[X] Nomina nuda tenemus

Titolo: Nomina nuda tenemus
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Seishiro Sakurazuka
Parte: 1/1
Rating: R
Conteggio Parole: 12146 (LibreOffice)
Note: NSFW, spoiler da X16 in poi, incesto, per il Big Bang Italia 2010.

Nomina nuda tenemus

«L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli.»
(Marguerite Yourcenar)

*

«Ma hai almeno idea di che ore siano?» chiese Seishiro, incrociando le braccia al petto con un sorriso sardonico.
«Le quattro e mezzo» constatò freddamente Subaru, lanciando una rapida occhiata all’orologio da parete e raggomitolando meglio le gambe sotto il kotatsu.
Poi, fu silenzio, rotto unicamente dalle dita del ragazzo che scartabellavano fra i fax impilati sul tavolino, e dalle rapide, nervose sorsate di pessimo caffè americano – che fine aveva fatto il tè in casa di un Sumeragi, si chiese Seishiro con una lieve ma inequivocabile smorfia di disgusto – che ingoiava alla velocità della luce per non rendersi effettivamente conto di quanto scottasse.
«Hai un esorcismo domani. Dovresti dormire.»
Sagomata dalla luce della lampada che lo prendeva in pieno viso, la schiena di Subaru si irrigidì in uno scatto improvviso.
«Chi ti ha autorizzato a guardare nella mia agenda?» sibilò, infuriato, mentre si voltava a fissarlo con lo stesso balzo fulmineo di un serpente che si accingesse a mordere.
Seishiro misurò un profondo sospiro – uno che fosse sufficientemente rumoroso e realistico nel palesare quanto più disappunto possibile. Si scompigliò la frangia con una mano, i polsini della camicia macchiati di sangue e rigirati sui gomiti, i pantaloni tutti sgualciti.
«Prima non facevi tutte queste storie…» borbottò.
«Sta’ zitto,» tagliò corto Subaru, senza fare il minimo sforzo per essere convincente – le sue erano parole biascicate sottovoce, che gli rimbalzarono addosso come una palla di gomma «ti fa male la ferita?»
«Tu ed io dobbiamo fare una lunga chiacchierata sul concetto di “parti contrapposte” e “nemico mortale”, temo.»
Subaru alzò gli occhi al cielo e si massaggiò le tempie in gesti lenti, che tradivano una stanca esasperazione.
«Non ho un diploma da infermiere. Mi seccherebbe vedere un mio sforzo andare in fumo, dopo aver fatto tutta quella fatica. Se senti il cuore battere nella ferita potrebbe esserci un’infezione.»
Nella frazione di secondo che seguì, la lancetta dell’orologio scattò in un basso crepitio meccanico. Subaru rabbrividì – forse di vergogna – sotto gli occhi beffardi dell’assassino che lo osservavano.
«Subaru-kun.»
Subaru non rispose.
«Il problema è che tu non avresti neppure dovuto concepire di compierla, quella fatica» scandì Seishiro lentamente, centellinando le parole come per spiegare un concetto troppo difficile a un bambino, scrutando Subaru che premeva le labbra fra loro fino a farle sbiancare.
«Perché l’hai fatto? Davvero non capisco.»
Subaru strinse i pugni, la tazza vuota ancora stretta in una mano. A vederlo così, in piedi nel suo studio alle – controllò l’orologio – quattro e quindici del mattino, tutto sgualcito e spettinato, con ancora il segno rosso della coperta su una guancia (non gliel’avrebbe fatto notare nemmeno sotto tortura), riusciva a palpare, sotto quelle parole, una vena di sincerità a cui non avrebbe creduto nemmeno se Seishiro fosse stato in punto di morte.
«Non lo so» sbottò, in tono perentorio, scattando in piedi e sventolando la tazza di ceramica ancora tiepida «Non ne ho la più pallida idea!» aggiunse con rabbia, lasciando che due gocce di caffè superstite colassero sui tatami e scaraventando la tazza contro lo spigolo del tavolino lì accanto. Si scheggiò senza rompersi e cadde pesante sulle stuoie.
«Ti soddisfa, come risposta?» domandò, ostile, prima di avviarsi verso la camera da letto.
Seishiro ridacchiò.
Gli anni di trascuratezza e di solitudine avevano inasprito i suoi modi – perlomeno per quanto riguardava il loro personale modo di interagire – senza cambiare lo stile con cui gli si rivolgeva, e senza neppure mutare, sotto quella patina di brutale ribellione, quell’agitarsi tutto vivo ed emotivo così tipico di ogni gesto di Subaru.
Continuò a modulare la risata nel petto fino ad ottenere di nuovo la sua attenzione e, quando l’ebbe per sé, continuò a ridere sommessamente, conscio degli occhi che, taglienti, lo fissavano mandandogli lampi di disapprovazione.
«Tu non vuoi che sia un altro uomo a uccidermi.»
«Un altro—» Subaru sgranò gli occhi e boccheggiò per un paio di secondi.
Un altro uomo, aveva detto, con un tono che, suo malgrado, gli aveva fatto scendere un brivido nello stomaco.
S’interruppe in un moto d’orgoglio.
«Non essere ridicolo» masticò, ingoiando quello che stava per sfuggirgli e voltandosi per rintanarsi in camera senza dover di nuovo fare i conti con la sua presenza.
Tuttavia, mezzo minuto dopo Subaru stava nuovamente evitando un frammento del manico della tazza con la punta di un piede, una coperta piegata fra le braccia.
«Non riesci proprio a starmi lontano stanotte, eh?»
«Dormi tu di qua, o la ferita non si rimarginerà mai» gli fece seccamente Subaru, ignorandolo «Sul divano vado io» e si diresse in salotto senza ammettere repliche.
Seishiro non tentò nemmeno di avanzare ovvie proposte di sistemazione per la nottata: effettivamente, la ferita ricominciava a dolere, così forte che il viso gli si bagnò di sudore freddo nel giro di un secondo. Ebbe a malapena il tempo di lasciarsi andare sul materasso, con un respiro che si tramutò in un grugnito prima che l’uomo potesse reclamare un margine di controllo su di esso.
«Ti ho lasciato dell’antidolorifico sul comodino» lo raggiunse la voce di Subaru da lontano.
Mentre ne ingoiava una fiala, Seishiro finse di non udire una parola.

*

Prima di appoggiare la testa contro la stoffa bombata del bracciolo, Subaru tese l’orecchio in direzione della camera da letto in attesa di altri rumori, per poi assestarsi tirando un calcio alla coperta che aveva portato con sé. La osservò afflosciarsi sul tappeto e, in silenzio, affondò nei cuscini bitorzoluti più che poté. Stropicciata sulla punta dei suoi piedi, la coperta che Seishiro aveva tenuto addosso prima che la lampada accesa nello studio lo svegliasse. La avvicinò con qualche gesto esitante e se la distese addosso lisciandola con una cura di cui, probabilmente, quel vecchio plaid non aveva mai goduto prima di allora.
Era impregnato di un calore diverso da quello del ferro da stiro, la stessa timida traccia di quello che ancora traspirava dal divano, e che sembrava bruciargli la schiena come un fuoco: ovunque, attorno a lui, in mezzo all’odore acidulo e sgradevole del disinfettante, c’era il profumo di Seishiro – non l’aveva mai cambiato, a quanto pareva. Se si sforzava, riusciva addirittura a percepire un alone tenue di fiori di ciliegio, di sapone e dopobarba, e quello naturale della sua pelle, quello che da ragazzino aveva aspirato con imbarazzo quando Seishiro lo teneva troppo vicino a sé per esasperarlo.
Strizzò gli occhi per scacciare l’immagine e si raggomitolò nell’angolo fra i cuscini con un solo fruscio.
La convivenza si stava mostrando semplice, sospirò. Pressappoco quanto un doppio suicidio.

