[X] Kanaenai

Titolo: Kanaenai
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Kamui Shirou, Arashi Kisshu
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 1694 (LibreOffice)
Note: omosessualità, spoiler X16. Per Yuffie e per la quarta settimana del F3.U.C.K.S. Fest con prompt Smeraldo e Acciaio su casti_puri.

Kanaenai
[F3.U.C.K.S. Fest @ fanfic_italia ~ casti_puri ~ 20 Precious: 003. Smeraldo + 010. Acciaio]

Fu in quel momento, temo, che io e Arashi ci rendemmo conto di cosa Sumeragi Subaru fosse in realtà – nulla più di un impermeabile sulla linea metallica di un ponte in briciole.
Perché quel ponte sarebbe caduto nel giro di pochi secondi – tutti i cavi metallici che lo tenevano sospeso avrebbero mollato la presa in un solo, lunghissimo istante, proprio come quelli che avevano sostenuto il cuore di Subaru fino a quel momento, in un arazzo infinito di maschere e di illusioni.
E io mi accorsi che non solo non lo volevo, ma che non l’avrei neppure permesso: fino a quel momento, avevo fatto in modo che troppe cose si prendessero gioco delle mie decisioni, e solo Subaru, quando così era stato, me ne aveva tirato fuori.
Capii tante cose, nell’attimo in cui la prima spaccatura dell’asfalto si aprì fra i nostri piedi come il segno di un coltello nel burro.
Capii che, fatto il primo passo verso Subaru, non avrei più potuto tornare indietro.
Capii che, per la prima volta, Arashi mi stava mostrando i suoi occhi – di solito erano lisci come ardesia, e quel giorno, nell’osservare il capo dei Sumeragi e il suo dolore, fremevano di lacrime e stupore come un mare frustato dal vento.
Capii che, dopo quell’unico passo, avevo tante possibilità di salvarlo quante di morire io stesso in quel gorgo di polvere, cemento e acqua di mare. Per Subaru – per quel Subaru che si aggrappava al Sakurazukamori come se quell’uomo fosse ancora vivo e lui, al contrario, in punto di morte – nulla di tutto questo sarebbe stato importante.
Capii di comprenderlo benissimo, quando mi lanciai lungo la linea del Rainbow Bridge senza guardarmi indietro, respirando il vento e la polvere.
«Subaru! Il ponte sta per crollare!»
Perché, in quel momento, di morire nel tentativo non importava neppure a me.
Il ponte oscillò sotto i nostri piedi come una gigantesca altalena: vidi i cavi saltare come ossa, vidi Subaru stringere le dita contro il soprabito dell’assassino fino a far sbiancare le mani.
Stavo per fargli una cosa atroce.
Non stava a me.
Semplicemente non ne avevo il diritto, e arrogarmelo era un castigo di cui mi sarei sobbarcato ogni singola frustata, perché lì, sopra a quel ponte, mi sembrarono pazzi e sbagliati tutti e due, anche se dividerli non sarebbe certo stato un migliore esempio di giustizia.
O forse, mi dissi, inginocchiandomi dietro al suo trench-coat macchiato di sangue fino alle spalle, il pazzo ero io, chissà.
«Subaru!» dissi, e affondai le unghie nella stoffa fino a sentirle nella curva della sua spalla. Non mi rispose, ma era vivo – se ‘vivo’ si poteva chiamare un uomo di cui riuscivo a udire i singhiozzi anche attraverso il rombo del ponte.
Qualcosa cadde nell’acqua come un corpo morto, sollevando schizzi taglienti come una pioggia di proiettili. Li sentii cadere sul viso come una sferzata, e un’ondata di rabbia mi rivoltò lo stomaco come un attacco di nausea.
Ricordo di averlo strattonato talmente di forza verso di me da avergli tolto il Sakurazukamori dalle braccia, e ricordo la polvere che ci ricopriva come nebbia, e che, mischiata all’acqua, ci cadeva in faccia in una poltiglia grigia e salata. La sentivo bruciare e incrostarsi attorno alle ciglia, la sentivo in bocca, in gola e sulle mani, ed ebbi davvero l’impressione che lui non la sentisse affatto, o che stesse aspettando di trasformarsi in una statua sotto quella patina di pietrisco e di sporco.
Lo afferrai per un braccio e digrignai i denti fino a sentirli stridere.
«È davvero questo quello che vuoi?!»
In mezzo a tutto quello schifo, io non vedevo che il verde dei suoi occhi, li vedevo non fare il minimo guizzo, e mi dissi che sì, l’idiota l’avrebbe voluto – l’aveva voluto da sempre, e non c’era niente che io potessi fare. C’era del rosso sotto le sue ciglia, ed era vivo come una piaga. E forse fu questo – sapere che l’unica cosa viva del suo viso fossero i segni che il pianto vi aveva scavato – a permettermi di chiederglielo con tanto disgusto.
Non aspettai che mi rispondesse: prima che potessi pensarci, avevo una mano alzata in aria; l’attimo dopo, aveva lasciato un segno rosso sulla sua guancia, scacciando pallore, fanghiglia e polvere. Pensai addirittura di avergli rotto il collo, ma non in quel preciso momento: allora, semplicemente lo presi per l’abbottonatura dell’impermeabile, con il sangue del Sakurazukamori che mi si infilava nelle unghie, e tirai.
Tirai e tirai guardando quel poco di Arashi che riuscivo a vedere, imponendomi di mantenere la presa senza girarmi: sapevo che, se non l’avessi fatto, Subaru sarebbe tornato indietro, laddove ‘indietro’ significava verso l’ultimo guizzo di soprabito del Sakurazukamori, nel vuoto tempestato di detriti che si stirava fra cielo e mare.
E non mi illusi – mentre afferravo anche lei come se fosse stata il nastro di un traguardo – di averlo davvero salvato. Neppure per un istante.

