Titolo: Be my mirror, my sword and shield
Fandom: Final Fantasy XII
Personaggi: Ashelia B’Nargin Dalmasca, Basch von Rosenburg
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 1217 (LibreOffice)
Note: spoiler sul Faro e su Giruvegan, su prompt di diecisudieci
[diecisudieci – Basch/Ashe – 02. Blue – #09 Sangue]
L’ampia piazza d’armi all’interno del palazzo reale si apriva poco distante dagli alloggi dei Cavalieri dell’Ordine di Dalmasca, alloggi di corte che, nel loro essere ristretti, portavano, nell’eleganza a loro riservata, l’emblema di una nobiltà che avevano acquistato per diritto di nascita. A dieci anni, Lady Ashe aveva già smesso di credere alle favole e, per quanto la sua esistenza fosse ancora filtrata dietro le lenti di un agio notevole, aveva ben chiaro quale fosse il vero ruolo di Dalmasca all’interno della Penisola di Galtea: un crocevia di strade e mercanti che, dalla natura, non aveva ricevuto altro che sabbia e posizioni strategiche di considerevole entità. La loro nobiltà germogliava attraverso gli sterpi del deserto e, per quanto potesse attestare un’origine più antica, non poteva vantare le piccolezze raffinate riservate all’élite di Archadia e Rozaria.
Dalmasca aveva le sue tradizioni monumentali per onorare e gratificare la propria casta eletta, ma, sotto a una facciata così sfarzosa, i guerrieri che ne facevano parte erano abituati alle asprezze della lotta e dalla natura. Con la patria, così negletta dalla benevolenza del creato, e benedetta dagli uomini che ne calcavano il suolo con le loro carovane, condividevano un legame così intimo che solo un dalmasco poteva arrivare a capire nel profondo, un legame di cui la famiglia reale era l’incarnazione terrena.
Per questa e mille altre ragioni, Ashe preferiva Basch von Rosenburg a tutti gli altri cavalieri.
Basch non era dalmasco di nascita, né di nobili origini. Su di lui aveva sentito tante storie, storie di repubbliche cadute in frantumi, storie di fughe e di perdite – per Basch, Dalmasca non era il suolo su cui era nato, ma il suolo che l’aveva accolto quando aveva necessitato di un rifugio, il che gli rendeva quell’angolo di deserto molto più prezioso di una patria.
Era lui a raccontarle tutti quei pensieri – per lui Ashe non era una dea, ma una ragazzina che doveva assorbire dal mondo circostante quanto di buono e costruttivo esso avesse da offrire. Assomigliava un po’ a Vossler, in questo, ma la sua deferenza non era così rigida: quella di Basch non era legata al senso di appartenenza. La serviva perché era giusto sostenerla, le diceva. La serviva per fare del proprio meglio, perché lei avesse potuto migliorare il presente, un giorno. La serviva per poter insegnarle tutto quello che sapeva, lui, del mondo: la retorica, il codice dei cavalieri e, quando il precettore non poteva udirli, antiche canzoni in un dialetto di Landis ormai perduto, così duro che i suoi denti parevano scricchiolare contro le parole.
Il giorno in cui suo padre lo nominò capitano, Ashe chiese di poter consegnargli la spada di persona, e, per la prima volta nella propria vita, imparò ad essere orgogliosa di qualcuno oltre a se stessa, quando Basch le rivolse uno dei suoi lievi, rarissimi sorrisi.
*
Fu il giorno seguente che Ashe decise di recarsi da lui con le dita ancora sporche dell’inchiostro dei suoi esercizi di calligrafia.
Gli si parò semplicemente davanti, consapevole di quanto fosse disdicevole che una principessa facesse visita a un cavaliere senza alcun séguito.
«Beh…» balbettò, ispezionando con minuzia i polpastrelli punti in più parti da quegli odiosi, sottili aghi da ricamo che la obbligavano ad adoperare. Guardò la spada assicurata nella fascia del vestito, e la lanciò perché Basch la afferrasse al volo.
Non era una spada ornamentale, ma una di quelle pesanti e affilate che si prelevavano in armeria.
«Voglio essere all’altezza del sangue che porto dentro di me.»
Basch rise, restituendole l’arma in un secondo lancio e compiacendosi della velocità con cui la sua piccola protetta si fosse premurata di acciuffarla.
«La cosa più importante è sentirsi all’altezza di se stessi prima di ogni cosa, Altezza» e si sorprese del fendente un po’ goffo che lo mancò, conficcandosi nello stipite della porta.
Basch trattenne l’indelicata tentazione di ridere di nuovo, nel vedere con quale caparbio impegno Lady Ashe stesse trattenendo il proprio broncio.
«Ebbene, insegnatemi.»
Basch annuì, con la solennità che si addiceva a un cavaliere che guardasse la sua regina.
*
«Avete davvero intenzione di… di usarla?» arrancò Basch, con più enfasi che rabbia – non era stato abituato ad arrabbiarsi davvero con lei; con Lady Ashe, la rabbia aveva il potere di chiamarne altra, di portata assai maggiore.
E infatti, fu con furia e con un mezzo grido che la lama di lei andò a cozzare contro la sua, con così tanta forza che Basch si sorprese che non fossero sprizzate scintille.
Lui si parò con un gesto, e il contraccolpo la fece vacillare. Con un fremito d’orgoglio, cercò di tenersi in equilibrio e di colpirlo con due fendenti.
«È mio dovere provarci, almeno!» ribatté, punta sul vivo «I miei discendenti—»
A Basch bastò un solo colpo, inferto con abbastanza forza, per farla cadere a terra senza causarle nemmeno un graffio.
«E potete accertarvi che usarla sia anche un vostro diritto?»
Ashe abbassò gli occhi, per impedirgli di vedere quanto i suoi denti stessero stringendo la presa sul labbro. Voltò la testa da un lato, per guardare la Spada del Patto appoggiata a un fianco della Strahl.
Mentre Balthier controllava la solidità dell’attracco, a poca distanza, la guardò con una profonda ruga sulla fronte. Vaan e Penelo sussurravano preoccupati fra di loro, e lei non riuscì che a cogliere uno “starà facendo la cosa giusta?”.
Quando si rivolse di nuovo in direzione di Basch, lui si era già avviato in direzione del Faro.
Lei si alzò in piedi, fino a raggiungerlo ed afferrargli il polso con uno strattone che, per lui, era poco più di un innocuo buffetto.
«Non potete sentenziare così liberamente sulle mie decisioni, è difficile anche per me!»
Basch osservò il modo in cui aggrottava le sopracciglia, per poi scivolare fino alla stretta in cui stava fingendo di essere intrappolato. Si liberò delicatamente e, con due dita, voltò il polso verso l’altro, accarezzando con il pollice il segno azzurrino delle vene sotto la pelle chiara.
«Sto solo sperando che i trascorsi della vostra discendenza non accechino il vostro personale giudizio» disse, quasi come a volersi scusare. Lei lo guardò con la fronte liscia, senza rispondere nulla. Basch sollevò una mano per sfiorarle piano una guancia.
«Non sono di vetro.»
«Lo so,» sospirò, avvilito «lo so.»
*
Di Reddas non riportarono niente a parte fumo e Mystes impregnati nei vestiti.
Balthier stava imprecando contro l’ammaccatura che luccicava al sole, ben visibile sul metallo dell’aeronave; Vaan finse di non fare caso ai suoi occhi lucidi e preferì spostare i propri su Fran e Penelo, che se ne stavano a braccia conserte contro il sole che cominciava a calare. Non potendo più pregare, adesso che avevano perso fiducia in espedienti del genere, le vide mettersi a fissare la risacca.
Più in là, Basch sistemava l’ultima pietra di un mucchio disposto in maniera abbastanza casuale sulla sabbia. Trasalì, quando Ashe fece affondare la Spada del Patto nei granelli arroventati, a un centimetro dal suo viso.
«Si tengano il titolo di Re Dinasta per qualche altro discendente,» disse «questa è una battaglia di uomini contro uomini… e se così non è per Archadia, allora farò in modo che lo diventi.»
Senza guardarla, Basch raddrizzò la base del tumulo.
«Non siete di vetro, dopotutto.»
«No, Basch» rispose Ashe, inginocchiandosi al suo fianco «Non più.»
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A/N 20 luglio 2009, ore 18:03. Questo è uno di quei casi in cui la storia che hai pensato è completamente diversa da quel che è venuto fuori XDDD, diciamo che non impazzisco per la parte iniziale, ma scrivere su di loro è sempre bello, ecco. Il titolo è un verso di “Viva la Vida” dei Coldplay.