[Final Fantasy XII] A thousand years

Titolo: A thousand years
Fandom: Final Fantasy XII
Personaggi: Ashelia B’Nargin Dalmasca, Basch von Rosenburg
Parte: 1/1
Rating: R
Conteggio Parole: 6521 (LibreOffice)
Note: violenza, nsfw, poiler sulla fine del gioco, su prompt di diecisudieci

A thousand years
[diecisudieci – Basch/Ashe – 02. Blue – #07 Petrolio]

Riconobbe la trama di quelle antiche rune sulla punta delle dita.
La luce delle torce si nascondeva nei loro solchi consunti, nel loro racconto di un’intera dinastia, e il cuore le si strinse. Non tanto perché al cospetto della gloria di Raithwall, e nemmeno perché la storia di Dalmasca avrebbe potuto essere diversa, se solo avesse avuto un re al fianco del quale regnare.
Semplicemente, fra quelle camere di pietra dimenticata, Ashe riconosceva un pezzo della propria giovinezza – un altro – che non avrebbe mai più fatto ritorno.
Osservò l’incastro fitto degli altari, l’altissima volta istoriata, curva sotto il peso di quei mattoni millenari, punteggiati di un fioco scintillio di gioielli antichi come il mondo, saldamente incastonati nel tufo.
Inalò l’umidità e la sabbia dello Yensa – com’era penetrata fin lì? – l’odore dello zolfo e dell’incenso, del Mystes e della polvere, e prese a respirare piano, quando lo vide, il cuore che palpitava con forza contro la gabbia toracica, come una bestiola spaurita che cercasse di scappare.
Era meno trasparente dell’aria, ma i suoi occhi erano rimasti neri e penetranti come braci.
Più denso di un filo di fumo e meno vero di un sogno, ma fu abbastanza perché Ashe potesse assottigliare le labbra fino a farle sbiancare, mentre il braccio dell’apparizione si tendeva supplice verso di lei – la regina dalmasca si stupì di non udire il tintinnio dell’armatura, e si stupì di ricordarne ancora il suono esatto, dopo tutto quel tempo.
Colse il riflesso argentato di una lama, o forse di una colonna, dietro di lui, che rifletteva la luce di un sole che non pioveva, nelle profondità sotterranee del mausoleo.

Alla Tomba, Maestà.
Dove ho osato mandare tutto in frantumi.

Ashelia B’nargin Dalmasca si svegliò in un sobbalzo, con le mani contratte sulle lenzuola. Il vento del deserto, freddo come solo le notti del deserto sanno essere, s’insinuava fra gli spifferi sotto gli arazzi, e le gelava il sudore sulla pelle.
Il cuore le batteva furioso sui timpani, come i tamburi per un condannato a morte – le toccò fare due respiri profondi, prima di scivolare fra i cuscini con il labbro fra i denti.
Il sonno non sarebbe tornato.
Spostò le lenzuola damascate con un gesto infastidito, prima di mettersi a sedere e spostare finanche gli strati di velluto dal pavimento con la punta dei piedi. Sotto, il marmo freddo faceva rimbalzare dentro di lei una fastidiosa scossa elettrica in grado di ristabilire un contatto decente con la realtà.
Non seppe che, in quello stesso momento, un uomo, ad Archades, si era svegliato di soprassalto.

*

Era una di quelle notti talmente umide da risvegliare le più vecchie cicatrici e i peggiori incubi, realizzò Basch, non senza un pizzico di costernata vergogna, quando si ritrovò desto e vigile nella propria camera da letto, ad ascoltare il battito convulso del proprio cuore, le proteste delle varie ferite richiuse sul suo corpo attraverso gli anni, e il rombo dei tuoni che si avvicinavano dalla Prateria di Tchita.
Chiuse lentamente gli occhi – sua madre gli aveva insegnato che i sogni non andavano mai ignorati, specie quando presentavano contorni così netti – e tentò di riacciuffare alcuni frammenti di quel che aveva visto. Su tutto il resto, spiccava la schiena di una regina poco meno che ventenne (e Basch prese atto di come, ahimè, Lady Ashe gli fosse apparsa così perché, semplicemente, non aveva altra immagine di lei), e gli occhi scuri di un fantasma grigio e affranto che si tendevano a lei in preghiera.
In un moto di spavento, o forse di repulsione, Basch aveva tentato di afferrarla, ma era stato sbalzato fuori dal sogno, schiaffeggiato da uno sbuffo d’aria fredda che spirava dalla finestra.
Ravvolgendosi nelle spesse coperte, strofinò le mani sulle spalle, senza poter risparmiarsi di spiare un attimo il cielo, per controllare se ci fosse qualche stella oltre la foschia.
A Dalmasca doveva far caldo, adesso.
Decise di andare a chiedere un infuso a un guaritore.

Alla Tomba, Maestà.

D’altronde, non si incontravano tutte le notti sogni in grado di fare invocazioni in maniera tanto specifica.

*

«Vi vedo provato, Gabranth» constatò l’imperatore con un’occhiata sorpresa, quando vide il Giudice Magister fare ingresso nel proprio ufficio con non più di qualche minuto di ritardo rispetto al consueto, ma con un viso pallido e tirato che molti dubbi lasciava riguardo all’effettiva qualità del suo sonno.
«Mi avvicino ai cinquanta, mio signore» spiegò lui, esibendo un imbarazzato mezzo sorriso di scusa. Larsa sospirò appena.
«Ho saputo che avete richiesto i servigi di un guaritore, ieri sera…» esitò, incrociando cautamente il suo sguardo.
«Beh,» Basch tossì brevemente, e, in quel minuscolo frangente, vide frammenti di Vossler e del suo fantasma rivelarsi davanti ai suoi occhi con una chiarezza che lo fece rabbrividire «temo che l’appressarsi della stagione delle piogge non faccia esattamente bene alle mie cicatrici… Ho solamente tentato di far fronte a un sonno agitato.»
«Temo di non essere foriero di notizie granché confortanti per la vostra insofferenza al clima…» rispose semplicemente Larsa, tendendogli una missiva vergata con una grafia nitida e fine, il cui sigillo in ceralacca, già rotto dall’imperatore, mostrava le insegne della Chiesa Kiltia.
Inarcando un sopracciglio, Basch si arrestò nel bel mezzo di una rapida lettura, per riprenderla dal principio con attenzione, sillabando qua e là qualche parola a mezza voce.
«Lady Ashe si trova a Bur-Omisace?» si accertò, mostrando più sorpresa di quanto avrebbe ritenuto possibile, considerato che pronunciarne il nome ad alta voce dopo tutto quel tempo, con la stessa inflessione di sempre, fosse di per sé una sorpresa.
«Così parrebbe» annuì l’imperatore, con l’aria di chi non sapeva molto al riguardo «Non mi stupisce che non ve ne sia giunta menzione… sembra si sia trattato di un ciclo di eventi troppo rapido perché anche la nona divisione possa esserne venuta a conoscenza per tempo… Vari viaggiatori imperiali riportano vi sia arrivata sul far dell’alba, e questa missiva ufficiale ne è la conferma.»
«Qualunque cosa abbia da discutere con il Gran Kiltias, dubito si tratti di questioni di marginale importanza…»
«Nulla è marginale, quando si tratta di sogni, Gabranth…»
Basch dedicò particolare attenzione all’ultimo paragrafo, prima di volgersi di nuovo a Larsa.
«Non posso che darvi ragione, milord, se davvero il Gran Kiltias ha ravvisato la mia presenza nei suoi sogni… soprattutto quando i miei sogni stessi sono nitidi e precisi quanto potrebbe esserlo la realtà.»
Occorsero poche parole perché l’imperatore venisse sommariamente a conoscenza del contenuto delle immagini che gli avevano rubato il sonno, e ancor meno disposizioni servirono per arrangiare la sua partenza alla volta del Monte Sacro.

*

Per legittimamente sfumata che fosse la sua fede negli dèi secondo l’ingenuo immaginario canonico, Lady Ashe aveva imparato a dare il giusto peso a qualunque evento esulasse dalla sfera d’azione degli uomini – non per venerazione, ma per poter vagliare quanto potesse prevenire, riparare o controllare in caso di pericolo.
Fu quindi rapida e risoluta nel convocare a consiglio gli indovini di palazzo, saggi uomini di stirpe Garif che furono bene in grado di inquadrare il suo sogno come un evento assolutamente particolare.
«Sarebbe incauto soprassedere alle richieste di uno spirito, se espresse in un contesto così ricco di particolari… ma simili simboli lasciano presagire una portata più ampia, mia signora. Solo il Gran Kiltias può disvelare la trama di tutti i sogni del mondo.»
La regina non ebbe bisogno di ulteriori sollecitazioni, per partire in direzione di Bur-Omisace.

*

Non aveva perseverato ad allenarsi per dieci anni al limite delle proprie capacità fisiche perché un drappello di guardie dovesse accollarsi il compito di scortarla fra una distesa di ghiacci che lei rammentava più di tutti loro messi insieme, e di cui era ancora fiera di conoscere ogni crepaccio.
Questo fu, in sostanza, il secco e perentorio monito che il corteo ricevette dalla propria regina prima della partenza. Nessuno pensò davvero di opporsi, nonostante le personali riserve che arrivavano da Bhujerba, dato che il Marchese Ondore non mancò di ricordare a sua nipote che, l’ultima volta che le aveva attraversate, aveva comunque goduto dell’aiuto di amici fidati.
Come gran parte degli accorgimenti di cui la metteva a parte, anche questo rimase inascoltato.
Ebbe di che essere soddisfatta – nonché stanca e assiderata nonostante la pelliccia, il che le fece ricordare i vecchi tempi con un certo rammarico – quando poté osservare il primo, pallido avvento delle luci dell’alba sulle creste impervie e innevate delle Gole di Paramina. Stravolta dalla fame e dalla fatica, raggiunse la vetta del monte solamente prima di mezzogiorno, con una testardaggine capace di imporsi anche sulla peggiore tormenta di cui i kiltiani avessero potuto essere testimoni nel corso degli ultimi anni.
Le porte del tempio si spalancarono davanti a una donna dalle labbra bluastre, la pelliccia coperta da uno spesso strato di neve.
«Crisostomus, Vostra Grazia» soffiò, inchinandosi ai piedi del santo sognatore. Non intercettò per tempo il sorriso che ne inclinò le labbra, mentre l’Helgas – più giovane del proprio predecessore, senza dubbio – le faceva cenno di sollevarsi, i chiari occhi azzurri che scintillavano come ghiaccio fra le candele morenti e le lunghe ciocche di radi capelli biondi che si impigliavano fra le nappe decorative della tunica.
«Vi attendevamo con ansia, figlia di Raminas… o forse lo eravate la prima volta che giungeste qui, figlia di Dalmasca.»
Per un attimo, Ashe ebbe a credere che le ginocchia stessero per cedere sotto un peso ben più grave del freddo o della stanchezza – nostalgia, forse.
«Io sono qui per—»
Crisostomus la interruppe con un cenno.
«So perché siete qui. Avrò modo di spiegarlo anche a voi, quando sarete abbastanza in forze da permettermelo.»
«Non vorrei—»
«Riposate.»
Ashe si arrese con un sorriso – il colore delle sue labbra rendeva estremamente difficoltoso il rifiuto del calore di una pila di coperte e cuscini.

*

Si era svegliata a sera inoltrata, con il sudore che le scendeva dietro la nuca e la polvere della Tomba di Raithwall nel naso. Aveva preteso di mangiare lo stesso cibo dei profughi – se non altro per essere lieta del fatto che, da quando le donazioni dalmasche erano tornate a rimpinguare le casse kiltiane, anche ai profughi fosse stata nuovamente offerta la possibilità di un giusto apporto nutritivo – e sorseggiava la zuppa dalla ciotola, a piccoli sorsi. La neve cadeva fuori dalla finestra su un brullo chiostro interno al tempio, e Ashe chiuse di nuovo gli occhi per un attimo, concedendosi un breve respiro. Le immagini si rimescolavano di nuovo, più grigie e più confuse, ma in ognuna di esse poteva vedere un nuovo particolare.
E il respiro, appunto, accelerò per un attimo, quando s’avvide, finalmente, dell’unico barbaglio azzurro di tutto il sogno intero.
«Perdonate, Maestà… Sua Grazia desidera ricevervi nel Cerchio Sacro» mormorò una giovane kiltiana con un inchino.
Ashe annuì, per poi accingersi a seguirne i passi.

*

Per un attimo, l’unico rumore che attraversò la sala fu quello dell’acqua che gorgogliava placida sotto le foglie delle ninfee.
Basch, in fondo, supponeva di avere un’idea abbastanza precisa di cosa avrebbe trovato al proprio cospetto – era Ashe che, al contrario, non era stata in grado di dare ascolto a una timida vena di chiaroveggenza che era decisamente saltata fuori nella linea di Casa Dalmasca.
«Gabranth?» esitò, il fiato raggelato dall’aria che spirava dal portone socchiuso.
Basch alzò la testa, rispettosamente china al cospetto di Crisostomus, con uno scatto fin troppo repentino, in cui Ashe incontrò non solo il suo sguardo, ma anche l’ombra di un sorriso, di un velo di stanchezza, di gioia, di tempo perduto.
«Milady» si affrettò a esalare, con un cenno del capo e una mano sul petto – e, sotto, il cuore gli sembrò rintoccare contro il bronzo; perché quella donna non era davvero cambiata, se si escludeva il fatto che mai e poi mai avrebbe accettato di indossare indumenti caldi e consoni alla temperatura, fosse stato pure con un freddo talmente inumano.
«Leggo nei sogni, signori. Passati, presenti e futuri» scoccò l’eco della voce di Crisostomus dormiente, dritto nelle loro teste «non sarà d’alcun aiuto alla reciproca schiettezza, usare appellativi con cui potreste sentirvi a disagio.»
Ashe sorrise, e Basch lo riconobbe, quel sorriso, lo riconobbe su un viso che non aveva sorriso mai, e si sentì in obbligo di replicarne il sollievo, quando lei prese ad avanzare verso di lui.
«Basch» disse soltanto, lasciando che lui le prendesse la mano. Non badò molto a come lui si risolse a tenerla per un attimo, senza baciarla.
«Sì, signora» rispose lui «mai stato tanto lieto di esserlo, dopo così tanto tempo.»
«Ed è proprio di tempo, che i sogni hanno parlato ai miei occhi» rimbombò Crisostomus, ottenendo la loro incondizionata attenzione.
«Vedono una Ivalice nuovamente cangiante, figli miei, nel sogno che vi avvince a doppio filo… E ogni rivoluzione ha da nascere dalle ceneri più antiche del nostro cuore.»
Le parole si propagarono nette fino al cuore come una goccia d’acqua nel vuoto più assoluto, quando la regina e il Giudice si osservarono di nuovo – e stavolta si videro davvero, lessero il loro sogno specchiato sugli occhi dell’altro come la perfetta metà di un incastro incompleto, per poi tornare a fissare il Gran Kiltias con una consapevolezza tutta nuova, stranamente leggera, che li sorprendeva solo in parte.
«Ci sono cose che avete dimenticato. È tempo che ve ne riappropriate. Sapete dove andare – saranno i vostri passi a decretare il futuro di cui siete la chiave.»
Non ebbe modo, stavolta, di oscurare del tutto il sorriso che gli saliva alle labbra, mentre i due, inchinandosi fino a toccare il marmo del pavimento, lo udivano lasciare il salone.
Svaniti che furono i suoi passi, Basch si alzò in piedi, per fissare la regina che l’aveva preceduto.
Si attardò troppo a lungo in cerca di una parola: quando l’ebbe trovata, lei lo stava già abbracciando, con l’abbraccio genuino che non gli aveva mai elargito da bambina.
«Non potevate che essere voi, ad accompagnarmi in un simile viaggio.»
Basch sorrise da sopra ai suoi capelli, mentre ricambiava l’abbraccio con un impaccio che non poteva interamente derivare dalla pesantezza dell’armatura.
«Suppongo di sì, mia signora.»
«Sono contenta che siate qui» e questo era già un sussurro più basso, che subito si perse, tuttavia, nei primi rombi della tormenta.

*

Ripercorrere la gola in mezzo alla neve fu di gran lunga più facile, perché nel crepaccio stretto non erano più solo i passi dei lupi a seguirla, perché era semplicemente bello ricordarsi com’era, un tempo, sentire la sua voce come l’unico filo di realtà e calore in tutto quel gelo – e perché era bello immaginare, adesso che si era in due, che il fantasma desolato di un uomo che li aveva traditi non poteva davvero fare del male; non attraverso quello che in loro due sopravviveva del suo mondo e del suo ricordo, almeno.
In fondo, spesso, del passato non rimanevano che ombre.
E il freddo spaccò in due la coltre che racchiudeva un ricordo ben più amaro, tanto che il tempo smise di passare.

*

Nemmeno quando la neve sfumò nel soffocante profumo di miele che avviluppava l’intera Giungla di Golmore, Ashe fu in grado di arrestare il flusso di memorie che le vorticava nella testa, fra il frinire incessante che si alzava dalle corolle di grandi fiori olezzanti e violacei. Rimembrando i gesti di un tempo, senza nemmeno sapere, in realtà, dove questi gesti li stessero conducendo, si trascinarono imperterriti nel nugolo di insetti che si attaccavano loro alla pelle, affondando nel terreno molle e putrescente, respirandone i miasmi che saturavano l’aria, con la disperazione testarda di chi stava andando a recuperare le proprie radici attraverso mezzi di cui non aveva alcuna cognizione.
E, se davvero Ashelia sentiva di avere qualcosa da recuperare, ne avvertiva la presenza quando Basch la teneva per il gomito nel groviglio verde delle piante, non l’aveva mai fatto prima. Non lo sapeva neppure, lei, che quasi la stava toccando per accertarsi che fosse vera – segno che sì, il tempo era davvero passato. E quando crollarono l’uno addosso all’altra, in quella notte asfissiante, gonfi di punture d’insetto, Ashe se lo strinse addosso mentre tremava convulsamente di febbre, e delirava ad occhi chiusi, in qualche affannato respiro, incapace di avvertire lei che gli spostava i capelli bagnati dietro l’orecchio – poco importava che fossero troppo corti per essere effettivamente spostati – alternando le labbra sulla fronte arroventata a pozioni, magie bianche, e qualche frase che non avrebbe mai osato proferire al cospetto di un Basch lucido, mentre gettava da parte l’armatura che lo appesantiva e lo tamponava con garze di lino e unguenti.
«Sta’ tranquillo, Basch» mormorò, con le dita sul ciuffo più folto di capelli «ci sono io.»

*

«Permettetemi di accantonare l’ipotesi che Vossler non voglia attentare alla nostra incolumità» sentenziò Basch, ancora decisamente debilitato dalla notte trascorsa, quando lui ed Ashe misero piede sul più ridente e rassicurante suolo della Pianura di Ozmone.
La regina rise appena, senza risparmiarsi una punta di amarezza.
«Abbiamo appurato spesso quanto i fantasmi possano essere mossi da intenzioni non proprio ortodosse, d’altronde!»
«Non è esattamente un buon motivo per seguirne uno, milady…» si arrischiò ad obiettare Basch.
«Quello non era un fantasma, in realtà… si trattava solo del nervo scoperto di una mia debolezza» ribatté lei lentamente, perdendosi con lo sguardo nella cortina di nubi all’orizzonte lontano.
«E adesso» sussurrò lui, facendo bene attenzione a non palesare un sorriso «siete pronta all’eventualità di affrontarne un’altra?»
Una simile domanda meritava una risposta a viso aperto.
«Sì» rispose Ashe, fissandolo negli occhi, senza alcun cenno di dubbio «Questa volta sì.»
L’ex-capitano dalmasco non poté reprimere un’occhiata orgogliosa, mentre Ashe calpestava cespi di piccoli fiori bianchi e rottami arrugginiti di aeronavi, nell’atto di voler fare da guida fino alla Pianura di Giza.
Non gli rimase che assecondarla.
«E comunque,» fece lei, voltandosi «se i nostri sogni sono legati a doppio filo, mio caro capitano, io farei prima un esame delle vostre debolezze…»
Nonostante il tono serio, Basch la conosceva abbastanza da ravvisare una giocosa aria di scherzo.
Lasciò che proseguisse di qualche passo ancora, prima di adoperarsi a raggiungerla a larghe falcate.
«Non mancherò, Maestà» disse in un soffio, troppo lontano perché Lady Ashe potesse udirlo.

*

Il tramonto calò sui loro passi quando l’erba che li ostacolava s’indorò pian piano, e il terriccio divenne sabbia, e la sabbia casa.
Da sotto ampi mantelli di canapa colorata – perché certo la sua gente non poteva sapere la sua regina errante, non con un Giudice Magister al proprio fianco – Basch e Ashe scrutarono il recinto del piccolo villaggio di nomadi; le scintille del fuoco si sollevavano nel vento, fra i cimbali e le danze, le urla e i canti, le mani e le cavigliere che battevano il ritmo felice di danze antiche che Ashe aveva nel sangue, e che Basch aveva imparato accanto a lei. Era un’ottima ragione per notare che i suoi occhi erano un po’ più lucidi del solito.
Era a casa.
«Ricordate, Maestà?»
«Perché, potrei mai dimenticare?»
Un piccolo sbuffo di risata.
«Se fossi quello che ero un tempo, sarei libero di invitarvi a danzare, se solo lo voleste.»
Ashe lo guardò dall’alto in basso.
«State cercando di dirmi che non siete più un gentiluomo?» e il tono era quello sfrontato, serio e seducente che aveva messo con le spalle al muro un osso duro del calibro di Balthier, prima di una famigerata razzia di magilite.
Con un sospiro, dove le ombre della notte erano un po’ meno fitte, Basch le tese la mano.

*

La sabbia della tempesta finì loro fra i denti, nel momento esatto in cui Ashe tentò di dire che l’ultima volta che era passata per il Deserto Ovest l’aveva fatto in aeronave come una regina, e Basch di risponderle che i costumi di Casa Dalmasca avrebbero meritato di rispecchiare al meglio le sue esigenze.
Ma il vento e il suo carico fine e letale di granelli fermarono le parole, le gambe, le forze, cosicché, quando si accamparono, lo fecero con malcelata delusione, rintanati nella piccola tenda di pelle di lupo, con le ginocchia premute sulle pareti tese e conciate per non toccarsi. Ma quello era il Deserto Ovest, e i sogni si facevano più forti, risvegliati dalla potenza di qualunque cosa li stesse chiamando a gran voce; e ai sogni Ashe sovrapponeva ricordi di una vita di bambina e di esule con Basch e Vossler a guidarla nel deserto che si sollevava nel cielo come una densa voluta di fumo.
Si erano svegliati disperatamente aggrappati l’una all’altro per tre notti di fila.

*

Toccò ad Ashe, in seguito, fingere che i suoi occhi fossero lucidi per la semplice azione del vento, quando Basch decretò la propria armatura di Giudice Magister troppo pesante per la traversata che stavano per compiere, e la sostituì con un gruzzolo d’abiti che teneva in una vecchia sacca.
Ashe lo osservò senza parlare, lasciò parlare i suoi vestiti di capitano esule, lasciò che le dicessero, in silenzio, che c’erano cose di un uomo che non cambiavano, a dispetto del tempo.
E questo non le impedì di aver voglia di piangere, quando lo vide passarsi una mano fra i capelli di suo fratello per dirle che era ora di mettersi in cammino, la vecchia giubba rossa che scintillava nel sole.
Non disse niente, quando Lady Ashe gli prese la mano, facendo scivolare le piccole dita nella linea dura del suo palmo, tenendosi stretta, come se ne avesse davvero bisogno, sulle piattaforme degli oleodotti che i rozariani avevano installato lungo il confine, simili ad avide bocche immobili, tese senza speranza su un mare nero e sotterraneo di ricchezza. Un po’ come la sua vita, rifletté, sperando di non eccedere con la portata della metafora: tutto era stato sempre a un passo, irraggiungibile, fino a scomparire, e fu facile lasciar correre un brivido sulle spalle, sotto al sole troppo bollente, dato che Basch era tangibile davanti a lei dopo dieci anni, e lei era stretta nella presa delle sue dita, con l’odore della sua pelle nel naso, la forma delle sue spalle su cui la regina poteva vedere allungarsi la propria ombra.
Non c’erano barriere, stavolta, ma sapeva che anche lui sarebbe sparito sotto al peso dell’armatura, una volta che fossero tornati nel mondo civile.
«Non vi infastidisce la sabbia sulla pelle scoperta, dopo tanto tempo?» si accertò lei – non era effettiva voglia di sapere, era voglia di riappropriarsi della sua voce e della sagoma del suo corpo in quei vestiti dimessi, e sapere che andava bene così.
«A voi darebbe realmente fastidio una parte di voi stessa?» suggerisce lui, con quella serietà al disotto della quale Ashe era ormai brava a percepire un sorriso – quanta comodità, nel condividere lo stesso tipo di umorismo, ora che ci pensava.
Rispose di no, con aria giudiziosa, atterrando con lui giù dalla pedana – ai piedi dei sostegni d’acciaio incrostato, la rena era impiastrata di catrame, il che non poté non ricordarle del denaro, del tempo e della fatica che i rozariani avevano speso per intessere quella gigantesca macchina del potere, da cui era stato inutile, in seguito, trarre qualunque beneficio.
Quante cose, nella storia di Ivalice, erano state cominciate, solo perché venissero abbandonate a se stesse nel flusso dei secoli? Ashe pensò a Dalmasca, alla progenie di Raithwall che si era crogiolata nella schiavitù della Pietra. Pensò a Nabradia, che dai lombi di Raithwall era sorta, e pensò ai ruderi di Nabudis avvolti nei rampicanti e nella vergogna. Pensò a sé stessa e ai compromessi che non era stata in grado di accettare, ma fu solo quando pensò a Basch che riuscì a vedere un vero guizzo di cambiamento, di autentica nobiltà.
Non aveva lottato per conservare qualcosa delle sue radici: aveva lottato per qualcosa di ben più grande e importante, che le radici gliele aveva strappate dal cuore.
Capì solo allora che, forse, le toccava recuperarle al suo fianco per chiudere il cerchio – per restituirgli tutto ciò che Basch aveva perduto per lei, perché fossero pari… qualunque cosa fosse loro dovere riacquistare.
Sarebbe stato sufficiente, per lasciarlo di nuovo andare senza rimpianti – il resto, sarebbe stato più consono affidarlo ad apparenze che era stata da sempre scrupolosa nel mantenere.
Si riscosse, quando il capitano serrò la presa su di lei – aguzzando le orecchie, sentì le alte grida degli Urutan cadere come frecce su di loro, attraverso il cielo bollente.
Sguainò la spada, arroccandosi con Basch sulla piattaforma più vicina, e digrignò i denti quando il primo nemico sgusciò dal nulla, diretto contro di lei, e la lama della Claymore lo tranciò in due.
Nonostante cadessero con la facilità di mosche, l’assaltò divenne così massiccio che i colossi di metallo non bastarono più: tutti e due rotolarono sulla sabbia calda e sulle sue macchie scure e pastose, stringendo l’elsa fino a non sentire più il sangue nelle dita. Gli strilli e i pianti furono tutti degli Urutan; stridettero alti sulla volta del cielo, finché il giorno non comincio a illividire, e i superstiti a ritirarsi in gran fretta.
Accesero il fuoco in silenzio, con le dita nere di catrame e le spade rosse di sangue, lei con le ginocchia al pezzo, lui con le gambe stese vicino alle braci – di lontano, l’ululato affamato di iene e lupi. Basch srotolò le pelli, con un piccolo sorriso davanti al labbro arricciato e triste della regina.
«Farà freddo, stanotte» le disse, scrollando le spalle.
«Sì» rispose lei, il viso che scintillava di stanchezza, il corpo fine e bianco nel buio.
Quando appoggiò la fronte contro quella di Basch, si raggomitolò nelle coperte con un brivido, e Basch si ritrovò a respirare fra i suoi capelli, con un braccio a cingerle le spalle per preservare un po’ di calore – ed era davvero irrilevante che quel calore gli stesse facendo venire la pelle d’oca, ora che Lady Ashe si era sistemata con la testa nell’incavo tra spalla e collo – e per non ruzzolare fuori dal giaciglio troppo stretto.
La vide guardare le stelle, e seguì la traiettoria dei suoi occhi senza parlare, lasciando che lei per prima facesse sporgere la mano dal folto pelame bruno che li avvolgeva per abbracciare tutto il cielo con un ampio gesto.
«C’è più nero lassù di quanto i rozariani abbiano potuto trovare sottoterra.»
Basch rise di cuore, così vicino alla sua fronte che avrebbe potuto baciarla, se solo avesse voluto.
«L’acume di simili osservazioni uccide il romanticismo più tenace, sapete?»
Ashe ridacchiò.
«Non oserete forse rinfacciarmi di avere un cuore di pietra sulla soglia dei trent’anni!»
«Lungi da me l’intenzione, milady… sarei la persona meno adatta a un simile compito, con il cuore che, a quasi cinquant’anni, ha sacrificato più spazio per il dovere che per tutto il resto…» terminò in un sussurro. Non le aveva detto tutta la verità: non era più così semplice distinguere dove cominciassero i doveri e dove il resto.
«Non si vede uno spettacolo del genere, in città. Non a Rabanastre, né ad Archades.»
C’era una punta di malinconia nella sua voce.
«No, signora» e gli sembrò che tutti i brusii notturni dell’Ogir-Yensa stessero rispondendo insieme a lui.
«La prossima volta che avremo la possibilità di ammirarlo, sarà sicuramente tardi.»
«Per cosa?»
«Per tutto» rispose lei, con aria inconsapevolmente solenne.
«È sempre troppo tardi per tutto, Maestà» rispose lui, con tranquillità, cercando i suoi occhi.
Trovò le sue dita: Ashe le distese piano sulla sua guancia, con un’occhiata più lunga e intensa di quanto avesse mai fatto in tutta la propria vita, e Basch non disse niente, quando le sentì scivolare lungo il mento e il collo in una carezza in punta di polpastrelli, con i suoi vecchi vestiti da battaglia, scrostati e scoloriti dal passare del tempo, che frusciavano silenziosi contro l’interno ruvido della coperta conciata mentre lei si avvicinava, coprendo tutta la ridicola distanza fra loro nello spazio di un respiro, con una mano poggiata appena su una spalla.
E, giacché era sempre troppo tardi per tutto, Basch non la fermò neppure quando gli sfiorò le labbra con gli occhi chiusi – preferì sollevare una mano e lasciarla affondare fra i suoi capelli, e si sarebbe stupito di sentire la nuca di lei così piccola sotto la mano, se Lady Ashe non si fosse schiacciata così tanto contro di lui, se il bacio non si fosse dischiuso così, se non gli avesse tolto il fiato, e se le mani di lei non lo avessero abbracciato per scivolare con il bacino schiacciato sotto al suo.
Perché, da quel momento, era stato troppo tardi davvero, e Basch aveva baciato il filo immaginario che le attraversava i seni e l’ombelico, facendola inarcare contro la mano che le accarezzava la schiena, scostando con gentilezza quel liso strato di vestiti con i fianchi sui suoi e il fiato di lei che, scottando sulla clavicola, gli diceva che forse non l’avrebbe rivisto mai più.
L’aveva baciata di nuovo – perché tacere era meglio che doverle dare una risposta ovvia – e gli era sembrato di non respirare più, quando le braccia di lei l’avevano attirato dentro, e lui non aveva potuto fare altro se non assecondare il movimento, strusciando i fianchi contro i suoi a colpi secchi, stemperando i gemiti fra le sue labbra.
Erano rimasti così, dopo.

*

Il sogno la schiaffeggiò con una tale vividezza di immagini da sbalzarla quasi fuori dall’abbraccio di Basch, già svegliato, qualche minuto prima, dalla stessa scarica elettrica.
Ashe boccheggiò un attimo, prima stringendosi alle braccia che la circondavano, per divincolarsene nell’attimo successivo, rassettando i vestiti e recuperando le armi. Davanti agli occhi danzava ancora il ricordo nitido di un lungo, antico corridoio attraversato a tutta velocità, i passi scanditi da un legnoso, incessante ticchettio di macchinari. Non era riuscita a scorgerne l’imboccatura, ma era convinta che si trattasse della nicchia in cui era comparso Vossler.
«Andiamo, Basch!» sibilò, caricandosi metà dell’attrezzatura da campo sulle spalle e attendendo a stento che lui le tenesse dietro: una parte di quel mistero le era chiara, adesso… o almeno lo sarebbe stata, se Ashe avesse saputo cogliervi un senso preciso.

*

Il Nam-Yensa non fu che un reflusso di polvere davanti ai loro occhi, e nessuno dei due parve curarsi troppo della fatica – Basch aveva concluso che, se il sangue di Raithwall che scorreva nelle vene di Ashe l’aveva risvegliata con una risposta così sollecita, c’era solamente da seguirne l’impulso, forse meno cieco di loro due messi insieme.
Dimentica del rispetto e del silenzio adatto a un luogo di sepoltura, Ashe sfrecciò fra le ombre possenti delle colonne di pietra, e si arrestò a prendere una boccata di respiro quando toccò il traslatore ed ebbe appena il tempo di avvertire la mano di Basch fare lo stesso accanto alla sua.
Dopo quell’attimo di luce, prima di distinguere qualunque cosa fosse loro attorno, li accolse l’odore di umido e stantio del mausoleo. La patina fredda del suo mondo sotterraneo si appiccicò loro alla pelle come un sottile strato di cera, e i sue viaggiatori si armarono per volare lungo la Sala dell’attacco a rotta di collo, scavalcando con un balzo i resti sbriciolati del Muro Diabolico che avevano sconfitto in passato.
«No» sussurrò Ashe, quando Basch, giunto con lei alla soglia della Sala della difesa, accennò a voler proseguire. L’eco della sua voce vibrò nel buio delle volte e tornò alle loro orecchie come il sibilo di uno spettro.
Basch rimase immobile, e lasciò che lei avanzasse in direzione della torcia più vicina, con una mano rivolta verso di lui per pregarlo di non seguirla. Lanciò Idro sulla fiamma, e vide una piccola, spumosa spirale d’acqua unirsi alle fiamme – tanti congegni, all’interno della Tomba, facevano scattare molle collegate al sistema di illuminazione, cosicché attese, sperando di avere avuto l’intuizione giusta. La fiamma non si spense, in effetti: continuando a crepitare sotto il velo d’acqua, si allungò fino a ricordare la forma di un fuso, per pungerle in profondità il polpastrello ancora sospeso nell’atto di lanciare l’incantesimo.
Con una smorfia, la regina osservò il contenuto della torcia svanire in uno sbuffo di vapore mentre una goccia del suo sangue scivolava nella conca.
Uno stridio di legno vecchio annunciò loro l’apertura dell’ennesimo passaggio segreto a lato della parete istoriata. Vi sgusciarono all’interno con difficoltà: non era altro che un crepaccio angusto e ruvido, in cui l’umidità era lentamente filtrata attraverso i secoli, riempiendo le asperità delle pareti di un sottile velo di muschio dall’odore fastidioso.
Dopo una decina di passi, nel corso di quali si ritrovarono a procedere a tentoni nel buio più totale, lo spazio tornò ad essere sufficiente e ragionato: illuminate da un’altra fiamma, le pareti si presentavano di nuovo lisce, eccezione fatta per le decorazioni in rilievo su di esse.
Basch si guardò intorno: ricordava con chiarezza, ora, la schiena di Ashe che si muoveva esitante lungo il passaggio, e le si avvicinò d’istinto, la mano sull’elsa della spada.
L’ultima eco dei loro passi sul terreno si spense di fronte a una massiccia porta decorata in rame, che la regina spalancò con notevole fatica.
«Ma questa…»
Occorse loro un solo istante per riconoscere la sala del loro sogno: le volte arcuate e scurite dal tempo, tempestate di gemme incrostate di polvere, l’incastro di altari, la spada dall’ampia lama d’argento incastonata nella parete, di cui Ashe non aveva colto che un luccichio confuso.
Basch la osservò lanciare occhiate caute tutt’attorno: stava ispezionando preziosi cassettoni in pietra lavorata incastrati ai lati della parete, e lui rimase a fare da spettatore al suo esame fino a che non la vide puntare gli occhi su di lui.
«Questa era la sala in cui Raithwall giustiziò e fece seppellire quattro delle sue concubine» scandì, raggelata.
«Pensavo si trattasse di una leggenda!»
«A quanto pare, Raithwall volle che come tale venisse tramandata» sentenziò la regina, cupa «Un atto talmente delittuoso avrebbe significato una macchia indelebile sulla reputazione del figlio giusto e amato dagli dèi» proseguì, con una smorfia «sia pure che il suo modo d’agire fosse conforme alle usanze del tempo… e c’era un caso particolare in merito al quale il re possedeva diritto di vita o di morte sulle concubine d’alto rango.»
«Infedeltà» completò Basch, seccamente.
«Un tempo mi sarebbe stato riservato lo stesso trattamento.»
Le parole rimasero sospese nell’aria, facendoli rabbrividire.
«Mi domando solo cosa abbia usato per eseguire la pena…» rimuginò Ashe, con un pizzico di genuina curiosità da studiosa «Forse la spada?» chiese, notando che Basch la stava fissando con attenzione.
«No, milady» disse, senza staccare lo sguardo dalla lama. L’elsa della spada presentava la testa di un dragone d’ossidiana che tentava di chiudere un giglio d’oro fra le fauci, l’emblema di Raithwall, che sarebbe poi stato comune a Casa Dalmasca, Casa Nabradia e Casa Ondore.
«I Cavalieri dell’Ordine la chiamano la Spada del Giglio d’Oro.»
«Originali!» si lasciò sfuggire lei, in un guizzo di ironia.
«Molto» ne convenne Basch, con un sorriso, prima di continuare «Dice la leggenda che questa fu la spada che levò al cielo per fondare l’Ordine stesso. Dopo quel gesto, divenne sacra e intoccabile anche per il re in persona, dato che rappresentava la Somma Giustizia in terra. Non avrebbe mai potuto usarla per commettere una simile efferatezza.»
«C’è stato un tempo in cui anch’io ho creduto che la giustizia fosse legittima, se derivata da un compromesso.»
«Voi non siete sola, milady. L’avete recepito per tempo.»
Ashe sorrise colpevole.
«Guardate qui» le disse, inginocchiandosi a indicare i bordi dei sarcofaghi incastrati: c’erano tracce di nero che terminavano in sporadiche gocce sul pavimento.
Anche alla luce dorata delle torce, Basch sembrò impallidire.
«Un tempo, nella Penisola di Galtea, il petrolio era di assai più facile prelievo, soprattutto nell’Ogir-Yensa,» le spiegò «e fonti molto antiche ne attestano un reiterato uso in ambito di supplizi d’ogni tipo. La pratica più comune, all’interno di peccatori di stirpe nobile, non era quella del rogo… sapete meglio di me che le spoglie mortali di un re o di chi vive a lui vicino sono altrettanto sacre della sua anima…»
«Le ha soffocate» realizzò Ashe, con un brivido di paura.
Basch annuì.
«Mi chiedo dove risiedesse la giustizia, in tutto questo» aggiunse.
Ashe non seppe rispondergli, ma entrambi dovettero alzare gli occhi dal suolo quando, dall’altare maggiore, si sprigionò un sibilo che attirò la loro attenzione: vento. Non un vento desertico, che proveniva dalla superficie, ma un soffio freddo, innaturale. Sovrannaturale.

La giustizia siete voi, Basch. Voi due soli.

Vossler, tinto del grigio evanescente che entrambi avevano imparato a riconoscere nelle loro visioni, li guardava con le labbra tirate e gli occhi più neri di quando era stato in vita.
«Vossler» disse solamente l’antico compagno d’armi, osservandolo dirigersi a passi caliginosi verso la spada. La regina, di poco più avanti rispetto a lui, non osava parlare: fissava il fantasma con gli occhi azzurri lividi di qualcosa misto fra nostalgia e rimpianto.
Il rumore che l’apparizione provocò, nell’estrarre la spada, era talmente reale da suonare quasi ridicolo, nel contesto. Lo guardarono scendere i gradini che lo separarono da loro con l’elsa poggiata su un palmo e la lama sull’altro – e Basch poté dire, senza alcun dubbio, che quella che paralizzava Ashe era una commozione così addolorata che, se davvero si fosse mossa, sarebbe andata in frantumi.
Lui si fermò a un centimetro di distanza da lei, poi i fondi occhi scuri indicarono Basch, che si fece avanti.

Voi due darete vita a una nuova Dalmasca e a una nuova Ivalice. Laverete ogni macchia d’ingiustizia via dalla Storia. Il vostro cuore può riuscirci. Può riuscire laddove il mio, peccando d’orgoglio e di poca fede, ha invece fallito.

Una lacrima sdegnata tremò nella coda dell’occhio di Ashe, ma si rifiutò di scendere.

Accettala, Basch. Per Dalmasca. Il vostro dovere si è già compiuto. Concedimi la pace.

Lui sorrise, tendendo le mani verso lo spettro, e lasciando che il peso dell’arma le riempisse.
L’attimo successivo, Ashe non poté trattenersi oltre, e lasciò che un accenno di pianto arrivasse a scivolare almeno oltre le ciglia, mentre l’anima del soldato si disfaceva in mille piccole luci, che li avvolsero prima di svanire nel nulla.
Dopo di lui, solo il silenzio, il riflesso smorto delle torce.
Ashe si asciugò gli occhi col palmo della mano, e Basch finse di non accorgersi di nulla, quando lei cercò volontariamente sostegno, appoggiandosi con la testa sul suo petto.
«Suppongo che la mia missione entri in conflitto con una promessa di fraterna memoria» considerò lui.
Ashe azzardò un sorriso.
«Chi l’avrebbe detto, che avresti trovato radici ancora più importanti da onorare…»
Basch, imbarazzato, borbottò qualcosa in merito a quel tono confidenziale che gli sembrava del tutto nuovo, su quelle labbra, prima di recuperare un contegno.
«Non ne sono totalmente sorpreso… si tratta anche delle tue, in fondo. Non cambia molto. O forse tutto era già cambiato, e noi non ci siamo resi conto di quanto il mondo si fosse davvero trasformato, attorno a noi» sentenziò, rinfoderando la spada.
Ashe si limitò ad aprire nuovamente il massiccio portale.
«Torniamo a casa, Basch. Ti assicuro che quella non è cambiata.»
«Mai, ti credo sulla parola.»
Il portone si richiuse alle loro spalle con un tonfo ancestrale, che si portò via gli ultimi strascichi dei loro passi.
L’altro capo del deserto non era mai sembrato così vicino.

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A/N 19 luglio 2009, ore 18:42. Da dove cominciare, con questa fanfic °_°”? Sicuramente dal fatto che il titolo viene da “A Thousand Years” di Sting, anche detta “la canzone più Basch/Ashe del mondo intero”. Questa è stata una delle prime che io abbia mai plottato per questo set. Anzi, se proprio vogliamo essere onesti, quando ho visto “Petrolio” mi è subito venuto in mente l’Ogir-Yensa, il che mi ha persuasa a prendere questo set con loro due. L’idea di ghost!Vossler è venuta relativamente più tardi, e il plot della fic è stato a macerare davvero un bel po’ prima che la cominciassi a buttare giù. Infatti l’ho abbandonata per un sacco, prima di continuarla e finirla nel giro di tre giorni O_o. Non avevo il coraggio di finirla perché temevo venisse troppo lunga e non sapevo se ce l’avrei fatta a starle dietro… avevo ragione: per essere lunga, è venuta anche più lunga del progetto iniziale, ma ci sono riuscita, a tenere il passo. Poi, chiaramente, si sono aggiunte altre idee – l’ultima delle quali è un po’ molto assurda, nonché recente, lo ammetto, così come solo ora mi viene in mente che sia un ibrido proveniente da una fic che non ho mai finito. Mi è piaciuta un sacco scriverla: per la prima volta mi sembra di aver cominciato a parlare di loro nel modo che volevo, e inoltre l’ho fatto in una fic lunga e descrittiva (forse anche troppo) che mi ha riportata ai tempi delle mie fic su Sailor Moon. Poi, due parole sulla storia: Crisostomus è mio è_é, perché ad Anastasis avrà dovuto cedere un Gran Kiltias, insomma. Ho scelto un nome che avesse un’assonanza con quello del predecessore, ed è un calco che ho fatto partendo dal latino (e dal greco XD) “chrysostomus”, ovvero “bocca d’oro”, titolo assegnato, nell’antichità, a persone di grande eloquenza, come l’oratore Dione di Prusa o San Giovanni Crisostomo, che, a quanto ne so, fu un asceta. Ultima cosa prima che mi uccidiate, il giglio, se guardate bene, è presente sui vestiti di Rasler, di Ashe e del Marchese. Come molti di voi sapranno, era il simbolo della monarchia francese, storicamente. In un’intervista con la Square è stato detto che Ashe ha la “struttura ossea” di una donna francese, e mi piace pensare che questo sia legato ai simboli che porta addosso, ragion per cui l’ho usato come stemma di Raithwall. E adesso giuro che me ne vado XD.

Juuhachi Go.

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