*

Arashi entrò nella stanza per prima, scivolando fra l’ombra del corridoio e quella della porta socchiusa, con il timore che le si infilava nelle giunture delle ossa mentre stringeva la presa sul vassoio.
«Subaru-san, credo lei debba mangiare qualcosa.»
Si sentì incredibilmente stupida: Subaru era ancora seduto su quella poltrona, e sembrava non essersi mosso da quando la prima stella dopo il tramonto si era accesa nel cielo.
Non aveva ancora parlato, né tantomeno si era cambiato, perciò Arashi fece un salto – minacciando di rovesciarsi addosso tutto il misoshiru – quando lo sentì, con la voce roca di chi non aveva detto una parola da ore, e che nulla aveva del timbro chiaro e – in tutta sincerità – raggelante del tredicesimo capo della famiglia Sumeragi.
«Lascialo pure lì.»
Arashi obbedì in silenzio: se mangiare significava scegliere di vivere, nessuno, in quella stanza senza luce, avrebbe mai potuto vedere il cibo che portava alla bocca.
«… Subaru-san, mi disp—»
«No.»
Sotto il chiarore pallido delle stelle che filtrava dal panno pesante di una tenda, Subaru fece un cenno che sembrò luccicare come lo splendere di una medaglia d’argento.
«È a me che dispiace, Arashi-san.»
«Che colpa pensa di avere?» chiese lentamente lei, fissandolo con uno sgomento che mai si sarebbe detta avrebbe potuto mostrare a un estraneo, figurarsi al più potente onmyouji del Giappone.
«Ho costruito davanti ai vostri occhi una persona che non è mai esistita. Un Drago del Cielo che erige una barriera per salvare la Terra, che strappa a mani nude un ragazzino da una spirale di sogni senza fine, che ha un nemico da combattere e un desiderio da realizzare. Che è un Sumeragi.»
Suo malgrado, Arashi curvò le labbra in un sorriso amaro.
«Credo che l’ultima resti una verità inconfutabile.»
Solo ascoltandosi Arashi si rese conto che stava fissando Subaru da lunghi minuti, e che lui, con la testa appena china a contemplare il denim chiazzato di sangue, non se n’era avveduto affatto.
Quando l’onmyouji sollevò finalmente lo sguardo, si premurò di farlo lentamente, con una solennità che le fece ghiacciare il sangue: da sotto l’orlo nero delle ciglia, spuntarono, quasi all’improvviso, il riflesso chiaro dell’iride vuota e il verde brillante e pungente di quella che ancora vedeva, il colore e la lucentezza esasperati dal pianto.
Arashi si affrettò ad abbassare il proprio, come se l’esame attento e impietoso di Subaru le stesse allacciando un peso attorno al cuore.
«Dimmi, sei innamorata di quel ragazzo?»
«I-Io non—»
«Quando la mia barriera si sollevava, non lo faceva certo per proteggere la Terra» sentenziò Subaru gelidamente, prima di piombare in un eloquente silenzio, e lasciare che la ragazza intuisse il resto, per risparmiargli lo scotto di dar voce a una verità che nessuno sentiva il bisogno di ascoltare. La guardò mordersi il labbro.