*

Un’umidità appiccicosa e vagamente insalubre stava salendo dal mare, quel pomeriggio.
Subaru sapeva bene che una simile impressione derivava unicamente dall’acuta sensibilità dei suoi poteri, nonché dal proprio ruolo di Drago del Cielo. Ciascuno di loro era intimamente legato al pianeta che era obbligato a proteggere, il che implicava anche che tutti i campi di forza che ancoravano la Terra al suo posto nel cosmo oscillavano pericolosamente nella loro mente ogni volta che una barriera veniva eretta e un terremoto della fazione opposta ne squassava il perimetro. Era un legame che Subaru portava addosso come un peso, e non c’era stata una volta – a dispetto del rigore che si portava da sempre dietro come un secondo strato di carne – in cui avesse risposto alla chiamata per autentico senso del dovere.
Confuso negli specchi del grattacielo al proprio fianco, Subaru sfrecciava nell’aria già da diversi minuti, il suo pizzicore di tempesta che faceva attrito contro la pelle.
Qualche ofuda chiazzato di pioggia gli sfuggiva dalle tasche e rotolava spiegazzato nel vento per volare chissà dove: si era allontanato così in fretta dalle proprie occupazioni da non concedersi un briciolo di tempo per risistemarsi. Il vento salmastro, tuttavia, portava nel proprio strascico una traccia sempre più lontana di due forze potentissime, e questi non erano certo i momenti più adatti per tergiversare. Erano schermate da una magia ragguardevole, ma l’incantesimo che lo permetteva sembrava, piuttosto, occultare una soltanto fra le due, e la sola protezione era talmente soverchiante da comprimere l’energia avversaria come un palloncino, rendendogli impossibile distinguere anche quella fonte con chiarezza. Non si trattava assolutamente di magia bianca, ma nemmeno del classico impiego di quella nera: nei paraggi, qualcuno stava usando una forza talmente antica da fargli tremare le vene dei polsi, premurandosi di non disvelarsi nel bel mezzo dell’operazione.
Subaru aveva dedicato fin troppe ore di studio a simili tecniche, per non farsi un’opinione abbastanza precisa in merito: si trattava di un pazzo, di un onmyouji, di un Drago della Terra o, con ogni probabilità, di tutte le cose insieme; l’unica sostanziale differenza stava nel fatto che, chiunque fosse, sapeva esattamente cosa stesse facendo. Sul fronte follia, capacità effettiva e cognizione di causa, c’era un solo uomo che rispondesse alla descrizione – l’unico per il quale Subaru si sarebbe scomodato senza indugio.
Lo schizzo della prima pioggia gli ghiacciò il viso, mentre scendeva in picchiata contro il cuore bollente dell’energia. Gli sembrò che, nel punto massimo di vibrazione, l’acqua si solidificasse in neve, ma si sbagliava.
Quelli erano petali di ciliegio.
«Che diavolo sta succedendo qui?!»
Subaru prese appena coscienza del tono di voce vagamente risentito che gli era sfuggito dalle labbra, mentre fissava con intensità penetrante i due combattenti, improvvisamente voltatisi ad assistere alla sua intrusione.
A un’estremità della barriera, Sorata stava spazzando una manciata di petali lontano dagli occhi, nell’osservarlo con aria confusa.
Dal lato opposto, Sakurazuka Seishiro, in piedi sullo scheletro di un grattacielo divelto, lo guardò a lungo, indecifrabile dietro gli occhiali da sole. Subaru deglutì, muovendo un passo indietro: insieme alla consapevolezza bruciante di quegli occhi su di sé, giunse anche la barriera protettiva che Seishiro aveva eretto.
Fu come trovarsi sotto una cappa nera che gli premesse la mano sul respiro. Perché – si chiese il ragazzo, portandosi una mano alla gola – un Sakurazukamori avrebbe dovuto temere intrusioni, se nella barriera di un Drago del Cielo ci si schermava dal resto del mondo?
Sentì le lacrime gonfiarsi sull’orlo delle ciglia nello sforzo di non soccombere, e quell’attimo gli impedì di scorgere la sorpresa che Seishiro lasciava trasparire dalle lenti.
«Subaru-kun—»
La voce era genuinamente stupita, quasi come se lo sciamano l’avesse colto sul luogo di un omicidio senza che lui ne avesse avvertito la presenza. Subaru rimase immobile, assolutamente certo dello sguardo di Seishiro fermo su di lui, come se spezzare il contatto avesse potuto causare conseguenze irreparabili.
E poi, con uno schianto di vetro, la protezione si ruppe davvero.
Tutti e tre sentirono il cedimento con uno schiocco nitido, feroce, simile a quello di un collo che si spezza. Evidentemente, la pressione oscura di cui il Sakurazukamori si era avvantaggiato aveva tenuto Sorata a debita distanza troppo a lungo perché il Sigillo potesse restituirgli il favore, dato che si lanciò deciso verso l’avversario.
Subaru sgranò gli occhi: Seishiro si era armato degli ofuda e del proprio sorriso sprezzante di circostanza, ma il petto si abbassava e sollevava in respiri profondi e sconnessi sotto la camicia, e il sudore luccicava appena sulla fronte.
Il ragazzo non si mosse – il crollo della protezione aveva indebolito anche lui, dato che ne aveva penetrato il perimetro, e poté solamente fare da spettatore al grande pentacolo rovesciato che lo sciamano aveva tracciato nell’aria per sferrare il contrattacco.
Assistette alla scena con il fiato in gola, mentre il resto del corpo incassava il colpo e le ginocchia diventavano molli e inutili. Solo il cervello lavorava frenetico, e Subaru realizzò, con un certo orrore, che non c’era traccia di solidità nel potere che l’assassino stava sbandierando con tanta spavalderia: l’incidente di poco prima l’aveva tanto provato da rendere quel tentativo per nulla diverso da un gioco pirotecnico.
«Seishiro-san!»
L’urlo gli era uscito quasi dal fondo dello stomaco, e Seishiro era rimasto assolutamente indifferente – il monaco aveva il viso quasi premuto contro le linee di calore e fuoco oscuro del pentacolo, e l’assassino, quasi deridendo la sua decisione nel voler sfondarne i contorni, strinse il pugno.
Il disegno brillò incandescente per un istante… dopodiché, più nulla.
Col guizzo di un delfino, Sorata vi passò attraverso.
Un lato della figura gli scavò un taglio profondo su uno zigomo prima di sparire, e la scarica di fulmini che fiorì dalla sua mano asciugò immediatamente il sangue schizzato nell’aria.
Quello che toccò terra non gli apparteneva.
Seishiro non aveva azzardato che una lieve smorfia di disappunto, quando la lama di elettricità aveva aperto un taglio trasversale da una parte all’altra dell’addome.
Gli occhiali, squagliati per metà, rotolarono a diversi metri di distanza, mentre il corpo di Seishiro s’inarcava cadendo nella polvere, spargendo una chiazza densa di sangue tutt’attorno.
«Seishiro-san!»
Gli sembrò di scorgere un briciolo di sarcasmo congenito, negli occhi di Seishiro che si rovesciavano sotto le palpebre.
Semplicemente, Subaru smise di pensare, e Sorata assistette a quella che, a uno sguardo estraneo, era una scena completamente priva di senso, tanto da dimenticare il proprio sangue caldo che ruscellava copioso sulla maglietta.
Sakurazuka non aveva ancora toccato il suolo, che già Subaru, chino su di lui, lo stava scuotendo per il bavero del cappotto, tastando i contorni della ferita che, del tutto insensibile alla sua disperazione, continuava a vomitare copiosi fiotti di sangue.
A bocca aperta, Sorata notò che le mani dello sciamano tremavano talmente tanto che ogni momento doveva costargli fatica, così come notò che le lacrime gli bagnavano le guance senza controllo, e s’interruppero solo durante un singhiozzo talmente violento che sembrò stirargli i muscoli delle spalle.
Lo vide tastargli di nuovo la fronte e le guance, strozzandosi col suo nome in mezzo alla gola gonfia dal pianto. Per un attimo, sospettò che Subaru avesse perso la testa, ma dovette riconsiderare la propria opinione, quando lo vide pulire il ventre dell’uomo con uno dei lembi sufficientemente bianchi della camicia, per tracciare qualcosa in punta di dita, sul bordo della ferita.
Distinse confusamente il pentacolo del clan Sumeragi contornato da simboli che non gli erano affatto familiari, e le labbra del ragazzo che si muovevano a mezza voce in una preghiera.
Un sigillo.
Si accese sulla pelle come il brillio di una sigaretta, e il sangue smise di colare: rimase a sfrigolare, ritirandosi all’interno dei contorni del taglio.
Mentre Sorata fissava sgomento e incredulo tutta quella lunga sequenza, Subaru sembrava non considerare minimamente la sua esistenza.
Tirò su col naso e si guardò intorno.
Aveva meno di un minuto di tempo, prima che il sigillo si sciogliesse e il sangue riprendesse a scorrere come prima, e non si trattava certo di un tempo utile a salvargli la vita.
Schizzò ad osservare la pozza rossa sul limitare della quale era inginocchiato e, rapidamente, prese a scarabocchiare ideogrammi attorno a loro intingendovi un indice.
Sorata si rese immediatamente conto di quali fossero le sue intenzioni, e intuì fosse suo dovere di monaco fare quanto in suo potere per fermarlo.
Lo osservò un’ultima volta mentre la corolla di ideogrammi si illuminava – ad occhi chiusi, Subaru Sumeragi stava chiedendo perdono.
Sorata, con un lungo, triste sorriso, chiamò a sé la propria barriera, facendo in modo che l’assassino e lo sciamano potessero dileguarsi.
Prima di sbiadire nell’aria, due occhi verdi si erano voltati, finalmente, a guardarlo.
Grazie, modularono silenziosamente le labbra dello sciamano.
Decisamente scosso e immobile fra i passanti ignari che lo fissavano incuriositi, si pulì lo zigomo con un gesto ruvido della mano e si avviò, con un gran mal di testa, verso l’Istituto CLAMP.

*

Essere amici stretti di Shirou Kamui comportava un innegabile vantaggio in circostanze di questo genere: l’obbligo morale e pratico di salvargli la vita ogniqualvolta necessario faceva in modo che l’armadietto dei medicinali di ogni Drago del Cielo in generale – e di Subaru in particolare – fosse fornito in maniera ineccepibile e costante. Il pensiero gli attraversò la mente in un attimo di sarcasmo isterico, mentre si tuffava a rovistare nel mobiletto a piene mani, in cerca delle maledette garze sterili sepolte chissà dove nel caos di boccette e flaconi. Ne scostò uno con così tanta violenza che questo andò a infrangersi contro le piastrelle del pavimento, e Subaru quasi rischio di scivolare sul contenuto rovesciato, mentre si precipitava in salotto con un pacco di garze e filo di nylon stretti nelle dita, trattenendo a fatica i flaconi di disinfettante nella curva di un braccio.
Seishiro – oltre a macchiare sempre più in profondità la fodera del suo divano – non sembrava aver azzardato nulla, nel giro dell’ultimo minuto trascorso, come Subaru si era quasi illuso potesse fare. Se ne stava lì, con il capo reclinato su un bracciolo, sudato e pallido, il volto serioso e inespressivo nel dolore e nell’incoscienza, quasi indifeso. Sulle tracce di sangue che scurivano la pelle del ventre, Subaru aveva disegnato qualunque ideogramma ricordasse per rallentare la perdita, facendo bene attenzione a non mischiare culti diversi. Se non altro, poter lavorare con delle mani che non tremavano era già un passo avanti, si disse, passando una generosa dose di acqua ossigenata sulla ferita e pulendo accuratamente la schiuma. Seishiro reagì con una smorfia di fastidio inconscia, ma il capo ricadde subito sul bracciolo, senza più muoversi mentre Subaru lo ricuciva piano, con una premura che certamente l’altro non meritava, e che lui avrebbe negato di possedere nei suoi riguardi, se davvero l’assassino fosse stato sveglio e pronto a notarne la presenza.
Applicare il cerotto non fu molto difficile – altra faccenda fu, tuttavia, rassegnarsi a fasciarlo. Per quanto al molesto occupante del divano non sarebbe evidentemente piaciuta una puntualizzazione del genere, Seishiro era maledettamente pesante, e assolutamente ingovernabile quando privo di sensi. Strisciò a sedere nell’angolo libero dei cuscini per afferrargli un fianco e tenerlo fermo contro l’incavo del proprio collo, riuscendo a guardare a fatica la garza, nell’assicurarsi di svolgerla tutta senza fare grinze. Il calore di lui che filtrava sotto i vestiti come veleno a effetto rapido rendeva quell’operazione una morte per stillicidio, perché Seishiro sapeva d’alcool, febbre, sangue e sudore come ogni altro essere umano, di muscoli compatti sotto le dita, eppure, allo stesso tempo, era quello che era. E, anche con la rassegnata consapevolezza che aveva imparato a cucirsi addosso da nove anni, Subaru si chiedeva, con piccata insistenza, da che pulpito se ne fosse arrogato il diritto.
Lo appoggiò delicatamente con la testa sul bracciolo e rimase a fissare per un attimo l’espressione di intenta gravità che se ne stava dipinta lì su quel viso come una maschera mortuaria, in un paragone che gli fece salire un brivido di freddo al cuore. Era quasi un arco riflesso del proprio corpo, che tradiva la facciata di gelido, distante rifiuto che Subaru si trovava a interpretare quando era di fronte a lui. Ripensarlo lo riportò al presente, e all’assurdità della situazione – Seishiro e la chiazza del suo sangue su quel divano frusto, per motivi che non riusciva a comprendere e che, probabilmente, non aveva del tutto voglia di sondare.
Tracciò una linea sottile contro la sua guancia, in un tocco così fievole che un uomo nelle sue condizioni non avrebbe mai potuto percepire, poi scosse la testa.
Lo odiava, principalmente perché era stato capace di farlo rassegnare alla sua natura, e perché a Seishiro non importava nulla di tutto questo. Lo odiava perché, del cuore che batteva sotto quegli strati di carne mal tenuta, Sakurazuka Seishiro era la parte più consistente; estirparlo avrebbe significato morire senza alcuna possibilità di appello, viverci senza era impossibile, ma, forse, fare la fine dei suoi cadaveri sotto il ciliegio significava almeno estinguere una sete che Seishiro non avrebbe potuto – o, sostanzialmente, voluto – estinguere in qualunque altra maniera. Doveva almeno riconoscere a se stesso che mai e poi mai, nel corso di tutti quegli anni, si era crogiolato nel pensiero di ottenere una speranza. Questa, almeno, era una remota manifestazione di buonsenso.
Sarebbe.
Sarebbe stata.
Si strofinò la fronte con una mano, borbottando qualcosa di estremamente contrariato, poi sfiorò quella di lui, fra i capelli, per controllare se avesse la febbre.
«Dio, ma sei un problema ambulante» sibilò, alzandosi per andare a prendergli la borsa del ghiaccio. Quando la lasciò afflosciare sulla frangia madida di sudore, si sedette a gambe incrociate ai piedi del divano, la testa contro la sporgenza del cuscino, pensando che, forse, una buona dose di antibiotico avrebbe potuto fargli più che bene.
Poi, semplicemente si addormentò.

*

«Hai usato la magia nera.»
«Cosa?»
Subaru aprì un occhio con una certa fatica, le palpebre incollate dalla stanchezza e la vista vagamente appannata.
Mugugnò qualcosa nel notare che Seishiro era non solo sveglio, ma si stava sporgendo con la testa oltre il cuscino, osservandolo sospettoso e divertito con gli occhi ridotti a fessura, il sinistro puntato su di lui con un’intensità quasi fastidiosa e il destro che, pur vuoto com’era, gli dava comunque la sgradevole impressione di essere esattamente fermo sulla sua immagine.
«Non mentire, Subaru-kun, l’ho sentito, l’ho sentito come si può sentire un tuono in un cimitero.»
«Io non ho—»
«Hai usato la magia bianca per arrestare il flusso di sangue per un po’, ma non puoi fingere di avermi portato in spalla fin qui.»
Subaru lo squadrò inarcando le sopracciglia, con aria severa.
«Hai infranto un tabù, Subaru-kun» cinguettò Seishiro, con un sorriso irritante nonostante il dolore che lo tirava.
«Non fare il saccente con me, Seishiro-san—» sbottò il ragazzo, ma un indice di lui si appoggiò con fare casuale sulle sue labbra.
«Hai infranto un tabù, e l’hai infranto per me. Non hai studiato a fondo questo tipo di arte. Certamente ignoravi anche se l’incantesimo sarebbe andato a buon fine.»
Subaru lo spiò con aria sempre più torva e sardonica. Beh, sì, l’aveva fatto. Davvero questo non gli suggeriva un bel niente? Cominciò seriamente a ponderare se un Sakurazukamori difettasse d’acume, ancor prima che di coinvolgimento emotivo.
«Ti sorprende?» lo rimbeccò in tono amaro, ogni parola che sfiorava la punta del suo polpastrello.
Toccò a Seishiro guardarlo con un sopracciglio inarcato, ritirando il tocco, in un tacito invito a proseguire.
«È mai esistito, negli ultimi nove anni, un tabù che non ho infranto, per—»
Gli occhi di Seishiro sorridevano sempre, ma, ogni volta, si trattava del sorriso dipinto su un manichino, inestirpabile – e insopportabile, perché era dolce e spaventoso come quello di un bambino – a prescindere dalla circostanza. Stavolta, però, mentre Subaru evitava di riversargli in faccia tutte quelle verità che Seishiro nemmeno meritava di sentire, colse uno scintillio di consapevolezza, e di autentica, scombussolata sorpresa, che si affrettò a svanire nelle ombre del suo sguardo.
«Insomma,» tossicchiò Subaru, distogliendosi da lui con uno scatto «sei stato tu a insegnarmi che tutto il bene a cui ero votato un tempo era un’accozzaglia di buoni precetti mal eseguiti» sentenziò, alzandosi in piedi per stiracchiarsi.
«Ah, sì?» borbottò l’assassino in sottofondo, fingendo la giusta sfumatura di perplessità.
«… E comunque, sappi già da ora che ti costringerò a portare il divano in tintoria.»

*

La prima mattinata di convivenza forzata in presenza di Seishiro sorprese, quindi, Subaru intento ad alzarsi dal sofà intriso di sangue, scostando la coperta impregnata del profumo dell’uomo suddetto, che era stata silenziosamente complice dell’insonnia che lo aveva tormentato, per quel poco della nottata che aveva effettivamente impiegato a convincere un sonno sano e profondo a guardare non solo al ferito beatamente sedato nella sua camera da letto.
«Il sonno dei giusti, immagino!» brontolò, massaggiandosi la schiena con forza e andando a controllare che fosse perlomeno in vita.
Scivolò nella penombra della stanza con l’intenzione di fare meno rumore possibile. Seishiro dormiva col volto contratto, facendosi schermo con un braccio da una luce che non filtrava dalle tende. Il padrone di casa si sedette sul bordo del letto, passandosi una mano fra i capelli.
C’era qualcosa – l’ultima di una lista di sempre maggiore entità – che Seishiro gli stava nascondendo, e giacere ferito sotto al suo piumone migliore non era esattamente il modo più proficuo di comprare il suo silenzio.
Normalmente, un guerriero del calibro di Sorata-san non avrebbe mai potuto avvicinarsi a un Sakurazukamori e sperare non tanto di averla vinta, ma anche solo di scalfirlo. Ciononostante, la barriera protettiva che l’assassino aveva creato gli aveva tolto così tanta energia da lasciarlo completamente vulnerabile. Aveva tentato una mossa rischiosa, volta a tenere lontano l’avversario piuttosto che sfidarlo a viso aperto. Non per paura, sicuramente. Ma per cosa, allora? Mascherarsi sotto una simile barriera all’interno di quella creata da un Sigillo significava non voler farsi scovare da chiunque, lì nei paraggi, fosse in grado di attraversarla, e di percepire la sua forza a discapito delle precauzioni. Oltretutto, il punto in cui si erano scontrati non aveva nulla di prettamente strategico ai fini dell’Apocalisse e…
E Subaru si irrigidì per un momento.
Corse nello studio ad afferrare fax e appunti fra le mani – su uno dei fogli, un cerchio rosso.
Quello era il luogo nel quale era stato prefissato il suo lavoro.

*

«Natsume-san non parlerà.» disse seccamente, accennando con la testa alla giovane infermiera che stava trafficando con la vena del suo braccio «Non farà parola di tutta questa storia né con mia nonna, né con alcun individuo; la famiglia Sumeragi l’ha aiutata diverse volte, ed ha abbastanza esperienza da evitarci di chiamare un medico.»
«Beh,» considerò Seishiro in tono piatto «tanto valeva svegliarmi piantandomi direttamente con un ago nel braccio, per mettermene a parte.»
«Non essere teatrale» lo rimbeccò lui.
«Sei pregato già da adesso di non lamentarti, poi, quando ti concederò il beneficio dell’onestà e mi mostrerò completamente atono» protestò, incurante – o forse palesemente divertito – dall’espressione dell’infermiera.
«E comunque, trovo che l’incoraggiare una setticemia sia una strategia molto astuta, sai?»
«A che scopo, se posso permettermi?» chiese Subaru, aspro.
«Per liberarti di me, è ovvio!» puntualizzò lui, con uno sbrigativo cenno della mano.
«In realtà…» intervenne l’infermiera, esitando, «Subaru-san ha fatto un ottimo lavoro, e sarebbe bene che lei continuasse a prendere gli antibiotici e gli antidolorifici ad intervalli regolari, per non vanificarne gli effetti…»
«Sarà fatto, mia cara!» promise lui, con un sorriso amabile del quale Subaru riuscì a stupirsi: anche con il viso stravolto dal dolore, Seishiro manteneva delle capacità istrioniche al limite dell’umana irritabilità.
«Con questo direi che abbiamo finito!» decretò la giovane donna, sfilandosi i guanti di lattice e regolando il flusso della flebo «Non esitate a ricorrere agli antidolorifici e ai sedativi, se il dolore dovesse renderlo necessario…»
«Non ne dubiti,» considerò Subaru, cupo, mentre l’accompagnava lungo il corridoio «comincio a credere che parte della dose potrebbe essere ampiamente utilizzabile anche solo per farlo tacere…»
Davanti all’ingresso, Natsume rimase in silenzio, intenta a recuperare scarpe e cappotto.
«Non vorrei essere inopportuna…» disse, con un sorriso schivo «… ma… ecco, a me sembra che a lei piaccia sentirlo parlare. D’altronde, lei vive da solo da molto tempo, se non ricordo male…»
Subaru la fissò per un istante, i fondi occhi verdi appena sgranati in un attimo di silenziosa meraviglia, mentre fermava la mano sul pomello della porta.
«Sì,» mormorò, sorridendo amaramente «immagino sia così.»
Natsume gli rivolse uno sguardo triste.
«Si riguardi, Subaru-san» fece, nello spiraglio della porta.
Subaru annuì, assorto, o forse semplicemente tentato di ridere di lei.
«Farò del mio meglio.»

*

«Dove vai?» chiese Seishiro con voce vagamente impastata, allungando un’occhiata fuori dal bordo delle coperte per sbirciare Subaru che, sulla soglia della camera da letto, stava tastando le tasche del trench-coat in cerca delle chiavi di casa.
«A lavoro» sbuffò lui, dandogli le spalle. Seishiro ne approfittò per irrigidirsi in una lieve manifestazione d’allarme, ricordando bene cosa recitasse l’appunto sulla sua agenda.
«Cerca di non fare nulla di stupido nel frattempo» lo apostrofò il ragazzo, ignaro. Seishiro fece affiorare una mano per salutarlo di sfuggita.
«Lo stesso vale per te!» biascicò, nell’udirlo allontanarsi lungo il corridoio. La porta di casa si chiuse senza ulteriori risposte.
Oh beh. Seishiro scrollò le spalle spostando la testa da un lato. In fondo sarebbe stato quantomai interessante vedere come sarebbero andate a finire le cose.
Convocò il proprio shikigami e gli fece distrattamente cenno di seguirlo, coprendo uno sbadiglio con la mano libera.
Oggigiorno, le precauzioni non erano mai troppe.

*

«Sorata-san?» lo chiamò Subaru, stupito, stringendo una mano a pugno attorno al proprio trench-coat aperto e maledicendo fra sé e sé la pessima tenuta dei bottoni.
Sorata lo salutò con un cenno, che Subaru restituì, indagando cautamente l’aria grave di quegli occhi solitamente allegri.
«Cosa ci fai—»
«Ho chiamato l’agenzia della Casa Imperiale per assicurarmi che lei fosse davvero qui» esalò tutto in una volta, dondolando nervosamente il peso prima su un piede e poi su un altro.
«Potrei sapere perché?» chiese lo sciamano, aggrottando le sopracciglia e, forse, infondendo nella domanda più freddezza di quanto avrebbe voluto in principio.
«Qu-Quel ti—volevo dire, Sakurazukamori-san-» si corresse, notevolmente imbarazzato al ricordo della scena a cui aveva assistito, che pochi dubbi lasciava riguardo a quale tipo di rapporto il Sumeragi intrattenesse con l’assassino di sua sorella, e molti, invece, su come avrebbe reagito leggendo una nota di disprezzo nelle sue parole «-stava cercando qualcosa, qui.»
«Sarebbe a dire?» lo incalzò l’altro, per poi darsi mentalmente dell’idiota nel rendersi conto di quanto, sotto la patina educata delle parole, suonasse brusco alle sue stesse orecchie.
Come a conferma di quel pensiero, vide distintamente che il ragazzino si stava trattenendo stoicamente dal fare un balzo all’indietro.
«Non ne ho idea, purtroppo,» sbuffò, dandogli l’impressione di essere davvero spiacente di non saper dirgli di più «ma ci siamo scontrati qui, ieri pomeriggio, dopo esserci intravisti per caso, e… uhm.»
Subaru sottolineò la propria confusione con una piccola smorfia, mentre Sorata si mordicchiava un labbro, in cerca delle parole adatte.
«Questa forza può sentirla benissimo anche lei, immagino. Lui sembrava voler fare in modo che nessuno ne prendesse nota, ad ogni costo.»
Subaru assentì lentamente. Prima ancora che Sorata avesse terminato di parlare, lui aveva già chiuso gli occhi, nonostante avrebbe potuto farne a meno: il flusso, una corrente nera come bitume, lo si percepiva già nell’aria.
Nell’abbandonarsi alla sua onda, Subaru lo avvertì scavarsi di prepotenza un posto nelle sue vene, in una scarica elettrica che partiva dal dorso delle mani e gli incendiava i nervi.
«Ah—» barcollò, spalancando gli occhi e cercando involontariamente sostegno nell’altro Sigillo, che si era affrettato a sorreggerlo. Si umettò le labbra in silenzio, ispezionandosi le mani con aria ancora incredula: sul solco lieve dei pentacoli, sottile come se le labbra di Seishiro, quel giorno, gliel’avessero ricamati addosso, si scorgeva l’alone rosso di una bruciatura.
«Questa forza—» annaspò, come se fosse riemerso a grandi bracciate dal fondo di un’immensa piscina.
«È la sua!» azzardò Sorata, torvo, ma Subaru scosse lievemente il capo, in un gesto nervoso e, nei limiti di quel che permetteva al proprio autocontrollo, anche decisamente scomposto. Addirittura, adesso che lo osservava meglio, nonché da vicino come solo Kamui aveva potuto fare fra tutti i Draghi del Cielo, Sorata poteva vedere come quell’attimo di tentennamento gli avesse strappato dalla pelle il contegno abituale.
In un certo senso – decretò Sorata, ricordando il viso di Sakurazukamori-san ancora sconvolto, il giorno della battaglia – l’assassino e il tredicesimo capofamiglia dei Sumeragi erano molto più di due metà di un emisfero… Spesso e volentieri, apparivano uguali in maniera sorprendente, già al cospetto di un estraneo come lui.
«No. Questa forza non appartiene a Seishiro-san, eppure…»
Sorata aprì le labbra, ma Subaru stroncò la sua protesta con un cenno della mano.
«Eppure non può essere che sua» sussurrò, in un misto di rabbia e trasporto che Sorata non volle e non poté decifrare.
Senza tradire un minimo cambio d’espressione, il ragazzo si voltò a fissarlo.
«Dovremmo andare a controllare» suggerì Sorata a mezza voce, particolarmente indisposto da quell’occhiata penetrante e indifferente insieme.
«Andrò io» disse Subaru sbrigativamente, raggelando all’istante tutto il cedimento di un attimo prima «Tu torna all’Istituto CLAMP, Kamui potrebbe aver bisogno di te. D’altronde, questo è un lavoro per cui sono stato pagato» aggiunse, incamminandosi in direzione dell’edificio che si ergeva di fronte a loro.
Non visto, quando già lo sciamano gli stava dando le spalle, Sorata ridacchiò – un suono simile a un soffio, ma sufficiente perché Subaru gli rivolgesse un’ultima occhiata perplessa.
Il ragazzo si grattò la testa con aria colpevole.
«E soprattutto, è una questione fra voi due, e nessun altro, vero?»
Subaru rise appena, con aria un po’ dimessa – il che fu abbastanza perché Sorata tossisse in un sincero accesso di stupore.
«Sì, immagino tu abbia ragione.»

*

Il proprietario dell’appartamento era un antiquario che passò tutto il tempo a gesticolare, stringendo freneticamente il nodo della raffinata cravatta di seta.
Nulla di quanto stava descrivendo a Subaru gettava le premesse per un caso anomalo o particolarmente difficile: grida, risate e sussurri che riecheggiavano in una casa in cui non abitava nessuno, macchie di sangue che comparivano a caso su oggetti, suppellettili che si spostavano di propria sponte… fenomeni abbastanza comuni nel loro complesso, e ai quali la forza di un Sakurazukamori non era certo il collegamento più plausibile e immediato.
Subaru si massaggiò delicatamente le tempie, cercando di calmare il lieve, insistente insorgere del mal di testa che la pressione di quel potere su tutto il suo corpo stava incentivando. Sogghignò fra sé e sé, sbirciando di sfuggita i marchi sulle mani: d’altronde, era la preda. Qualcosa, dentro di lui, rispondeva all’energia che mulinava sempre più vorticosa, man mano che Subaru si faceva strada verso il centro, mentre un’altra si contorceva in preda alla nausea. Si appiattì contro la parete di metallo dell’ascensore, annuendo brevemente alle parole del cliente poco attento al suo malessere. Poi, colto da un’improvvisa folgorazione, ne interruppe seccamente il chiacchiericcio.
«Mi perdoni, Kobayashi-san… da chi ha comprato questa casa?» chiese, sistemando meglio sulla spalla la sacca di seta con gli strumenti del mestiere.
«Un’asta governativa.» rispose l’uomo con una scrollata di spalle «E ora comprendo le ragioni del prezzo stracciato…» borbottò, rabbrividendo visibilmente.
Subaru, occupato a seguire il campanello d’allarme che aveva preso a suonare nella sua testa, lo ignorò. Al disotto della folta patina di inchieste e documenti che ostacolavano il lavoro dei Sakurazukamori, Subaru sapeva che la connivenza loro accordata non differiva molto dal trattamento che riceveva la famiglia Sumeragi. Se non altro, assumere che quella fosse una proprietà da loro ottenuta tramite fondi statali spiegava in parte l’energia che vi si sprigionava, ma non perché fosse viva e attiva a tal punto: percorrendo il corridoio, Subaru si rese conto di come tutto lo stabile sembrasse tutt’altro che abitato. Non era certo un criterio di giudizio da valutare con certezza, ma il capoclan non sembrava averci messo piede di recente: per quanto simile fosse, Subaru conosceva l’aura di Seishiro meglio del proprio corpo, e poteva assolutamente affermare che non era uguale a quella che percepiva in quel momento. Inoltre, Sorata gli aveva confidato di aver sorpreso l’assassino ad aggirarsi nei dintorni con l’aria di chi stesse cercando qualcosa – ora come ora, le sue condizioni attuali gli avrebbero sicuramente impedito qualsiasi tentativo di ricognizione a breve termine.
Come per scrupolo, si voltò in direzione dell’ascensore per osservare le tracce dei propri stivali nello strato di polvere sul pavimento. Nessun inquilino la calpestava da tempo, né abitava gli appartamenti, che, già dagli stipiti, presentavano inequivocabili segni d’abbandono.
Kobayashi precedeva Subaru in direzione dell’appartamento infestato, trascinando i piedi in un insindacabile accesso di paura. L’onmyouji, al momento, aveva ben altri pensieri, per potersi seriamente preoccupare delle sue fobie. Se chiudeva gli occhi, il suo mondo interiore prendeva a crepitare in grosse, viscide bolle di fuoco, il che stava aizzando un malessere considerevole. In quel palazzo – o, più precisamente, nell’appartamento in cui si apprestava a mettere piede – dimorava qualcosa che Seishiro aveva deciso di non fargli scoprire a tutti i costi, e non certo per amore della sua incolumità. Persino in quel momento, sul limitare della sua mente, riusciva a percepire la sua presenza: il suo shikigami doveva essere lì da qualche parte, di vedetta come al solito. Subaru non si era mai illuso di essere fuori dalla sua sfera di monitoraggio, nel corso di tutti quegli anni, e si auspicò che Seishiro ne avesse preso ben nota: se l’assassino era stato deciso, di tanto in tanto, a non farsi scovare nei paraggi della sua preda, di certo Subaru non era riuscito a trovarlo. In questo momento, tuttavia, era lampante che chi si palesava in maniera talmente sfacciata aveva tutta l’intenzione di starsene appollaiato a fare da spettatore a una serie di eventi della cui portata Subaru non aveva la più pallida idea.
Tuttavia, era fermamente convinto di possedere una strenua, minima, residua dose d’orgoglio e di amor proprio: se era la guerra a viso aperto, ciò che Seishiro stava cercando, beh, era esattamente quel che avrebbe ottenuto.
Si avvicinò alla porta e girò cautamente il pomello. Una scarica di fulmini si avvolse attorno al suo polso, sagomando le linee del pentacolo.
«On!» esclamò Subaru, in una sillaba di stizza perentoria. Tutto quel bailamme si placò all’istante, e l’ingresso si schiuse, docile come un ingresso qualunque.
La vista dell’ingresso suscitò nel padrone un mezzo gridolino di esagitato terrore, a cui Subaru reagì roteando gli occhi.
«Non irriti lo spirito,» sibilò, appoggiando le scarpe sul genkan «e cerchi di comportarsi normalmente.»
Certo, per un non addetto ai lavori – ma anche per un addetto ai lavori che non avesse mai avuto a che fare con il clan Sakurazukamori, in verità – Subaru riconosceva che la scena che si profilava davanti ai loro occhi era quantomai inquietante: su ogni superficie piana disponibile (e il tocco di famiglia era perfettamente visibile, perché si trattava di raffinata mobilia occidentale in stile Luigi XVI) bruciavano lentamente dozzine e dozzine di candele, infilate ordinatamente in massicci candelabri d’argento, rischiarando di una luce cupa e fumosa una stanza che, a giudicare dall’odore di muffa e di chiuso, non vedeva la luce del sole da parecchio tempo.
Dappertutto spuntavano ampi lembi di stoffa damascata, tinta di un rosso scurissimo che – Subaru rabbrividì – ricordava del sangue raccolto in una pozza. Gli anelli che luccicavano qua e là davano a intendere che, una volta, quelle fossero state tende.
Tutti i fusuma erano chiusi, e decorati da eleganti disegni stilizzati di rami di ciliegio in fiore – nel fissare a lungo quello di fronte a sé, Subaru sentì il suo stomaco fare un salto, e sentì l’ometto al suo fianco replicare il movimento con pedissequa, terrorizzata fedeltà.
Tutta la superficie di carta era costellata di schizzi rappresi, che punteggiavano in maniera grossolana e irregolare il disegno, come se qualcuno avesse sventolato un grosso pennello a tutta velocità. Subaru, cresciuto troppo a lungo e troppo in fretta all’ombra di una stella rovesciata, non si fece alcuna illusione in merito, e gli bastò alzare di poco gli occhi per notare un denso fiotto di sangue arrugginito, spalmato ad arco proprio all’altezza della testa di un uomo. Non poté sopprimere l’immagine che gli salì alla mente in quel momento – Seishiro e il suo costoso completo nero chiazzati del sangue di uno sconosciuto, lui intento a tingere il fusuma con la mano ancora sporca e ancora calda, un sorriso di soddisfazione indolente tratteggiato sul viso, magari – e si sentì rivoltare da qualcosa a metà fra un conato di vomito e uno scroscio di febbre lungo tutto il corpo.
Con una smorfia di disgusto, preferì guardarsi intorno con attenzione.
Non si stava davvero interrogando sulla generica stranezza degli arredi, per quanto questi facessero a gara per guadagnarsi la sua attenzione e deconcentrarlo. L’onmyouji era alla disperata ricerca della ragione del potere oscuro che pervadeva tutte le cose, lì dentro, e attraversava la sua testa scavandosi un solco nella sua materia cerebrale, in una sensazione fisica, straniante, ma non dolorosa. Chiuse di nuovo gli occhi, aggrappandosi all’inconscio brandello di calma che, di solito, raggiungeva dopo ore e ore di sofferta meditazione.
Completamente accerchiato dalla magia – poco importava che fosse opposta alla sua – fu facile lasciarsi attraversare, e spaziare oltre se stesso. In un simile stato di distacco, non ci volle molto per comprendere che le scie di calore che percorrevano la sua testa disegnavano un pentacolo.
E la forza scorreva secondo le sue cinque linee.
Subaru afferrò la manica di Kobayashi senza troppe cerimonie, e l’uomo non si sentì certo nella condizione di contraddirlo o di mostrare spavento ulteriore. Subaru avanzò in silenzio, l’immagine del pentacolo incisa dietro le palpebre, fino a che entrambi non si trovarono con i piedi nel suo centro.
Fu solo allora che, da un paravento di fronte a loro, provenne una lieve, tintinnante risata.
«Ma guarda un po’ cosa è arrivato oggi!» esclamò contenta una voce di donna, l’ombra che scivolava graziosa dietro al pannello di carta.
Subaru fece cenno a Kobayashi di non farlo scorrere, perché quella non era una donna di carne… ma neppure uno spirito qualunque. Rigido come un morto, il cliente non si mosse: non gli serviva certo l’intimazione dello sciamano, per evitare un colpo di testa del genere.
«Ci conosciamo?» inquisì Subaru con fredda, controllata cortesia, mentre faceva scivolare a terra la sacca di seta con il materiale necessario per l’esorcismo.
«Metti via quei gingilli, ragazzo,» lo interruppe lo spettro, con il rapido, civettuolo sventolare di una minuscola mano. Aveva una voce soave, ma gli gelava il sangue nelle vene, e sembrava la sorgente dell’energia che investiva la casa, un motivo più che valido per accondiscendere ai suoi dettami.
In un gesto rigido, Subaru obbedì, scansando gli attrezzi del mestiere senza ulteriori domande.
«Bene, vedo che ci intendiamo a sufficienza!» esclamò lei, con una risatina «E adesso, vediamo di liberarci delle altre seccature» aggiunse.
Subaru, schermato dalla carta decorata, stava approfittando del momento per cercare con gli occhi lo shikigami di Seishiro, e lo schiocco delle dita del fantasma lo colse talmente di sorpresa da farlo sobbalzare – aveva appena intercettato il falco, che questo si dissolse in una nuvola di fumo. Contemporaneamente, Kobayashi – che il leggero accento imperioso degli ordini del fantasma aveva letteralmente gettato in posizione seiza – caracollò immediatamente all’indietro e prese a russare sonoramente.
«Ma cosa—» balbettò il ragazzo, per poi affrettarsi a tacere: se davvero era a lei che apparteneva tutta l’essenza che schiumava nella stanza, aveva poco da meravigliarsi se aveva poteri in grado di scacciare anche uno shikigami di tal fatta.
«Ora che non vi è più rischio di intromissione alcuna, mio caro Sumeragi Subaru,» cinguettò la donna con fare vagamente altezzoso «Credo lei possa sentirsi in diritto di chiedere almeno il mio nome.»
Il tono di confidenziale sufficienza con cui l’aveva apostrofato era diventato improvvisamente formale, intriso di un rispetto che, in fondo, lo faceva sentire deriso, una sensazione che le sue conversazioni con Seishiro gli avevano insegnato a riconoscere a menadito.
«E sarebbe, se posso?» chiese l’onmyouji, senza preoccuparsi di mitigare la propria asprezza – simili nemici l’apprezzavano proprio perché la sfida stava nell’ammutolirla ad ogni costo, stando a quanto gli aveva insegnato l’interagire con un assassino di professione.
«Tsubaki» disse lei, facendo vibrare in ogni sillaba il sorriso – un po’ soddisfatto e un po’ canzonatorio – che Subaru, dalla sua ombra, non poteva constatare.
«C’è qualcosa che posso fare per lei?» domandò Subaru, infondendo una sfumatura di gentilezza alle proprie parole – si trattava pur sempre di uno spirito inquieto, o almeno così Subaru voleva credere, in uno slancio di buonafede.
«Certo che sì, potresti farmi vedere che bel ragazzo sei diventato.»
«Prego?» si accertò lo sciamano, con una certa enfasi. Tsubaki ridacchiò in risposta.
«Guardati, sei sbocciato. Come un fiore di ciliegio.»
«Al momento, credo che questo sia uno dei miei principali crucci» puntualizzò Subaru, seccato, ma deciso a non recriminare su quella rediviva mancanza di formalità.
«Seishiro è solito trattare le cose belle con particolare riguardo. Non dovresti sprecare una simile carta da giocare, se vuoi il mio modesto parere.»
«Cosa?!» se la presa in giro di uno spirito in vena di confidenze non lo smuoveva, certo l’effetto lo sortiva, invece, il nome di Seishiro buttato lì con un’intimità quasi inaudita.
«A quanto vedo, il giocattolo di Seishiro è del tutto dimentico delle buone maniere!» esclamò Tsubaki, con una punta di vivace altezzosità. Subaru tossì, ostentando una smorfia infastidita: detta a un Sumeragi, quella era un’offesa da prendere su un piano prettamente personale. Lo stesso avrebbe dovuto valere anche per il modo in cui Tsubaki si era permessa di etichettarlo come il trastullo di Seishiro. Tuttavia, per quanto gli dolesse ammetterlo, un tale stato di cose rispecchiava in maniera tristemente oggettiva la realtà dei fatti.
«Conosce Sakurazuka Seishiro?» si limitò a interrogarla freddamente, eliminando ogni traccia di possibile empatia dal proprio tono di voce: c’erano circostanze in cui anche un Sumeragi, votato alla pietà anche per i fantasmi più turbolenti, conservava una certa dose di amor proprio.
«Discretamente bene, direi, sì» annuì lei, laddove quel discretamente assumeva una sfumatura di maliziosa superiorità.
Subaru ridusse i propri occhi a fessura: qualunque cosa si stesse consumando intorno a lui in quel momento, era un gioco che non gli piaceva affatto, e che un professionista del suo calibro non era così prono a scambiare per un semplice tranello atto a pungolare la propria gelosia.
Tsubaki derise il suo silenzio in un delizioso tintinnio di risata.
«Immagino che lasciare che l’ultimo desiderio di un povero fantasma derelitto resti inadempiuto vada contro l’etica professionale della famiglia Sumeragi…»
«Di cosa si tratta? Il dono della telepatia esula dalle mie facoltà» disse lui in tono serio, ma tradendo più sarcasmo e asprezza di quel che era sua consuetudine palesare.
«Voglio rivederlo una volta ancora.»
Subaru incrociò le braccia al petto, cercando invano di trattenere un lieve accenno di broncio.
«Voglio che tu lo porti qui. Da me.»
«Perché?» chiese Subaru, con oltraggiata ostinazione.
«Perché chi pensa di vivere al disopra delle regole necessita di una lezione, una volta ogni tanto» scandì Tsubaki, con voce talmente penetrante che Subaru fu scosso da un brivido di paura mai provata in tanti anni di onorato servizio.
Annuì compitamente.
Se non altro, era doveroso dargliene atto: qualunque cosa si proponesse di raddrizzare Seishiro, per quanto Subaru dubitasse intimamente della riuscita dell’opera, era cosa ben accetta, anche solo per lodevolezza d’intenti.

