguardo scintillante di stupore.
«Buonasera.» sussurrò lui, accennando un sorriso mentre frenava un altro fendente all’altezza del ginocchio. Nel respingerlo, il re di Shura fece un passo indietro, senza staccare – senza riuscire a staccare – gli occhi dai suoi, assorto, addolorato e indegnamente euforico allo stesso tempo.
Yasha-ou incrociò la propria lama a quella dell’altro e premette con forza per poter avvicinarsi.
«Sei arrabbiato con me?» chiese, con una sfumatura di buffa delicatezza, a mezza voce.
Ashura-ou scosse la testa in un elegante fruscio corvino, incurvando impercettibilmente le labbra, impegnandosi a restituire il colpo, consapevole che il loro duello era una serie di movimenti in inalterabile sincronia, veloci, sì, letali, ma…
Ma.
Non avrebbero mai osato colpirsi.
«Non parlare.» bisbigliò in un soffio. Preferiva guardarlo senza dirgli niente, perché, ogni volta che cominciava, non aveva mai la voce per terminare. Preferiva i suoi occhi che scivolavano su di lui con un’infelicità scura, inestinguibile, mentre teneva testa a Shuratou seguendolo in quella danza che tale non era per il resto del mondo.
Dicevano fosse un uomo incrollabile e fermo.
Ma questo, si disse Ashura-ou, era l’unico incantesimo davvero capace di fargli il cuore a pezzi.
Yasha-ou incalzava in fretta, intanto, una scusa in più per sentire quale profumo avesse oggi – vaniglia – e, quando vide l’equilibrio di lui vacillare, lo afferrò per il polso senza pensare.
L’altro spalancò per un attimo gli occhi, e, restituendo il suo sguardo, Yasha-ou realizzò quel che aveva fatto.
Era la prima volta che lo toccava così, e prendeva coscienza che un cuore batteva attraverso le sottili vene azzurrine di Ashura-ou, che il suo polso era sottile, e la sua pelle calda nonostante sembrasse di alabastro.
Come se non lo desiderasse già abbastanza.
L’altro si slanciò contro di lui a spada tratta, ma Yasha-ou ne arrestò l’avanzata, cosa di cui Ashura-ou approfittò per sporgersi in avanti.
«Toccami di nuovo.».
Lui, senza azzardarsi a respirare, si avventò su Shuratou aggredendola con assalti feroci, mentre il palmo della mano libera scivolava sotto quello della mano di Ashura, a tastare le dita affusolate e delicate, indurite, tuttavia, dalla battaglia, proprio come le sue.
«Hai delle mani splendide.» mormorò al suo orecchio, coperto dalla furia del vento.
Ashura-ou si concesse un attimo di autocompiacenza e ridacchiò.
«Anche le tue lo sono.».
Grandi e caldissime, così ampie che due delle sue, di mani, avrebbero stentato a riempirle.
La battaglia non si era fermata, e neanche loro ne mostrarono intenzione, battendosi con furia a colpi di lama, Yasha-ou che allungava furtivamente una mano fra i suoi capelli, per sfiorargli piano la curva del viso senza che nessuno vedesse, con Ashura che reclinava di poco il capo per adagiarsi un momento nel suo tocco.
Quando la luna fu scolorita, si allontanarono col fiato corto di chi aveva ricevuto migliaia di ferite, e si scambiarono un ultimo sguardo mentre svanivano nella luce lattescente del primo giorno.
Senza rimedio.

җҗҗ

Aveva scacciato Kumara in maniera insolitamente brusca e si era coperto il viso con le mani: la calura e la luce del giorno li aveva in odio, ultimamente.
Le sue dita sfioravano le guance che Yasha-ou aveva accarezzato, con una disperazione senza rumore, quasi lisciandole come ciottoli in riva a un fiume.
Basta.
Era davvero troppo.

җҗҗ

Tutte le ancelle si scostarono, allibite, dalla traiettoria del loro signore, che si stava dirigendo verso un minuscolo chiosco sepolto dalla verzura del giardino, dove era solito farsi servire la colazione e il the del pomeriggio. Circondato da un basso fossato d’acqua limpida, era delimitato da quattro colonne e ombreggiato da una piccola cupola.
La più giovane delle ragazze seguì il suo re con lo sguardo per accertarsi dei suoi movimenti: non aveva dato loro ordine di preparargli alcunché, il che era singolare, da parte sua. Negli ultimi tempi era lunatico e taciturno, e anche Kumara – il cui noto caratteraccio metteva spesso alla prova la poca pazienza del sovrano – veniva trattato in modo più tagliente del solito. Fin da bambino, Ashura-ou non era mai stato abituato all’esitazione delle persone sotto il suo comando, né ad essere contraddetto in alcun modo: pretendeva che tutto fosse fatto subito e nel migliore dei modi, e questo nonostante fosse una persona di rara dolcezza e arguzia di spirito, il che gli era valso l’incondizionato amore di tutto il suo popolo.
Eppure, ogni sorriso che Madre Natura gli aveva rivolto diventava inutile quando era di cattivo umore.
«Voglio restare assolutamente solo.» comunicò con spiccia freddezza alle ragazze affaccendate attorno alla sua meta. Tutte si inchinarono e sparirono in fretta, per nulla persuase dall’idea di farlo alterare.
In un argentino fracasso di monili, il re si inginocchiò a terra fino a scorgere il proprio riflesso nell’acqua.
«Strega.» chiamò, con le labbra che tremavano appena per l’impazienza e la frustrazione.
«… Ti concedo l’appellativo solo perché sei infuriato e per nulla padrone di te stesso.» gli rispose, ridacchiando, la Strega delle Dimensioni, la cui immagine galleggiava sul pelo dell’acqua.
Ashura-ou non le badò: era stanco, rattristato, sommerso da tutte quelle cose che aveva segregato nel cuore, e incapace di tenerle ancora sotto controllo.
Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro.
«Ho un desiderio.».
«Sentiamo.» lo incoraggiò Yuuko, con un lieve sorriso velato di ironia.
«Io… io voglio Yasha-ou.».
«Un bel problema, così, a migliaia di miglia di distanza…» rispose lei, sogghignando.
Il re di Shura scossa frettolosamente la testa.
«Voglio che possa starmi vicino almeno per una notte.».
«Sarà fatto.» acconsentì la donna, lapidaria. Ashura-ou stava proprio aprendo le labbra, quando lei lo interruppe ancor prima di farlo esordire.
«Ma sai bene che c’è un pagamento di cui ti dovrai far carico, e dovrai saperne affrontare le conseguenze.».
«Sarebbe?» insistette il giovane sovrano.
«Sarà la vostra unica notte. Non potrai mai più rivederlo, tranne che sul Castello della Luna, come è sempre stato.».
Ashura-ou rimase immobile per una frazione di secondo.
«E sia. Accetto.» disse, con voce ferma.
Non che avesse mai contemplato la possibilità di vedersi concessa una seconda occasione.
«Yasha-ou sarà a Shura al calar del sole, quando la luce del giorno sarà completamente svanita dal cielo, e se ne andrà da te non appena il cielo sarà completamente illuminato. Da quel momento il tuo pagamento sarà istantaneamente giunto fino a me.».
Si volatilizzò senza permettere ad Ashura-ou di risponderle, e, non appena fu fuori dalla sua portata, strinse le labbra.
«E sarà meglio per entrambi, Ashura-ou.».

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Quando l’aria si caricò di umidità, e di una dolce, prepotente fragranza di fiori e spezie, Yasha aprì di scatto gli occhi.
L’aria si fermò completamente.
«Ciao, Yasha.».
A cavalcioni su di lui, Ashura sorrideva con deliziosa malizia, vestito di tutto punto nei suoi preziosi strati di stoffe pesanti e ricamate, perle e gemme nei capelli tirati come di suo solito, la mano appoggiata lievemente su di sé, sotto al lenzuolo che lo copriva dalla vita in giù. Era nudo, sotto quel pezzo di seta: la pressione delle dita di lui era intensa, nella sua delicatezza, quanto bastava per appiccare il fuoco al suo desiderio onnipresente – e Ashura si stava deliberatamente avvantaggiando dello strusciare della stoffa per amplificare la sensazione nel migliore dei modi.
«A… Ashura?» boccheggiò, incapace di respirare mentre, con la coda dell’occhio, fissava l’incensiere e le candele accesi sul comodino di fianco.
«Mhh. Esatto.» sussurrò lui, languido, appoggiando baci minuscoli e ininterrotti lungo le guance e il collo.
«Ma… cosa…» balbettò Yasha, irrigidendosi quando i capelli di Ashura gli si sparsero sul petto, mandando un lieve, sensuale odore di cannella e camomilla, le sue labbra di soffice, caldo velluto che scivolavano sapienti contro le linee aspre dei muscoli del petto, accompagnati dalle sue mani minute. L’uomo si mosse appena sotto la sua provocazione, fremendo lievemente nell’avvertirlo risalire, un ginocchio di lui poggiato sul ventre e la sua bocca che si schiudeva lentamente sul collo. Trasalì quando avvertì la sua lingua che tergeva il lieve velo di sudore che lo bagnava, sotto l’effetto di quel calore a cui non era avvezzo.
Ancora incredulo, tese le braccia fino ad aprire le mani sulla sua schiena. I suoi vestiti erano più leggeri di quel che aveva creduto: sentiva la sua colonna vertebrale e il tepore della sua pelle sotto i polpastrelli, e lo sentiva curvarsi gentilmente al suo tocco, e rabbrividirvi contro con un sospiro.
Era davvero Ashura.
«Sei a Shura.» lo sentì mormorare sulle sue labbra, quando sollevò nuovamente il capo, gli occhi d’oro socchiusi e un indice a carezzargli la bocca.
«Come faccio a trovarmici?».
«È stata una mia richiesta alla Strega delle Dimensioni.».
«Cosa? Tu… tu sei pazzo! Non sai che quella donna potrebbe chiederti l’anima in cambio?».
«Oh, certamente. Lo so benissimo.» ridacchiò voluttuosamente «Ma c’è una cosa» proseguì, la voce ancora più suadente mentre si avvicinava sempre più a baciarlo «che desidero chiederti, e per la quale darei molto più della mia anima.».
Yasha non rispose – non voleva affatto, né aveva il fiato per riuscirci.
Il respiro gli si spezzò quando la lingua di Ashura gli leccò lentamente le labbra, facendolo quasi sobbalzare. Senza neanche attendere che si scansasse, Yasha assaggiò velocemente la traccia lucida della sua saliva, mentre la figura morbida su di sé si chinava contro il suo orecchio, succhiandone delicatamente il lobo e soffiandovi sopra.
Yasha aveva la pelle d’oca.
Il desiderio si era fatto liquido, bollente, insopportabile.
«Come mi vuoi?» sillabò, la linea morbida della sua bocca contro l’orecchio, il suo respiro arroventato. La sua domanda – sensuale, sfacciata, invitante – lo sciolse più di quando non fosse riuscito tutto il resto, il cuore che rombava mentre attirava Ashura all’indietro, i suoi capelli che gli cadevano leggiadri sul viso.
Affondò le dita fra quelle odorose volute scure, spingendo le labbra di lui sulle sue senza incontrare alcuna resistenza: Ashura si dischiuse in un piccolo lamento intrecciando la lingua alla sua, muovendosi sinuoso sul suo corpo febbricitante, lasciando che le perle e i rubini che aveva infilato fra la ciocche rotolassero disordinatamente fra di loro, fra le pieghe delle dita e delle lenzuola.
Le mani di lui gli accarezzarono il viso, i capelli, le spalle. Attraverso i vestiti, l’eccitazione di Ashura si sfregava contro la sua, e Yasha si lasciò completamente andare alle dita che, tracciando il suo sterno, andarono a districarlo dal lenzuolo, diminuendo l’attrito.
L’uomo soffocò un gemito contro il suo collo quando le sentì avvolgersi contro di sé.
«Oh, Ashura, io…» ma non poté proseguire, perché il re di Shura gli offrì l’incavo fra spalla e collo con così tanta insistenza che Yasha lo mordicchiò giocosamente, prima di chiudere le labbra su di esso e suggerne con foga un angolino, aggrappandosi spasmodicamente a lui al ritmo dei suoi sospiri e del suo tocco, continuando a baciargli le labbra, la fronte, il collo, la clavicola, fino a che non avvertì che lui si era bruscamente arrestato.
Lo fissò, chiedendogli silenziosamente una ragione, gli occhi vacui e il corpo madido di sudore. Ashura si raddrizzò sorridendo, lasciando scivolare le mani ai suoi lati, e fermandosi in prossimità dei suoi fianchi.
Yasha si morse il labbro.
L’altro gli bloccò il bacino e poggiò le labbra su di lui, guidandone i gemiti sommessi con piccoli tocchi e piccoli baci, la trama ruvida della sua lingua contro la pelle sottile, fino a che Yasha non cercò i suoi capelli, stringendoli fra le dita.
«Ashura!».
«No, no…» rise lui, abbracciandolo e tirandosi su, intento a spostare le ginocchia fra le sue cosce «Abbiamo una notte sola… e tu non vuoi si concluda troppo in fretta, vero?».
«Una notte sola?» domandò lui a malapena, sommerso dai suoi baci caldi e disperati mentre si tirava a sedere anche lui sui talloni, le mani che saggiavano il suo corpo sottile da sopra ai vestiti.
«Era il prezzo.».
Yasha lo strinse senza ribattere, il palmo che scivolava sulle sue labbra fino alla punta delle dita e lasciava che Ashura glielo baciasse con attenzione, mentre lui stesso si portava un suo dito fra le labbra e lo assaggiava con calma, scostandogli le maniche, baciando poi la linea tenue del polso fino al gomito, e spostandosi dietro la nuca e i lobi delle orecchie.
«Ti amo.».

Va bene. Anche solo così.

Ashura trattenne un singhiozzo, chiudendo gli occhi mentre, con un movimento del bacino, aiutava Yasha a sciogliere l’ampia cintura e a scivolare con la mano al di sotto degli strati di prezioso vestiario. Irrigidì il suo abbracciò scuotendo i fianchi contro le sue carezze, accompagnandone ogni minima variazione, le linee della sua mano, le fibre della sua pelle ruvida, accoccolandosi contro di lui e lasciando scie incandescenti lungo la clavicola e il collo, mugolando lentamente mentre il suo ritmo si faceva serrato e poi diminuiva, finché Yasha non sfiorò con un dito la punta della sua erezione e lo vide fremere leggermente, i capelli sugli abiti scomposti e il petto scoperto. Glieli fece scivolare giù dalle spalle e si tese verso le sue labbra per sfiorarle in un bacio tenero, lieve. Ashura si spinse contro di lui, tenendosi saldamente al suo collo e facendolo atterrare nel disordinato guazzabuglio di vestiti sparsi sul lenzuolo, le spire infinite dei loro capelli avvolte fra loro, le labbra di Yasha che lo baciavano ancora, e si premevano sul mento, sulle palpebre, sui palmi delle mani, in una calda, tremula scia, srotolandosi come un nastro di velluto da cui entrambi disperavano di potersi sciogliere. In un sospiro, Ashura tentò l’impresa, inclinandosi verso il comodino e afferrando una piccola ciotola. Le braccia di Yasha lo bilanciarono di nuovo verso il letto, così da dargli occasione di sistemarsi di nuovo con le cosce ai lati dei suoi fianchi.
Lo osservò versarsi sulle mani un denso unguento dorato. Alcune gocce sfuggirono alla sua presa e si allargarono sul ventre di Yasha simili a schizzi di miele, mentre il resto veniva assorbito dalle mani dell’altro. Avvolto nella greve cortina di quel profumo, Ashura intrecciò le dita a quelle di Yasha e rovesciò su di esse un fiotto di essenza, che si sparse su entrambi.
Lo riconobbe: fiori e miele.
Una delle grandi mani dell’uomo afferrò la folta capigliatura del suo amante per sollevarla sulla nuca, l’altra scivolò con flemma lungo i capezzoli e lo stomaco piatto, passò il palmo sulla sua virilità, strappandogli un gemito, e circondò la sua schiena, risalendone di nuovo la linea dritta, mobile, massaggiando la base del collo e le spalle fini, spaziando con seducente grazia sulla sua pelle luminosa, sull’eccitato rigore dei suoi muscoli. Lui abbassò le palpebre e alzò la testa.
«Yasha…».
«Solo un attimo, amore mio.».
Due delle sue dita presero a scorrere sinuose fino a che non incontrarono il solco fra le natiche. Ashura, abbandonando il piccolo bricco nella mano di lui che lo richiedeva, si piegò con le mani sul suo petto, lasciandovi la lucida traccia dell’unguento e allargandole su di esso in un voluttuoso massaggio, mentre Yasha faceva lo stesso con i suoi glutei e la sua apertura, guardando le gocce ambrate che sgusciavano nell’interno delicato delle sue cosce.
Avvertì il suo corpo contrarsi.
«Non irrigidirti.».
Ashura tentò di scuotere il capo nell’assecondare i brevi movimenti delle sue dita, lasciandosi sfuggire qualche gemito di piacere e di dolore. Yasha raccolse la sua erezione nel palmo della mano e prese ad accarezzarla ritmicamente, le labbra di Ashura che chiedevano un bacio fra un gemito e l’altro – che divenne un singhiozzo liberatorio quando si svuotò, afflosciandosi contro il suo petto e accoccolandosi per un breve istante fra le sue braccia, il tempo di un respiro prima di offrire i polsi a Yasha e intrecciare le gambe attorno al suo bacino.
L’uomo scrutò il corpo levigato e diafano, sfiorandolo amorevolmente per rilassarlo: inavvertitamente, Ashura si era lasciato sfuggire un respiro agitato, che aveva indotto l’altro a fissarlo bene in viso, mentre premeva contro di lui.
«Yasha, io non ho mai… mai…».
Avvampando dal desiderio, preferì lasciare la frase in sospeso, sopraffatto da un’ondata rovente nell’accorgersi che Yasha era a un passo dal penetrarlo, e già si strusciava pressante contro di lui.
Gemette.
Lui inarcò un sopracciglio, ma si distese nel notare che Ashura era pietrificato, e sorrise: dopo tutta quell’audacia, non avrebbe mai immaginato una rivelazione del genere, seppure – a dirla tutta – il pensiero che tanta disinvoltura fosse frutto di altri trascorsi fosse stato causa di un tanto infantile quanto acuto fastidio, e la sua smentita fosse un sollievo.
«Non importa.» minimizzò, trattenendosi dal biascicare il suo nome mentre si spingeva appena «Faremo tutti e due del nostro meglio… tu rilassati… mh, proprio così, esatto…» e non riuscì ad articolare alcun suono che avesse senso compiuto mentre il corpo di Ashura, resistendo all’iniziale fastidio, si muoveva con una certa ingenuità contro di lui.
Poi, Yasha sentì il piacere che rotolava su di lui come lava, inghiottito da Ashura, stretto e scivoloso, bruciante come l’estate fuori da quella stanza, che lo stringeva con le mani fra i suoi capelli e la guancia contro la sua, chiamandolo e lasciandolo affondare sempre più, fino a che Yasha non lo sentì sciogliersi, solo per imitarlo l’attimo successivo.
Si lasciò pigramente andare fra le sue braccia.
Nessuno parlò per qualche attimo, e Ashura aprì gli occhi, il cielo era ancora buio.
«Mhh, c’è tempo…».
«Già. Non che questo giustifichi la tua follia…».
Lui sorrise con una certa noncuranza.
«Tu dici?» chiese, con una risatina ironica.
«Certamente!» affermò Yasha, giocherellando distrattamente con i suoi capelli, e ridacchiando alla stessa maniera «Vendere altre nostre possibilità in questo modo vergognoso… Senza contare che avremmo potuto svegliare tutto il palazzo!» rise, con malcelata malizia.
«Spiacente di deluderti, Yasha-ou,» la voce di Ashura si insinuò nel suo orecchio «ma l’incantesimo ha indotto Shura in un sonno inamovibile, che durerà fino al mattino.».
«Oh.» commentò Yasha, ridendo impercettibilmente sotto i baffi.
«Il che significa…» proseguì Ashura, carezzevole e sensuale come una cortigiana navigata «…che è nostro diritto gridare quanto vogliamo.».
Una delle sue limpide occhiate d’oro catturò il sorriso di Yasha, colto in pieno a compiacersi della sua spudorata allusione: non era certo quel che si sarebbe aspettato da un re appena reduce dalla perdita della propria verginità: e invece eccolo lì, i capelli fini e scuri come fuliggine che si avviluppavano stupendi fino alle caviglie, mentre si reggeva il volto con una mano.
Decise di scivolare con il capo sulla piccola spalla scoperta dal nugolo della sua chioma, e, quasi facendo le fusa, Ashura lo lasciò accomodare come più gli aggradava.
«Non riesco a trattenere una curiosità, sai?».
«Mi duole costringerti a farlo.» fu la conciliante risposta di lui.
Yasha si voltò a baciargli i capelli.
«Non ho molto da dubitare sulla tua verginità, ma… per un uomo che ti ha sempre immaginato come una cosina fragile e delicata all’infuori del campo di battaglia, tutta questa audacia è quantomeno inaspettata, se corredata alla tua inesperienza, sai?».
Ashura rise una risata svagata con una mano che si sfiorava a malapena le labbra.
«Di’ anche “insperata”.».
«Anche, d’accordo.» si arrese lui.
Ashura lo fissò attentamente con gli occhi pigramente socchiusi e un accenno di divertimento a incurvargli le pieghe vermiglie delle labbra.
«Mio caro Yasha,» cinguettò «ho schiere di coppieri al mio servizio. Pagare dei semplici ornamenti umani mi è sembrato irragionevole, così ho fatto in modo che la loro presenza mi fosse utile per acquisire un po’ di destrezza con queste cose: ho un’immagine a cui fare onore, io…» ghignò, sorvolando sul suo “piccola ingannatrice che non sei altro!” «… ma non ho mai permesso a nessun puerile ragazzino portavivande di toccarmi entro un certo limite proprio per questo: sono pur sempre il re. Senza contare che avevo deciso di conservarmi per un certo qualcuno.» e sì, era un diretto riferirsi a lui. Lo stupì: la dichiarazione aveva uno strano, fiabesco sapore. Conservarsi per un uomo irraggiungibile come lui. Roba d’altri tempi, per cui, per qualche bizzarra ragione, non riusciva a smettere di sentirsi felice.
Ashura si alzò di gran carriera dal letto e, coperto solo dalla folta capigliatura scura, si avvicinò al tavolo imbandito di fronte a loro, pieno di vivande; l’aveva fatto allestire per l’occasione.
«Hai fame?».
«Un po’, lo confesso.».
Fece ritorno a letto, accucciandosi contro di lui, ma la sua inerzia non durò a lungo: subito fu ginocchioni davanti a Yasha, la crema di un dolcetto sofficemente adagiata su un dito.
«Apri la bocca, su…».
Yasha schiuse le labbra, docile: il fresco velluto della crema si tramutò in un ribollire di braci quando la sua lingua arrivò a lambirne gli indistinti contorni. Ashura si protese verso la sua bocca, lasciando serpeggiare una mano fra i suoi capelli.
Sapeva di zucchero, il bacio.
Stucchevole, intimo, triste, considerò Yasha, forse perché, adesso, lo sforzo fisico compiuto poco prima – sebbene come tale non fosse stato inteso – aveva accorciato e affaticato il suo respiro, e non riuscì a dire con esattezza per quanto ancora avrebbe potuto coccolare Ashura e fare l’amore con lui, quella notte.
La loro sola e unica notte.
La possibilità irrealizzabile che avevano strappato a viva forza dalle grinfie del tempo, che Ashura aveva preteso, a costo di precludersi anche solo di accarezzare la fantasia che loro potessero ancora vedersi così – nudi e intrecciati e annodati nei gemiti nei capelli e nella bocca –, il Castello della Discordia proiettato in un mondo remoto di fumi e di nebbie.
Yasha annegò in quel bacio con il trasporto affranto di chi immaginava potesse essere l’ultimo, e Ashura che si separava brevemente da esso gli provocò una fitta di dolore insopportabile, come se la sua anima fosse stata un organo compresso fra il cuore e le costole, fisico, logoro.
«Prometto» bisbigliò «che stavolta sarò più bravo.».
Qualcosa di dolorosamente infantile stava rannicchiato nelle sue parole, e Ashura non sembrò esserne consapevole mentre le pronunciava, e di nuovo i denti di Yasha segnarono il profilo della sua pelle morbida, lucente sotto le candele, la testa all’indietro mentre lui baciava il collo, nel premersi nell’alveo tremante fra sue cosce, in un susseguirsi di singhiozzi, brividi, la frizione dei loro desideri e la sua pelle trasparente, lo scivolare del suo seme contro le sue strette pareti e lo scuotersi abbandonato dei loro sospiri accaldati.
Come sabbia lungo la strozzatura di una clessidra.

җҗҗ

Stavolta, nel crollare bocconi su di lui – senza più il conto delle volte in cui avevano fatto l’amore, stralunati, ininterrotti – Ashura temette che il cielo fosse più chiaro, e Yasha, pur notandone il presagio, non parlò.
Di luce non ce n’era ancora, ma ce ne sarebbe stata presto, il chiarore s’infilava fra livide nuvole cobalto senza annunciare troppo il suo arrivo.
Inutile terrorizzarsi o illudersi: Ashura passò all’infinito sul corpo di lui, dischiudendo i palmi in piccole carezze.
Yasha chiuse gli occhi per un momento, tentando di controllare l’ostruita pesantezza del respiro, a cui Ashura non aveva ancora fatto attenzione – era inudibile.
I suoi baci gli sfiorarono le guance con tenerezza mentre lo sentiva che si sdraiava al suo fianco. Riprese a baciargli le labbra – se quei baci avessero potuto parlare, sarebbero stati una cantilena.

Non andare.

«Cosa potremmo mai farcene, ora, del desiderio di un Castello della Luna qualunque?».
Una domanda che gli era salita spontanea.
«Ciò che ce ne facevamo prima: niente.».
L’amarezza della risposta di Yasha non cedette posto ad alcuna via d’uscita, ma, semplicemente – si costrinse a rammentare Ashura – dettava come fosse giusto che le cose andassero, non come sarebbero dovute andare.
«Mi chiedo se tutto il “niente” di prima potrà continuare a correre sullo stesso filo… non mi dispiacerebbe: è sempre meglio che non vedersi mai più.».
Yasha era conscio che così non sarebbe stato.
«Non siamo fatti per la pace, noi.».
«Già.».
Sapeva che Ashura non aveva colto di quale tipo di pace stesse parlando.
«Quel che è peggio è che non eravamo fatti neanche per innamorarci.».
La melodrammaticità del pensiero si perse nel forte disincanto che la intrideva. Yasha, punto sul vivo, lo abbracciò, reprimendo un respiro, contemplando l’albume sciapo del giorno che si stagliava timidamente sul guanciale, attraverso le tende del baldacchino.
Di riflesso, Ashura si rizzò sulle coltri insieme a lui, affondando le dita nei suoi avambracci nell’inconscia determinazione a non farlo evaporare come caligine.
Gli occhi di Yasha-ou si fermarono su di lui mentre gli carezzava il viso contratto nello sforzo di trattenersi.
Attese di diventare leggero come un fantasma: non successe, ma un macigno che conosceva rotolò fra i suoi polmoni inchiodandolo al letto.
Premette una mano sulle labbra, lo sguardo di Ashura che contemplava con orrore il sangue che gocciolava sulle lenzuola, seccandosi sulle nocche e sul palmo.
Scattò ad allungare il braccio per toccargli la mano, ma, raggelato, realizzò che le sue dita erano passate oltre e si erano appoggiate sulle coperte.
L’ultima cosa che vide fu il suo sorriso rattristato.
«Ti avrei risparmiato tante sofferenze, Ashura…».

Non siamo fatti per la pace, noi.

Improvvisamente, il cervello si fermò nel tremito convulso di un attimo che sembrò non passare più.
«Perché non mi hai detto che eri ma—».
Ma si accasciò fra le lenzuola riparandosi dal chiarore con le dita: a che sarebbe servito, ormai?

җҗҗ

Kumara lo trovò così.
In un involto screziato di lenzuola, raggomitolato nel loro viluppo frusto, i capelli che lo attraversavano come cupe propaggini d’albero.
«Maestà!» si era precipitato, scivolando nella fretta «Cosa… cosa vi hanno…».
Si interruppe.
Doveva aver pianto molto: gli occhi erano cerchiati di rosso e le labbra erano riarse.
«Mio Dio, sire, parlate, vi prego!» gli ingiunse, con uno scossone: Ashura-ou si limitò a trattenere il fiato. I suoi vestiti erano sparsi intorno come stracci, non un segno di forzatura su di essi, tuttavia.
Lo vide contrarre le labbra, come a voler impedire alle lacrime di sgorgare.
«Che sciocco che sono.».
Fu abbastanza perché Kumara lo attirasse, incurante, in un abbraccio, in cui Ashura-ou si concesse di tremare di freddo e dolore con le mani di lui fra i capelli.
«Oh, no, Altezza, no, no, non è così…».

Mia splendida e irraggiungibile Altezza Reale…

Lo sentì aggrapparsi con i pugni. Non si guardarono.
«Aiutami a vestirmi.».

җҗҗ

“Se troverete i loro resti… seppelliteli insieme, per favore.”.
La richiesta era pervenuta da labbra estranee al mondo in cui Ashura-ou si era mosso e consunto e, nonostante Kumara avesse deciso di prestarle ascolto, tutti i frammenti di quel che non capiva – e che gli erano irrimediabilmente sfuggiti nel corso degli anni – si accostavano fra loro in un mosaico disarmonico, slavato e incompleto, a cui si sarebbe rifiutato di aggiungere un ulteriore tassello. Ciò che gli dava fastidio, in verità, era la muta consapevolezza insita nelle parole di Shaoran: lui, che aveva servito il suo signore, combattuto al suo fianco senza risparmiarsi stenti, stanchezza e sacrifici d’ogni tipo, si ritrovava a non condividerne la minima parte e, anzi, a rendersi conto di quanto fosse stato escluso da tutto.
Possedeva tutti i fili del livido arazzo di quell’epilogo, ma non riusciva a capirli, a concepirli. Gli erano solo utili ad acuire la rabbia, insieme alla disperazione, perché aveva perduto una persona che non era mai stata sua, e che aveva amato e servito superando spesso il limite delle proprie possibilità.
Si morse con collera l’interno della bocca.
Tsk. I desideri.
Crepe e schegge di pietra di un castello che si erano contesi senza motivo, e nient’altro, due labbra appoggiate su una cicatrice, un uomo con dei vestiti e una spada stretti al petto, e volti basiti che si accorgevano di aver combattuto nella trama di quel legame pesante e definito, senza averne mai intuito i contorni.
Non era affatto corretto, da parte sua, ardere dal bisogno di contestualizzarne la natura nei minimi particolari.
Avrebbe solo voluto che qualcuno gli dicesse per cosa avesse combattuto, sofferto, sperato. Ma…
Sfiorò il marmo lucente e finemente scolpito dei due sepolcri – due, così come Shaoran, e Ashura-ou dietro di lui avevano domandato –, e trattenne l’impulso di lasciare via libera alle lacrime: non stava a lui.
Estate.
Arida e piena di sabbia rovente.
In fondo, davanti ad Ashura-ou aveva sempre chinato la testa.

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A/N 25 dicembre 2007, ore 19:20. Sì, l’ho finita, e pensare che doveva essere un porno sfacciato da cinque pagine XD. In realtà è la mia seconda fic su Tsubasa – la prima è praticamente la mia concezione dello Shura arc, ed è in oltremodo lenta lavorazione. Questa è per Nausicaa che me l’ha chiesta, e a lei appartiene l’idea all’ottanta per cento – <3 mia adorabile cara, auguri <3 -, e spero ti sia piaciuta, pur con la malinconica vena di Kumara/Ashura one-sided che si porta dietro, e la caterva di disperazione limonante dei protagonisti X°°D, perché Shura è Shura, ed è amabile. Si ringrazia Loreena McKennitt, dato che titolo, citazione e colonna sonora in fase di stesura sono tutto merito suo^^. Due insostituibili ringraziamenti vanno anche a Milako e Juliet, per i consigli, il supporto e la fiducia!

Uff, ce l’ho fatta XD!

Juuhachi Go.

PS: Buon Natale a tutti, gente <3

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