«Non sono mai stato il più esemplare dei Draghi del Cielo, e la ragione che mi rendeva tale era la meno indicata possibile. Eppure sono andato avanti, incontro al mio destino. Prega che la tua sia una ragione quantomeno più valida della mia, Arashi-san.»
Incontro al mio destino. Arashi incrociò le braccia attorno alle spalle, colta da un brivido di freddo: nessuno dei Sette Sigilli avrebbe mai parlato in quei termini, e lei non riuscì a reprimere l’impressione che Sumeragi Subaru le aveva fatto fin dall’inizio – quella di un uomo finito in uno schieramento per il senso del dovere che portava sotto la pelle, per il sangue che gli scorreva nelle vene, e perché, di qualunque natura fosse ciò che lo legava al Sakurazukamori, era qualcosa di inconciliabile e necessario come lo erano le facce della stessa medaglia, che mai e poi mai avrebbero potuto toccarsi.
«Cosa ha intenzione di fare, adesso?» chiese, senza necessità di una vera risposta: da sola, l’ovvietà della domanda trascinava con sé l’unica fra le possibili, e tentava di darle una prospettiva su quale dolore del loro leader avrebbero dovuto affrontare e guarire malamente nel periodo a venire.
Subaru prese un respiro, ma si rassegnò a tacere.
Arashi lo imitò, e gli indicò la porta chiusa con la coda dell’occhio.
«Gli si spezzerà il cuore.»
«Lo so» disse Subaru seccamente, con così tanta fermezza che Arashi si ritrovò a sgranare gli occhi, senza riconoscere, nella patina metallica che velava quelli del Sumeragi, quelli dell’uomo che aveva fatto da Kamui da fratello, da salvatore, e un po’ forse anche da padre.
Sembrava che il Rainbow Bridge continuasse a precipitare senza posa nel mare grigio d’autunno, nello specchio tondo delle sue iridi, in un’immagine che si ripeteva come un disco rotto.
«Ho passato venticinque anni della mia vita a subordinare le mie scelte e i miei desideri a quelli altrui, per un dovere a cui nessuno mi aveva davvero chiesto di adempiere. Non lo farò solo perché Kamui sia felice. Non stavolta. Non adesso.»
«Talvolta si cerca di rendere felici gli altri per dare sollievo a noi stessi…»
«Sì,» sbottò Subaru, in un incontenibile accesso di cinismo «era la sua battuta tipo.»
Arashi rimase in silenzio, e, con un sospiro, annuì, senza bisogno di spiegazioni ulteriori. Tutti e due rimasero in stato di ammutolita rassegnazione, le stelle che luccicavano beffarde attraverso la tenda.
«Fallo entrare.»
Gli rispose un lieve fruscio di capelli e ciabatte, mentre Arashi sgusciava via, esattamente com’era arrivata.

~

A/N 2 maggio 2010, ore 22:54. In tremendo ritardo e tutto, dico solo che la scena di ceffone!Kamui mi ha perseguitata per giorni, e che amo descrivere Subaru in relazione al mondo che ha attorno, per dimostrare che di relazione non ne ha affatto! Tutta per la mia Yuffie :*. Nel mio giapponese da matricola, “kanaenai” dovrebbe essere “non si avvera”, e dubito che sia un riflessivo. Qualcuno più dotto di me mi bacchetti, grazie XD.

Juuhachi Go.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *