[X, TYOB] Otherside

Titolo: Otherside
Fandom: Tokyo Babylon/X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Hokuto Sumeragi, la nonna, Kamui a buffo, gente originale
Parte: 1/1
Rating: R
Parole: 5393 (contatore di Landedifandom)
Note: per il COW-T, settima settimana, missione 6; AU, gore, angst, omosessualità implicita? È molto più gen del solito!

Otherside
[COWT #11] monachopsis

Monachopsis n. the subtle but persistent feeling of being out of place

I.

Santa Adelita, CA

Subaru era solito arrivare al cimitero a circa mezzora dalla chiusura, trascinando i piedi nell’erba del prato. Il completo, sgualcito e lucido d’usura sui gomiti, gli dava l’aria sofferente di un venditore di aspirapolveri. Mosse le dita nelle scarpe da ginnastica, come per assicurarsi che fossero ancora al loro posto, poi si liberò della giacca e la stese a terra, a mo’ di asciugamano. Aveva passato tutta la giornata in piedi, con la faccia costipata di neutra mestizia. Non che fosse l’allegria fatta persona, ma tendeva ad assorbire le emozioni delle persone che gli capitavano vicino – vive o morte che fossero – e ne ricavava, il più delle volte, un gran mal di testa e il magone in gola, per non parlare della camicia e della fodera di raso della giacca chiazzate di sudore sotto le ascelle. Chiuse gli occhi e si lasciò andare sull’erba, il vento del crepuscolo che gli passava lunghe dita leggere nei capelli. Sorrise, in un movimento quasi involontario della bocca, ascoltando con orecchio distratto i primi grilli che si avventuravano fuori dalle tane. Dopodiché, si tirò a sedere a gambe incrociate e cominciò ad accendere le candele che si era portato dietro, disponendole col tocco di chi stesse maneggiando una pila di mattoncini di legno. Le adocchiò, accigliandosi appena nel constatare come tutte avessero forme, colori e lunghezze troppo diverse fra loro, cosa che non giovava alla precisione che riservava, di norma, al lavoro, e che ci teneva a dimostrare pure nel privato, quando si prendeva cura dei suoi, di morti: la nonna avrebbe certamente avuto da ridire al riguardo. Il lumino più allampanato, di un rosa fluorescente, recava un’effigie di Santa Muerte tutta incoronata di fiori, in un’allegra parodia della corona di spine di Gesù. Inarcò un sopracciglio: chissà quando e dove l’aveva comprata – quella variante non s’incrociava molto spesso. La incastrò fra le altre, ai piedi della lapide, frugò i pantaloni in cerca dell’accendino e accese, uno ad uno, tutti gli stoppini. Mentre una nuvola di zanzare e moscerini si lasciava attirare dal chiarore delle fiammelle, Subaru si lasciò sfuggire un altro sorriso nel notare che la candela spiccava, nel mucchio, di una luminescenza tutta sua: Hokuto-chan ne sarebbe stata sicuramente felice. In ginocchio sull’erba, lucidò, in un gesto istintivo d’affetto, le lettere dorate della lapide, poi strappò la gramigna che cresceva alla base, torcendola fra le dita come una ciocca di capelli. Con la nonna, invece, osservò una misura di rispetto più formale: emulando i gesti dei suoi antenati, accese un gruzzolo di bastoncini d’incenso e s’inchinò in una preghiera. Terminata l’orazione di rito, il vento della sera era diventato freddo, ma Subaru realizzò di non aver voglia di tornare a casa: il frigo era vuoto, la caldaia ci avrebbe messo un’ora a scaldare l’acqua per il bagno. Il pensiero fece sì che tutta la stanchezza della giornata gli piombasse addosso come una pila di vocabolari. Sbadigliò sonoramente, mentre la ragazza della tomba di fianco, iridescente alla luce della luna, si stiracchiava godendosene il primo riverbero.
Le lapidi di sua nonna e sua sorella, però, rimasero silenziose.
Subaru, rassegnato, fece spallucce.
«Ah, ragazze, sapeste che giornataccia, oggi…»
Quando parlava con loro, passava al giapponese senza nemmeno pensarci. Il pensiero che nessuno più potesse comprenderlo quando ne faceva uso non lo sfiorava nemmeno – era certo che entrambe, ovunque fossero, erano in grado di ascoltarlo. Non faceva un gran lavoro, nel tentare di evocarle, ma lo strascico del loro affetto lo sentiva ancora – con due polpastrelli, gli pizzicava una corda di carne rossa in fondo al cuore, fino a farlo quasi piangere.

*

La giornata era cominciata nel migliore dei modi.
Era arrivato per il turno di giorno alla Carson Funeral Home per trovarne l’insegna imbrattata di quello che, nella migliore delle ipotesi, era residuo ectoplasmico: succedeva, e non di rado, in quei posti che erano sul limine fra la vita e la morte. Erano cose che facevano parte del normale ciclo vitale del cosmo, certo, ma, per qualche ragione, toccava sempre a lui ripulire quella schifezza viscida dagli svolazzi di ottone cesellato.
Storse il naso: un’eccedenza di quelle proporzioni, poi, non era mai un buon presagio, soprattutto a quell’ora del mattino.
Quale uomo di rara previdenza, Subaru non aveva l’abitudine di ignorare qualsiasi avvisaglia di attività paranormale, così, quando a mezzogiorno la lavastoviglie della cucina dipendenti prese a vomitare sangue e urla demoniache – s’era già approntato del sutra adatto, incurante del terrore di Shirou-san, che piangeva scappando qua e là per tutto l’open space, e fortificato dalla filosofica consapevolezza che il resto dell’orario lavorativo non avrebbe potuto che peggiorare.
Ad onor del vero, poche delle cose che accadevano nel perimetro di Santa Adelita potevano considerarsi un buon presagio, come tutte le cose che si verificavano, del resto, nel centro di un pentacolo rovesciato. I suoi poli di forza erano ciò che aveva attirato Casa Sumeragi fino in America, dopo gli anni Settanta: una delle punte poggiava nel centro di Santa Cruz, ma neppure la scienza millenaria del Clan era riuscita, in fin dei conti, a spiegare Ed Kemper.
Spesso, l’influenza del Pentacolo era talmente forte da causare piccoli blackout in città, se non addirittura significative impennate del tasso di suicidi e di manifestazioni spiritiche della più varia natura, ma Subaru era nato per contrastarne gli effetti, motivo per cui, votatissimo alla causa millenaria dei suoi antenati, si adoperava a tenerli a bada meglio che poteva, con qualche incantesimo di routine, che era, tuttavia, viziato di qualche punto debole, a seconda di dove spirasse il vento. L’aria, in effetti, era talmente elettrica, quel giorno, che il suo formicolio lo distrasse, facendogli ordinare la partita di corone sbagliate per il signor Kempton, i cui familiari si videro recapitare folte corone funebri composte di girasoli semoventi. Le loro comprensibili rimostranze lo fecero giungere alla veglia funebre di casa Bugayong spaesato e in notevole ritardo, ma nessuno dei parenti, tutti presi dal loro dolore, fece davvero caso a lui. Grato alla sua buona stella, Subaru sgattaiolò a fare la sua parte, servendo caffè e biscotti, mentre spiava, di sottecchi, il libro degli ospiti. Nel suo catafalco, pieno di fiori variopinti, la matriarca di casa riposava quieta, con le mani incrociate sul petto e un’espressione curiosa, quasi divertita. Subaru annusò l’aria: a dispetto del solletico che sentiva corrergli lungo le vertebre, la vecchina era passata oltre, il che significava che avrebbe trascorso l’intera occasione in qualità di semplice direttore delle pompe funebri, inspirando con sollievo l’aria greve di polline e di lacrime. Quasi gli dispiaceva: i morti restavano nei paraggi quando si portavano addosso una zavorra che li mescolava ai vivi come un castigo, ma la loro lingua, sottile e immateriale, fatta di rimpianto talvolta sommesso, talvolta rapace, Subaru l’aveva sempre parlata più volentieri di quanto gli piacesse ammettere. Dall’altra parte, tutti guardavano la vita con la nostalgia compiaciuta con la quale si fissa un vecchio amante, tributandogli il giusto rispetto. Persino gli spiriti più violenti, mascherati di putredine e di sangue, vivevano la loro maledizione con un trasporto che Subaru arrivava quasi ad invidiare.

II.

«Perché non riesco a vederla?»
«Non fartene un problema a quest’ora della notte» gli rispose Hokuto-chan, sorridendo, mentre gli passava la spazzola fra i capelli. Il tono era leggero, ma gli occhi erano gonfi di pianto. Persino la manicure non era perfetta come l’occasione avrebbe meritato. Il severo tailleur nero che sua sorella aveva indossato al funerale era stato appeso alla gruccia, spiegazzato dalle fatiche della giornata – aveva trasformato in una donna adulta una ragazzina di vent’anni, che adesso cercava, invano, di consolare un bambino di dieci.
«Pensi che la nonna si senta sola, sottoterra?»
«No, tesoro mio. Da quel che ci insegnano, nessuna anima rimane davvero sottoterra.»
«Ma deve essere così,» obiettò Subaru, tutto ragionevolezza «altrimenti potrei vederla, esattamente come vedo tutti gli altri…»
Hokuto-chan rise.
«Dalle un po’ di tempo, Subaru, è nell’aldilà da meno di ventiquattro ore e già vorresti richiamarla da questa parte?»
«Forse non ci vuole più bene.»
Con la scusa di chiudergli i bottoni del pigiama, sua sorella lo abbracciò stretto.
«La nonna era tanto malata, non le sarebbe mai venuto in mente di andarsene di sua spontanea volontà… per il resto, vorrei avere tutte le risposte che mi chiedi, ma—»
Lui non le lasciò terminare la frase. Si voltò per stamparle un bacio sulla guancia e ricambiare il suo abbraccio.
«Lo so,» borbottò nel suo collo «basta che non mi lasci mai solo.»
«Mai, ometto mio, te lo prometto» sussurrò lei, scompigliandogli i capelli e prendendoselo fra le braccia, in una pallottola di flanella colorata. Si addormentarono così, nell’enorme letto della nonna, ascoltando il silenzio di quella casa gigantesca, finalmente libero dell’odore di miseria e di malattia che Hokuto-chan si era portata a casa per mesi. In realtà, sapevano entrambi che il lutto avrebbe reso leggero il sonno di entrambi – si svegliarono più e più volte, spiandosi a vicenda nel buio, un po’ ridendo e un po’ piangendo, fino a che il mattino non li prese per sfinimento.

*

Subaru aveva appreso fin da subito che un altro mondo, di materia più labile e oscura, viveva fianco a fianco con quello dei vivi – se i suoi antenati riuscivano a percepirne la profondità solo a piccoli sprazzi, quando solo i fantasmi più prepotenti si manifestavano davanti ai loro occhi, Subaru, invece, poté rendersi conto, prima ancora di qualsiasi formale addestramento, che il mondo degli spiriti era ovunque, intento a vivere la sua vita parallela. Ognuno di loro si struggeva nel tentativo di trovare quella faglia che permettesse loro di scivolare inosservati nel mondo dei fatti-di-carne. Molti – più di quanti si potesse immaginare – vi riuscivano davvero, ma pochi influenzavano con la loro presenza il mondo materiale.
All’inizio, Subaru aveva considerato le sue abilità con filosofica curiosità – giacché le aveva, tanto valeva esplorare con cautela quello che avevano da offrire, e piegarle alle esigenze del clan, che gli imponevano di mettere al servizio del bene della comunità duemila anni di sciamanesimo. La nonna lo aveva sempre esortato alla massima ponderatezza e lui era sempre stato un bambino ubbidiente, al punto da sacrificare ogni avventatezza – persino sua sorella, dall’alto della sua anzianità, lo prendeva bonariamente in giro, perché uno sciamano fifone mai si era visto.
Ogni tanto, però, Subaru s’era tenuto per sé qualche segreto – qualcuno degli spiriti bambini, che vagavano sulla terra in cerca della loro infanzia perduta, si era messo a giocare con lui sulle altalene, quando era piccolo, e lui ne aveva accettato di buon grado la compagnia, a discapito di quella dei suoi compagni di classe e del loro sangue caldo. Dopotutto, bisognava regalare il proprio tempo a chi più ne avesse bisogno, anche correndo il rischio di incorrere nei rimproveri della nonna.
Il loro dolore e il loro bisogno d’amore lasciavano nel suo cuore un’impronta profonda, che tuttavia non interferiva con il suo quotidiano. Quando la nonna si era ammalata, però, le cose erano cambiate. La chemioterapia le aveva assottigliato, rendendola un fodero di cuoio duro, troppo angusto per contenere il nucleo arioso e incandescente dell’anima. Certe volte, quando andava a trovarla, gli bastava sbattere le ciglia per vedere la frontiera del mondo dei fatti-di-aria mescolarsi come colore ad olio a quella dei fatti-di-carne. Una sera, l’uno si amalgamò nell’altro e di lei non rimase che un unico blocco di carne gelida e grigiastra, eviscerato della donna che l’aveva abitato per quasi novant’anni.
Sordo alle proteste di Hokuto-chan, che cercava di mandarlo via dalla stanza, per lavare e vestire il corpo della nonna, Subaru rimase acquattato in silenzio ai piedi del letto, con il cuore che gli sfarfallava in gola: da un momento all’altro, non appena l’ultimo refolo di sangue si fosse asciugato completamente in quelle vene esauste, l’anima della nonna sarebbe apparsa in controluce, frastornata e impaziente di trovare la propria strada, conservando un aspetto quanto più simile possibile alla sua forma terrena – i morti, del resto, si mostravano per ciò che ricordavano di essere – ma senza la sofferenza incisa a deformarle la faccia. Gli sarebbe apparsa come la nonna e basta, sottile e luminosa, come lo era stata in vita.
Hokuto-chan piangeva in silenzio, tenendosi il viso fra le mani – era un pianto liberatorio, quasi di sollievo. Subaru si alzò per andare a rincantucciarsi contro di lei, circondandole la vita con le braccia.
«Non ti preoccupare, Hokuto-chan.»
«Non sono più preoccupata, tesoro mio» gli rispose lei, con voce un po’ stridula, mentre tirava su col naso. Cercò di tenerlo stretto a sé, aspettandosi di vederlo scoppiare in lacrime da un momento all’altro, ma Subaru manteneva il suo viso imperturbabile d’angioletto – i grandi occhi verdi scintillavano giusto un po’ più del solito, e tutto il corpicino smilzo si muoveva, vagamente irrequieto, come a voler resistere al suo abbraccio. Infatti, dopo un paio di minuti, si separò da lei e tornò a sedersi dov’era prima, sullo sgabello di plastica traballante che lo ospitava ormai da ore.
«Non sei stanco?»
«No» rispose lui, docile, quasi allegro.
Si mise più comodo che poté, in attesa.
La stanza d’ospedale fu ben presto affollata di gente – la nonna venne pettinata, truccata, vestita, ricoperta d’incenso, fiori e preghiere.
Dopo averle passato lo smalto rosato sulle unghie delle mani, Hokuto-chan le prese fra le sue come fossero una tavolozza d’artista, soffiandoci sopra con l’alito affranto e tiepido di chi avrebbe voluto riportarla in vita. Quando si fu rappreso, gliele incrociò con cura in grembo – mezzo intontito di stanchezza, Subaru captò un mormorio di sutra e comprese che sua sorella, da sempre contraria alle imbalsamazioni, aveva raggelato il corpo con la magia.
La luce dei lampioni prese a tingere di bianco e d’arancio le ombre della sera – impaziente, Subaru andò a passeggiare lungo il corridoio. Vecchi e bambini, opalescenti come se avessero strappato la pelle alla luna, sgattaiolavano furtivi fuori dai loro corpi umani, ciabattando senza rumore fuori dalla vita, a decine, guardando con tristezza le facce lunghe e sconsolate dei parenti assiepati attorno ai loro letti. D’improvviso, gonfiò il petto e trattenne il respiro: sapeva che la nonna non sarebbe arrivata.
Si fece paonazzo e si scoprì arrabbiato: una lacrima gli rotolò lungo la guancia.

*

«Buongiorno, Coso!» lo salutò sua sorella, intenta a spadellare davanti ai fornelli. Subaru annusò l’aria con interesse, prima di ricambiare e dirigersi senza indugio verso il frigorifero. Con un’esclamazione di trionfo, estrasse due generose porzioni della torta di compleanno della sera prima, apparecchiò per Hokuto-chan e sedette contento a sbocconcellare quel che restava di un monolitico 18 di cioccolato.
«E le uova?» obiettò lei, delusa, tendendo l’orecchio nel sentirlo masticare in visibilio.
«Nello stomaco è buio!» sentenziò lui, mentre lei alzava gli occhi al cielo e portava uova e pancetta a tavola. Inarcò un sopracciglio e, con un sospiro colpevole, decise di optare anche lei per la fetta di dolce che luccicava del suo strato di glassa.
«Che c’è?» borbottò, bellicosa, mentre intercettava la luce divertita negli occhi di suo fratello «È al latte, vuoi che vada a male?»
Subaru alzò le spalle, sforzandosi di non ridere. Hokuto-chan gli lanciò uno strofinaccio in faccia.
«Vai a lavoro adesso?»
«Sì, devo aprire io lo studio stamattina, e se continuo di questo passo farò tardi…» disse, distratta, mentre sfilava le ciabatte. Fissò di sottecchi il buco nell’alluce dei collant, ripescò i tacchi in vernice nera che aveva lanciato sotto al tavolo, si spolverò il tailleur con le mani, mandando via un gruzzolo di briciole inesistenti, e si avviò fuori dalla portafinestra della cucina con le chiavi della macchina in mano.
«Uh, Hokuto-chan? Ho un colloquio di lavoro fra mezzora, ma ti prometto che laverò i piatti appena torno!»
«Un colloquio? E dove?» fece lei, di rimando. Solo in quel momento si accorse che, effettivamente, Subaru era tirato a lucido come non faceva praticamente mai.
Distratto da un fantasma che usciva fuori dall’impianto di irrigazione acceso, Subaru impiegò un attimo di troppo per rispondere.
«LaCarsonFuneralHome» buttò fuori tutto d’un fiato.
«Comportati bene, con lui, ha trattato la nonna come una principessa!» lo ammonì lei, con studiata indifferenza «E stai attento… ultimamente scovi i fantasmi pure nello scarico del lavandino, non oso immaginare cosa tu possa trovare in uno showroom di catafalchi!»
«Boh, non so, quelli sono vuoti e freschi di fabbrica—»
«Ma i clienti finali no!»
Subaru fece spallucce.
«Farò attenzione» le concesse, in tono dimesso, per calmare le acque ancor prima che si agitassero.
«Ecco, bravo, non ti ho tenuto ben conservato per otto anni perché tu ti faccia consumare dagli amici dell’aldilà!»
«Te lo brucio, quel DVD!»
«Non ho alcuna intenzione di fermarti,» sorrise Hokuto, raddolcendosi «ma prenditi cura di te… circondarti di morte no ti fa bene, e non parlo dei tuoi poteri.»
Subaru si limitò ad indicare l’ora sul quadrante dell’orologio – sua sorella fuggì urlando.

*

Sul conto del signor Carson Hokuto-chan si era tutt’altro che sbagliata – per essere uno che si affaccendava coi cadaveri da quattro o cinque generazioni, aveva una faccia lucida, colorita, da cartone animato, e seppe subito apprezzare la dedizione con cui Subaru si gettava nel lavoro. Il test fondamentale ai fini della buona riuscita colloquio, quello della stanza in cui si occupava di imbalsamare i suoi clienti, fu superato senza alcun particolare intoppo: Subaru adocchiò il processo con espressione placida ed immobile, il che riassumeva tutte le qualità che il titolare stava cercando per sostituire il becchino, fuggito dopo un esaurimento nervoso a fronte di una decina d’anni di lavoro.
«Lo capisco, poveraccio,» sentenziò il signor Carson, scuotendo la testa «la regola d’oro è il distacco, ma nessuno riesce a mantenerlo costantemente. Prima o poi mollano tutti, a meno che non si tratti dell’attività di famiglia…»
Il lavoro pagava bene e vantava la sua lunga fila di candidati, ma al signor Carson bastò un’occhiata per capire che Subaru aveva la fibra dura – gli strinse la mano guardandolo dritto negli occhi.
«Si comincia domani mattina, signor Sumeragi.»

*

Fece presto ad accorgersi che qualsiasi esorcista avrebbe dovuto frequentare un’agenzia di pompe funebri per almeno sei mesi nel corso di tutta la propria vita. Certo, il suo, più che un mestiere, era dettato dal sangue che portava nelle vene: non c’era nulla che potesse fare per evitare che le presenze lo prendessero per carta moschicida, così si era convinto di star svolgendo una specie di part-time – becchino di giorno ed esorcista sempre, come una specie di Clark Kent venuto male. Non aveva previsto, però, l’accuratezza delle supposizioni di Hokuto-chan: la Carson Funeral Home, accidenti a Santa Adelita e al suo pentacolo, brulicava di spiriti. Si accalcavano nelle bare, nel forno crematorio, nella macchinetta del caffè, negli sportelli della credenza, a una tale frequenza che, dopo la prima settimana, Subaru dovette cominciare a condire la propria mug con un pugno di sale grosso: il fantasma di una bambina di quattro anni l’aveva presa a rifugio, e singhiozzava penosamente ogni volta che Subaru si accingeva a riempirla d’acqua bollente.
Divenne presto evidente anche al signor Carson che le affermazioni di Subaru fossero assolutamente veritiere (nonché atte a spiegare il perché delle urla terribili che udiva in lontananza ogniqualvolta sfoderava la stilografica dalla custodia nella scrivania), e che assorbivano gran parte del suo lavoro di assistente. Quando, un pomeriggio, il ragazzo si trovò a dover esorcizzare un nonnino ottantenne che protestava la bruttezza del suo elogio funebre, impiegando a tal proposito gran parte della cerimonia, il signor Carson gli propose, per scherzo ma non troppo, di farselo fatturare come servizio aggiuntivo, un po’ come quelle lavanderie che facevano anche servizio di riparazioni sartoriali.
E Subaru, con un gran sorriso, accettò.

*

Tornando dal lavoro, sotto la doccia, poteva quasi vedere la patina lattescente del residuo ectoplasmico sciabordare nell’acqua, fino al sifone di scarico. Emanava un lieve profumo di rose – alcune religioni affermavano che simili profumi fossero prerogativa dei cadaveri incorrotti dei venerabili e dei santi, ma la sua opinione professionale stava diventando sempre più cinica: era il profumo con cui i fatti-di-aria tentavano di irretire i fatti-di-carne, come i pesci attirati all’amo, per ghermirli da un mondo all’altro, senza cattiveria se non quella del loro struggimento. Prima o poi, la scia della loro crisalide che si portava fin dentro casa l’avrebbe ricoperto come una crisalide di silicone soprannaturale, togliendogli il respiro dalle narici. Poco male: gli vennero in mente l’agenda vuota, il cellulare sempre spento – il brusio del mondo dei vivi conservava per lui ben poche attrattive. Le uniche che gli venivano in mente senza indugio riguardavano il tenerne intatti i confini, per una vocazione cavalleresca che solo il cognome da sciamano poteva giustificare, e il pensiero di non poter lasciare solo sua sorella. Il resto, esposto com’era a tutti i dolori del cosmo, che mai avevano fine, gli sembrava un’inezia di poco conto, un batuffolo di polvere sul tavolo dell’universo.

*

«Sai che ti dico, forse ce li ho davvero, gli amici dell’aldilà!» esclamò, ridendo, indicando il tesserino di direttore che gli luccicava sul petto. Hokuto-chan rise assieme a lui, ispezionando con aria divertita i documenti che conferivano a suo fratello la titolarità della Carson Funeral Home – il vecchio proprietario, senza figli, se l’era cresciuto abbastanza da poter decretare di lasciarla in mano ad un giovane imprenditore competente, che, fra l’altro, era in grado di offrire un pacchetto servizi talmente esclusivo che nessun altro avrebbe potuto mai replicarlo.
«Promettimi che assumerai qualcuno che ti faccia da assistente, non puoi passare coi morti – mobili e immobili – tutta la giornata.»
«Te lo prometto, Hokuto-chan. Fammi solo fare qualche settimana di rodaggio, ho un ragazzino in prova, Kamui. Shirou Kamui. Vediamo come se la cava.»
«Va bene» capitolò lei, scettica. Si alzò dal divano, schioccandogli un bacio rumoroso su una guancia, poi andò a prendere le chiavi della macchina.
«Non aspettarmi alzato, mi raccomando!»
Con la faccia tutta spennellata del suo rossetto, Subaru la salutò sghignazzando.

*

Quando venne chiamato d’urgenza, si era effettivamente appisolato sul divano, la ciotola di popcorn capovolta sul pavimento – gli fu necessario qualche minuto per comprendere che Hokuto-chan non sarebbe mai tornata, accartocciata in un rampicante di lamiere, ma seppe fin dal primo istante che sarebbe stato suo filiale dovere ricomporla.
Shirou gli rispose a telefono in un mezzo sbadiglio: pur dubitando che il neoassunto possedesse il fegato di seguire tutte le sue istruzioni, dovette ricredersi nel momento in cui ritrovò Hokuto-chan sdraiata sul tavolino di metallo del laboratorio di imbalsamazione.
L’aveva strofinata d’acqua calda e sapone come una neonata. Il suo pallore azzurrino, sotto la lampada al neon, la faceva somigliare più che mai all’involucro di cera che l’aveva gelosamente custodita, e da cui Hokuto-chan s’era districata controvoglia.
Si sentì tornare bambino.
«Grazie, Shirou-san.»
Per la prima volta, dopo anni e anni di esperienza, un conato di vomito gli salì alla gola, lavandogli via la vita dalla faccia. Neppure vide il secchio di metallo che il ragazzo gli aveva messo sotto il naso.

III.

Il quinto giro di caffè non fu in grado di risvegliare casa Bugayong dalla stanchezza, nonostante tutti i suoi eroici sforzi. Le nipoti della signora, sedute a lati del catafalco oramai chiuso, dormivano sulle sedie, tutte scomposte, come due secondini scansafatiche. Solo i bambini più piccoli, palesemente caricati a pile e impermeabili al lutto e ai suoi dolori da adulti, continuavano a vorticare come trottole da un gioco da tavolo all’altro, rimpinzandosi di biscotti, urtando mobili e fiori nelle loro corse. Nessuno aveva più la forza di sgridarli. Subaru stesso, oltretutto, era più o meno vigile solo grazie al rumore della pendola. Uno strano senso di oppressione gli stava addosso come un’incudine, l’odore di marcio dei fiori quasi lo istupidiva. Verso le sei del mattino, i parenti salutarono con intimo sollievo l’arrivo del carro funebre. Lui non fu da meno – andò in bagno per stiracchiarsi e lavarsi la faccia, accettò una tazza di tè e fece un ultimo giro di ricognizione del salotto, per assicurarsi che tutto fosse come doveva essere e che non vi fosse alcun bisogno di qualche purificazione preventiva. Ad un tratto, si accorse, con un fremito di orrore, che i vasi di fiori gli sembravano meno folti e colorati rispetto alla sera precedente. Si accigliò, ma decise, sbadigliando, di non potersi fidare dei suoi occhi, in quel momento, così se ne andò a casa, accordandosi con la figlia della defunta per le esequie.

*

Fu proprio la voce della sua cliente a svegliarlo, dopo due o tre ore, in una telefonata composta di pianti e strilli – con enorme sforzo, Subaru riuscì a decifrare il problema, che lo costrinse a precipitarsi, in un fiume di improperi, verso la casa di una delle altre figlie della vecchia matriarca.
Varcata la soglia come uno dello SWAT, colse sul fatto le due nipotine più piccole – quattro e due anni – che stropicciavano fra le mani due mazzolini di margherite (Subaru riconobbe all’istante la refurtiva sottratta ai brutti vasi di casa Bugayong), il moccio al naso. Le loro urla riuscivano a stento a coprire quelle della loro madre: seguendo le indicazioni delle due piccole rapinatrici, Subaru andò in cucina, sorprendendo la giovane mamma infarinata (un sacco di farina era evidentemente esploso come una molotov) e inseguita dagli utensili della cucina, che, galleggiando a mezz’aria, avevano ormai vita propria.
«Non si preoccupi, signora! Le sue bambine hanno solo sgraffignato qualcosa dalla veglia… qualche spirito ne ha seguito l’odore fino a casa, ma è un esorcismo che non avrà conseguenze!»
Fu raggiunto da una pentola per cuociriso, scagliata dalla mano estremamente terrena della signora, cosicché, con un po’ d’incenso e qualche minaccia, si persuase a completare il rito necessario col massimo scrupolo e nel minor tempo possibile, assalito dal sospetto che la famiglia non avrebbe più richiesto, in futuro, i suoi servigi.
Sull’ultima sillaba del suo incantesimo, la cucina si placò all’istante – Subaru approfittò della calma stupefatta della padrona di casa e della sua prole per svignarsela alla chetichella e dormire qualche ora. L’esorcismo – borbottò, cinereo in viso – lo offriva la casa.

*

«Ehi, non male quel trucchetto, non mi esorcizzavano così almeno dal X secolo!»
Catapultato fuori dal suo pervicace tentativo di dormire, Subaru lanciò un urlo.
«Cosa cazzo–»
«Calma, calma!» gridò l’intruso luminescente, mettendo le mani avanti.
«Solitamente gli spiriti non mi parlano, quando–oh, insomma! Chi cazzo sei?!» e prese mentalmente nota di come l’essere svegliato di soprassalto da un’entità paranormale lo rendesse inusitatamente scurrile.
«Mi chiamo Seishiro, mi hai esorcizzato poco fa, ho seguito quei fiori da morto che erano lì dalla veglia, tu sei venuto a far pulizia, comprensibile, ma un po’ del polline di quei fiori ti è rimasto sulla giacca, perciò eccomi qua!»
Emanava un singolare profumo di fiori di ciliegio, misto a un sentore di libri vecchi e di muffa – Subaru lo guardò strabuzzando gli occhi.
«Che vuol dire, eccomi qua
«Che non hai palesemente l’esperienza necessaria a cacciarmi via!» spiegò, gioviale, lanciando occhiate curiose e disgustate al suo salotto «E credimi, hai urgente bisogno di un coinquilino.»
Subaru alzò gli occhi al cielo e se li stropicciò con le mani.
«Mi chiamo Seishiro.»

*

Qualunque cosa Seishiro fosse, era certamente il depositario di verità inconfutabili – gli ultimi dieci anni senza sua sorella s’erano impregnati di trascuratezza e di abbandono, senza contare lo stress di tutta la questione lavoro. Essere assediati da decine e decine di spiriti minori ad ogni ora del giorno e della notte non gli lasciava molto tempo, né per fare una vita sociale che aborriva, né per affinare a sufficienza le tecniche di esorcismo che gli avrebbero sicuramente agevolato l’esistenza. Mai, tuttavia, avrebbe pensato che le sue mancanze lo avrebbero portato a dividere le pareti di casa sua con una manifestazione ectoplasmica capace di manipolare gli oggetti, nonché appassionata (in ordine sparso) di cucina vegana, mah-jong e bricolage, tutte capacità che scongiurarono la morte di Subaru per inedia, solitudine e improvviso cedimento strutturale dei mobili de salotto, azzoppati da anni come vecchi cavalli.
Ponderò seriamente di aver toccato il fondo, in qualità di fatto-di-carne alienato dall’intero mondo terreno, quando, una sera, il fatto-di-aria suddetto si stese sul letto, di fianco a lui, rimboccandogli le coperte.
«Perché sei qui, Seishiro-san?» mormorò Subaru, guardandolo negli occhi e chiedendosi di che colore fossero stati un tempo. In un gesto istintivo, sollevò un braccio per scostargli i capelli dal viso, ma una fitta di rammarico gli ricordò che il tentativo sarebbe stato infruttuoso.
«Boh, mi sentivo solo.»

*

«Quindi tu riesci a vedere tutti i fantasmi che vagano sulla terra, nessuno escluso, ma tua nonna e tua sorella no?» chiese Seishiro-san, slacciandosi il grembiule e guardando con cupidigia la sua fetta biscottata. Si sedette a tavola di fronte a lui. Subaru annuì, rabbuiandosi.
«Forse sono passate oltre?»
«Ma sono qui, le sento.»
Lui si fece improvvisamente pensieroso.
«Possiamo fare un accordo.»
«Che genere di accordo?» chiese Subaru di rimando, un fremito elettrico – di paura, forse? – che gli crepitava nello stomaco.
«Io ho sempre fame… i tuoi poteri ti stressano, e per me sono come cheesecake alla fragola, una roba irresistibile. Se potessi cibarmene, tu saresti libero del tuo fardello e io sarei sazio.»
«Ma sei matto? Questi poteri sono tutto quello che ho, perché mai dovrei sottostare a un simile patto?»
«Perché, beh, nutrendomi dei tuoi poteri potrei riportare in vita tua sorella e tua nonna. Sai che potrei, sono potente e antichissimo, so che te ne sei accorto.»
Subaru rimase in silenzio.
«Allora? Affare fatto?» lo incalzò lui, con un bagliore d’oltretomba negli occhi.

*

Il gesso blu sarebbe probabilmente rimasto impresso ad uso dei posteri, considerò Subaru, mestamente, nel contemplare il pentacolo che aveva disegnato a fatica sulla moquette, mentre il suo inquilino gli svolazzava attorno, sovraeccitato, dispensando tutte le informazioni necessarie al compimento del rituale.
I primi sutra scaldarono l’aria di un fuoco che gli riempì i polmoni di una strana fuliggine – la gola gli si accese di una sete che gli punteggiò la carne di piaghe. Una neve biancastra di fiori cominciò a piovergli davanti agli occhi.»
«Seishiro-sa–»
«Mi spiace di averti mentito, Subaru-kun» fece lui, che spiaciuto non lo era affatto, mentre gli passeggiava attorno con aria compunta. I polpastrelli gli si erano tramutati in sottili rami carichi di fiori – se avesse potuto, Subaru avrebbe singhiozzato.
«Francamente, sono rimasto stupito da come tu abbia abboccato – sei forse il secondo, in due o tre millenni. Vedi che brutti scherzi ti fa, la solitudine? Non posso resuscitare proprio nessuno, ma posso placare le tue sofferenze: diventerai Linfa per i miei Fiori, peraltro di una qualità sopraffina. Mi rincresce essere arrivato a un compromesso simile con l’inganno, ma temo che noi demoni non conosciamo altra strada. È la nostra natura, ed è così che va la vita.»
Subaru, bocconi sul pavimento, sentì le lacrime gocciolargli di traverso fino alla punta del naso, in una scia muriatica che gli bruciava la pelle.
«N-non fa niente,» raspò, con l’ultimo filo di voce «è stato d-divertente stare con te… non avrei mai avuto un c-coinquilino in un’altra s-situazione. Il mondo dei vivi è sopravvalutato, non fa… non fa per me. Ma con te, mi sono sentito a casa… va bene così, ho trovato il mio… posto.»
Seishiro-san, oramai calcificato nel tronco nodoso della sua vera forma, lo guardò con tanto d’occhi, mentre il fatto-di-carne esalava il suo ultimo respiro di topolino.
Fuori dal suo controllo, le radici che lo ancoravano al suolo eruppero all’improvviso, sventrando la casa in mille briciole di legno e cemento, avviluppandosi fameliche attorno alla preda che avevano concupito.
Sul viso terreo, Seishiro poteva quasi scorgere un accenno di sorriso.
Con un rombo di terremoto, i fiori presero a sbocciare dietro le pareti, svellendo i quadri dai chiodi, in un frastuono di vetri infranti – Seishiro, però, quasi non ne udì il rumore. La fame gli era passata.
Per la prima volta, in quasi cinquemila anni d’indefesso esercizio, si sentì inspiegabilmente preso in giro.

~

A/N 28 marzo 2030 ore 18:03. Ok, questa fanfic nasce estremamente per caso, influenzata dai meravigliosi video del canale Ask a Mortician. In uno degli ultimi video sulle veglie funebri, qualcuno ha commentato che nelle Filippine si fa letteralmente la vegli al morto, e che non si può prendere nessuno degli oggetti o del cibo relativo alla veglia per portarseli a casa: il defunto incazzato potrebbe seguire i malcapitati fino a casa e maledirli. Ho ricamato un po’ sul concetto e ho fatto uno strano collegamento mentale sul prompt del COW-T che mi sono scelta, in concomitanza col fatto che sto guardando con mooolta calma Penny Dreadful – City of Angels, che mi ha a sua volta portata a incuriosirmi su Santa Muerte e a cercarmi degli articoli al riguardo. Purtroppo, avevo troppo poco tempo a disposizione per approfondirla come avrebbe meritato e come avrei voluto. Mi sono dovuta dare in autonomia un limite di parole per potermi mettere in condizione di finirla per tempo – così com’è, è quasi una specie di concept XD ma ho tutta l’intenzione di espanderla e riscriverla in futuro, perciò spero che vi sia garbata. Inutile dire che il posto me lo sono inventato, e chi scova le citazioni Disney vince il proverbiale limone XD.

A presto!

Juuhachi Go.

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