*

Quel tramonto era quanto di più rosso Subaru avesse mai visto in cielo in vita sua, e non era certo il genere di presagio di cui prendeva nota volentieri, considerata la presenza di un Sakurazukamori in casa propria.
Sospirò, scuotendo la testa soprappensiero, mentre aspettava l’ascensore, giocherellando distrattamente con le lattine di caffè freddo nel sacchetto di plastica.
Si mosse con passo guardingo sulla moquette del pianerottolo, fissando di sottecchi il panorama che si stagliava dal finestrone: dove il cielo cominciava a illividire, c’era uno strato di foschia.
Infilando la chiave nella toppa della serratura, si impose di fare il meno rumore possibile e, subito dopo, si rese conto che si trattava della solita contromisura inveterata da preda braccata. Con il lupo in casa, era lampante che anche queste accortezze si coprivano – lo coprivano – di ridicolo.
«Seishiro-san? Sono a casa!» disse a voce alta nel corridoio, mentre lasciava le scarpe sul genkan. Si irrigidì nel bel mezzo del movimento, nel rendersi conto di quel che aveva appena detto: era uno di quei momenti in cui il ridicolo verteva decisamente al surreale.
Nel caso specifico della sua esistenza, si disse, mentre lanciava le chiavi nel vuotatasche, il salto dal surreale al paranormale era una conseguenza fisiologica e interscambiabile, di cui, il più delle volte, l’assassino e occasionale mangiapane a ufo che infestava casa sua come un calo del desiderio infestava una luna di miele possedeva ogni tassello.
Questo sembrava essere, appunto, il topos di uno di quei momenti.
Per sfortuna della famiglia Sumeragi nel suo complesso – e della ristretta fascia di istituzioni che si opponeva all’egemonia nell’ombra del clan Sakurazukamori – le informazioni sulla famiglia in questione erano scarse, e generalmente inattendibili. Non avrebbe commesso l’ingenuità di attingere informazioni alla fonte: quello che aveva avvistato era pur sempre il suo shikigami, e, qualunque informazione avesse ottenuto, Seishiro non avrebbe tardato a ritorcergliela contro. Dovendosi quindi arrangiare con ciò che era a sua disposizione, poteva dire che Tsubaki gli ricordava poco più di un mazzo di camelie, cosa alquanto in contraddizione con l’energia che l’animava, e che, inflessioni trascurabili a parte, sembrava derivare direttamente dal Sakura.
«Oh, sei qui» borbottò, entrando in cucina. Seishiro, compostamente seduto al tavolo, lo salutò con un cenno. Subaru assottigliò gli occhi nell’osservarlo: ad esclusione dei dettagli più lampanti – tipo il fatto che fosse seduto al suo tavolo di cucina, che lo fosse dopo essere stato praticamente ammazzato a sciabolate e che fosse senza giacca – c’era qualcosa di terribilmente stonato in lui.
«Non dovresti essere qui» lo ammonì freddamente, accennando con la testa alla camera da letto.
«Andiamo, Subaru-kun» rispose lui, con una plateale scrollata di spalle «Quel ragazzino è un monaco, e io sono pur sempre un Sakurazukamori… sono fatto per riprendermi in fretta.»
Mentiva spudoratamente: Subaru prese nota di come, oltre il sorriso supponente, il viso fosse di un pallore spettrale e decisamente malsano. Non era inoltre difficile accorgersi che c’era qualcosa di eccessivamente rigido nel modo in cui Seishiro stava seduto. Subaru sogghignò appena: non stava appoggiato al tavolo con la consueta nonchalance; sembrava piuttosto ci si fosse aggrappato con la ferma intenzione di non cadere a terra. Chissà da quanto se ne stava appollaiato in cucina, per mettere su il teatrino dell’assassino inossidabile.
«D’accordo, come vuoi» assentì distrattamente Subaru, aprendo i pannelli di vetro della portafinestra e invitando Seishiro all’esterno.
Con una certa fatica, l’altro si alzò dalla sedia, trattenendo un sibilo di dolore, per seguirlo in veranda.
Nell’aria rossa e immobile, Subaru appoggiò i gomiti sul parapetto di cemento e lasciò che Seishiro, senza chiedere, gli sfilasse una sigaretta dal pacchetto con cui stava giocherellando. Mentre la accendeva, prontamente imitato dal padrone di casa, si accomodò nella sua stessa posizione, sfiorandogli una spalla. Con il passare dei secondi, quella postura, che era sembrata uno dei suoi soliti puntigli, si caricò di un peso sufficiente perché Subaru realizzasse che, in realtà, Seishiro stava cercando di restare in piedi senza cadere.
Calò il silenzio, il fumo che, fra le loro teste, rotolava controvento in mille anelli, come se la lieve brezza che si era levata volesse tirare una linea fra loro.
Era uno di quei silenzi che Subaru detestava: trovarsi talmente a suo agio in prossimità di Seishiro era qualcosa a cui né i suoi sensi né il suo codice morale erano abituati.
«Avanti, chiedimelo» disse, facendo rotolare la sigaretta fra le labbra.
«Cosa?» Seishiro, apparentemente scandalizzato, dilatò gli occhi con fare istrionico.
«Non fare finta di nulla. Davvero pensavi che non mi sarei accorto del tuo shikigami?»
«Beh,» Seishiro fece per stiracchiarsi «come anche tu hai potuto constatare, non confidavo che avrei potuto usufruirne a lungo, ad ogni modo…»
Subaru cercò di concentrare la sua irritazione in un’unica occhiataccia.
«Non è questo il punto, e tu lo sai.»
Seishiro rimase pensoso per un istante, poi tentò di folgorarlo con un sorriso smagliante.
«No, infatti,» disse «Credevo che il punto fosse un rapido e amichevole resoconto di come ti è andato oggi il lavoro!»
«Io scommetto che tu ne sai più di me, di come sta procedendo il mio lavoro…»
«Non ti conviene, non hai mai avuto troppa fortuna con questo genere di cose…»
Subaru ignorò la provocazione – azione obbligata, per resistere all’impulso di scaraventarlo giù dalla veranda – e osservò con eccessiva attenzione il pigro rincorrersi del fumo.
«Lo spettro vuole vederti, il che significa che domani verrai con me.»
«Bah,» borbottò l’assassino, premendosi contro la sua spalla «nemmeno gli spettri sono più quelli di una volta…»
«Ah, e c’è un’altra cosa, Seishiro-san» lo informò Subaru, ignorando completamente il suo rimbrotto.
«Ma sentitelo!» esclamò l’altro fra i denti, e stavolta il ragazzo non fu certo che quel vago accenno di irritazione fosse del tutto costruito.
«Piantala di fare la scena e accasciati» aggiunse sottovoce, stringendosi nelle spalle quel poco che bastava perché l’assassino potesse appoggiarvici tutto il braccio.
E Seishiro sospirò, rassegnato e decisamente stroncato dall’effetto degli antidolorifici che si dissipava, per poi chiedersi quando diavolo Subaru avesse imparato a ridurre la voce a un simile sussurro.

*

«Hai tutta l’aria di un uomo intento a ridere delle mie disgrazie.»
«Oh, certo,» mormorò Subaru, senza staccare gli occhi dal bastone da passeggio su cui Seishiro poggiava il proprio peso «è una verità universalmente riconosciuta che i Sumeragi debbano portare morte e distruzione per festare sui cadaveri altrui!» sputò, in un incontenibile accesso di sarcasmo.
Seishiro – dall’alto di anni e anni di consumato esercizio della propria professione – inarcò un sopracciglio.
«Non avrai mica recentemente letto Orgoglio e Pregiudizio, mh?»
«Oh, taci» sibilò Subaru, incamminandosi a passo risoluto, e Seishiro giurò, per un istante, di averlo visto arrossire.
«Sumeragi» disse fra sé e sé, come se stesse parlando di inestirpabili piaghe sociali. Poi si affrettò a seguirlo per quanto possibile, lanciando occhiate nervose al pullover che Subaru gli aveva comprato per evitare il freddo sulle bende, e che spuntava molesto e antiestetico dal bavero del cappotto.
Con una punta di rammarico, si disse che mai più si sarebbe trovato in una circostanza che, più di quella, meritasse una cravatta abbinata a una bella camicia.

*

Era difficile mostrare tutto lo spaesamento che doveva averlo abbandonato nel momento in cui aveva messo piede nello stabile insieme a Subaru: quell’energia da cui si era così alacremente prodigato a fuggire gli svolazzava attorno come la seta di un bozzolo, carezzando la sua pelle in mille fili.
Una sola occhiata alla sua destra era sufficiente a indovinare che, per Subaru, la reazione ad essa fosse diametralmente opposta, perché sembrava lo stessero soffocando con una manciata di terra.
Meno problematico fu fingere di non ricordare i corridoi ormai abbandonati attraverso i quali si stava facendo condurre: quella doveva essere una delle residenze di famiglia collaterali. Seishiro era ancora ragazzino quando un certo numero venne confiscato dal Governo per un’azione di copertura, e ciò che nella sua memoria persisteva di quella in particolare si esauriva principalmente in un’accozzaglia di arredi occidentali, il lembo di uno splendido kimono di sua madre e un fusuma macchiato ad arte di sangue fresco.
Negò a se stesso di percepire un inadeguatissimo senso di inquietudine: se prima aveva avuto un lieve sospetto contro il quale prendere le dovute precauzioni, adesso non aveva quasi alcuna incertezza su cosa li avrebbe attesi all’interno dell’appartamento. Seishiro, sogghignando, guardò Subaru che scivolava senza rumore sulla polvere del pavimento.
Oramai, le circostanze non gli imponevano che il conto alla rovescia, ed era pressoché eccitante non sapere cosa aspettarsi esattamente, al termine della miccia.
Quando Subaru aprì la porta per guidarlo all’interno, premurandosi, con interesse quantomai curioso, di non farlo inciampare su tappeti e vecchiume, all’occhio di Seishiro saltò immediatamente il monumentale fusuma là di fronte: l’arco di sangue che la mano di sua madre aveva tracciato allora si era ossidato come ruggine.
«Guardalo bene, Subaru-kun» cantò una voce in un esile cinguettio d’usignolo, appena sfumato dalla tela di un paravento «perché ho ragione di credere sarà l’unica volta in vita tua in cui riuscirai a leggere tanta sorpresa nel suo sguardo.»
Seishiro appianò immediatamente ogni traccia di stupore dall’espressione, come se quel pacato tentativo di irriderlo fosse stato un ordine, ricacciando indietro un singolare formicolio causato da un appellativo che, nei riguardi di Subaru, era sua esclusiva prerogativa.
«Tsubaki-san? Eccolo, l’ho portato. Ora, se per favore potreste cortesemente procedere ai saluti, in modo da—»
Le labbra di Seishiro si distesero in un affascinante sorriso.
«Madre.»
Subaru non aveva sperato neppure per un istante che la risoluzione del caso avesse potuto affidarsi a un breve scambio di convenevoli e baci d’addio, ma si era almeno riservato il diritto di figurarsi un epilogo che non esulasse i confini già abbastanza vasti della propria immaginazione.
In uno sfoggio di dominio su cui Seishiro non avrebbe mai scommesso, si limitò a guardarlo ad occhi spalancati, aprendo una volta le labbra, senza che al gesto seguisse alcun suono.
«Perdonate l’ardire della mia curiosità, madre,» proseguì Seishiro, con affettazione quasi canzonatoria «ma come vi è stato possibile sfuggire al Sakura?»
«Ne deduco che tu non abbia creduto a una sola parola, quando ti ho intimato di non piantare alcuna camelia ai piedi del Sakura…»
«Ammetterete anche voi che suonava come un divieto suggeritomi per essere infranto.»
«Il solito impertinente» sussurrò lei.
Seishiro sorrise, in una frazione di secondo che sarebbe stata sufficiente a Subaru per prendere la parola, se la sorpresa non avesse asciugato in lui la possibilità di un commento qualsiasi.
«E… se posso, qual è il motivo della vostra—»
«Di carattere essenzialmente pragmatico» disse Setsuka, in tono assai più gelido e spiccio, nell’interrompere l’attuale capoclan «e anni di osservazione delle vicende che riguardano te e il tuo… il tuo qui presente hanno reso necessario un mio intervento diretto.»
«Anni? Da quanto—»
«Non crederai mica che la fuga dal Sakura sia faccenda di un paio di giorni! E comunque, fidati se ti dico che ho visto abbastanza, di te, per farmi un’idea precisa, nonché abbastanza per vedere se saresti capitato in buone mani… Mi consola non avere una rivale» si concesse Setsuka, in tono talmente civettuolo e a scapito di fraintendimento da far sparire dal viso di Subaru il poco colore e la poca compostezza che ancora vi sussistevano.
«Siete l’unica donna che io abbia mai amato…» sorrise Seishiro, con fare galante «Principalmente perché i miei gusti sembrano non convergere affatto in tal senso.»
«Trovo che questa conversazione abbia poco a che fare con i motivi della mia visita» lo rimbeccò Setsuka, con una punta di freddezza nella voce, privandola di ogni traccia di soavità.
«Bene, potreste quindi dirci—»
«Il tempo sta per scadere, Seishiro, e tu sei in tremendo ritardo.»
Le parole di Setsuka avevano tagliato le sue come un proiettile, e Seishiro si rese conto troppo tardi di essere stato centrato in pieno. Ad occhi appena sgranati nel soppesare quel che aveva udito, si concesse un secondo prezioso per riprendere fiato con discrezione. Non riuscì a impedire che sua madre ridacchiasse, e che Subaru, nel suo sbigottito silenzio, leggesse quel brillio di sorpresa che passò nel suo sguardo come un lampo.
«Il rito di successione non può attendere in eterno, e dovresti riconoscere che la faccenda sta andando avanti da troppo a lungo.»
Seishiro arricciò le labbra, di nuovo padrone di sé e della propria arroganza.
«Questa mi giunge nuova, non sapevo che i riti di successione fossero a scadenza» sentenziò, distendendo le parole in un sorriso pieno di boria.
«Attento, mio caro… solo lo sciocco ha sempre ragione.»
C’era una sfumatura di rassegnata indulgenza in quella frase, e Seishiro sentì il sorriso contrarsi sulle labbra.
«Nel vostro sangue scorrono due nature opposte e necessarie, come le due facce della luna piena. Ma tu hai rimescolato le carte del destino di entrambi, e questo ragazzo… dovrai prenderti la tua parte di responsabilità in quello che avverrà, e dovrai farlo adesso, o tutto quello che è stato e sarà esploderà come una stella.»
Stavolta aveva parlato con la lenta solennità di una sacerdotessa. Se il lieve pallore di Seishiro poteva essere ridotto a un mero gioco di luce delle candele, Subaru lo stava fissando con i grandi occhi verdi dilatati e il viso terreo.
Seishiro riuscì a mostrare una smorfia sprezzante.
«Noi Sakurazukamori abbiamo sempre saputo adattarci ai cambiamenti.»
Setsuka sospirò, contrariata.
«Tu, forse, ma questo bel ragazzo me lo stai logorando tutto…»
«Cos’è,» ghignò Seishiro «vorreste farmi credere che siete gelosa, adesso?»
«Vorresti farmi credere che servirebbe?» gli chiese lei, e la voce era quella un po’ dolcezza e un po’ artificio di quando gli sorrideva per prenderlo in giro.
Lui aprì le labbra per replicare, ma la risposta si trasformò in un’espressione divertita mentre osservava l’ombra disfarsi in uno sciame di fiori. Incrociò le braccia nell’osservarli volare in un’infinita scia rossa oltre la cornice del paravento, per poi sparpagliarsi tutt’intorno sui tatami.
Scosse la testa: petali di camelia.
Il soffio di vento che li aveva sollevati aveva spento parecchie candele, e tutti e due decisero di stare in silenzio a guardare gli stoppini anneriti che fumigavano.
Seishiro si schiarì la gola, facendo quanto più rumore possibile.
«Bell’esorcismo davvero. Sei stato indispensabile» considerò, sarcastico.
Abituato com’era, ormai, alla caustica capacità di Subaru di restituirgli le stoccate colpo su colpo, Seishiro si scoprì decisamente irritato da quel silenzio, così si voltò per guardarlo, e quel che vide lo persuase del fatto che Subaru doveva aver completamente perduto la residua voglia di scherzare.
A labbra così serrate da non poterle più distinguere nel pallore cinereo del viso, teneva gli occhi puntati sui suoi come se avesse potuto fulminarlo se avesse voluto, ragion per cui l’assassino si sentì in dovere di squadrarlo da capo a piedi con aria di superiorità.
Fra le le tante cose che intravedeva in quell’occhiata, ce n’erano almeno un paio che avrebbero dovuto spaventarlo, sospettò, ma di certo nulla a cui avrebbe degnato l’onore di una risposta.
«Tu ed io abbiamo delle cose di cui parlare.»
Seishiro roteò gli occhi, annoiato.
«Non sono forse le mie stesse parole di qualche giorno fa?»
Solo l’attimo dopo, con un gran dolore alla testa, ammise che quella domanda non fosse granché meritevole di risposta: Subaru l’aveva afferrato per il bavero della giacca e l’aveva sbattuto contro il fusuma, che aveva emesso un pericoloso scricchiolio di protesta.
«Niente affatto,» sibilò, da qualche parte sopra le sue labbra «lo sai meglio di me.»
Seishiro sbuffò. Venne ignorato.
«Voglio sapere cosa sta succedendo.»
«Dio mio, perché devi sempre darti più importanza di quanto ti spetti, mi chiedo?» esclamò, in un’imitazione perfetta di un uomo seccato oltre ogni limite.
«Questo sta a te spiegarmelo» disse Subaru, con una calma glaciale.
«Vorrei dirti davvero che mi duole ripeterti sempre le stesse cose, Subaru-kun…» bisbigliò Seishiro, imitando con cattiveria il suo sussurro «… ovvero che la tua vita sia appesa da quasi dieci anni al filo di un mio innocuo capriccio, ma il fatto è che… beh, non sono mai spiacente abbastanza.»
«Ma insincero quanto basta per ribadirmelo ogni volta.»
«Così mi spezzi il cuore.»
«Non credo proprio.»
«No, in effetti. Te l’hanno mai detto che sei quel tipo insopportabile che cerca la profondità anche nelle pozzanghere?»
Subaru finse di non sentire, e lo osservò con disprezzo, un disprezzo in cui Seishiro, dall’alto della propria condizione privilegiata, vedeva agitarsi qualcos’altro.
«Tu non significhi niente, Subaru-kun.»
Seishiro si premurò di scandirlo con tutta la chiarezza che poté, centellinando ogni lettera come una goccia che dovesse scavare la pietra.
Tuttavia, sembrava proprio che i tempi fossero cambiati: una volta Subaru non avrebbe retto una simile sferzata, ma in quel momento si ergeva come se fosse nato per incassarne l’effetto. E, forse, disse una vocina dentro di lui, troppo maligna persino per i suoi standard, le circostanze dimostravano che così era.
«Se è così…»
Seguendo i movimenti di Subaru, Seishiro abbassò gli occhi, e, per la prima volta in vita sua, sperimentò fisicamente la sensazione del fiato trattenuto di riflesso. Non si era accorto che Subaru aveva trascinato nella stretta anche la sacca di seta gialla con il materiale per gli esorcismi.
«… uccidimi.»
La mano di Subaru non tremava, nel tenere il tanto della famiglia Sumeragi con la punta rivolta verso la propria gola e l’elsa stretta fra le dita, cacciate a forza nel pugno di Seishiro, immobile sotto di lui.
Nemmeno la voce tremava, nonostante la punta di metallo carezzasse la carotide. Seishiro avrebbe voluto ridacchiare, ma si meravigliò del suono che si rifiutava di vibrare contro le corde vocali – tutto quello che poté offrirgli fu il proprio viso decisamente più confuso e meno teatrale di quanto Subaru fosse mai stato testimone.
«Non servirebbe certo la mia mano a guidare la tua.»
Forse era questo ciò che gli esseri umani chiamavano impulso: Seishiro lo sentì crepitare come una scossa elettrica dallo stomaco, per poi irradiarsi come un fulmine fino alla testa, come un fiotto di sangue che oscurasse la vista. In un battito di ciglia, le sue dita afferrarono quelle più sottili asserragliate attorno al manico del coltello rituale, scostandolo dal punto in cui si era fermato. Prima che Subaru potesse rendersene del tutto contro, era già stato ribaltato al suolo, con pugno e pugnale inchiodati al pavimento, la mano libera dell’assassino aggrappata ai suoi capelli.
Schiuse le labbra come per parlare, ma qualunque pensiero coerente si sciolse come cera a contatto del respiro caldo di Seishiro che si dissolveva sul suo labbro inferiore, e della bocca che, morbidissima, vi si chiudeva contro in un bacio avido e disordinato.
La mano di Subaru si chiuse a sua volta nei suoi, di capelli, quando Seishiro fece scorrere la punta della lingua contro la sua, sciogliendo un nodo di fuoco da qualche parte nella sua schiena. La presa contro il tanto si ammorbidì, ma Seishiro schiacciò più forte il tremito della sua mano contro il tatami.
Con una sete su cui non avrebbe mai scommesso, fece scivolare i palmi sul cotone a buon mercato della maglia di Subaru, mordendogli la curva del mento e liberandosi dell’impermeabile in cui i polpastrelli sembravano attorcigliarsi ogni secondo di più. Ma fu solo quando separò la pelle dal tessuto, accarezzando la linea dei fianchi, appena sopra quella dei pantaloni, che il corpo sotto di lui si appiattì sulle stuoie, senza sapere se sciogliersi e prendere fuoco, o irrigidirsi in un misto di eccitazione e rifiuto che gli era penetrato nel sangue come un veleno.
Il respiro di Subaru si spezzò bruscamente quando Seishiro gli afferrò la mano in cui giaceva il pugnale e ne guidò la stretta appoggiando un lato della lama sul ventre e facendola scorrere lentamente contro il bordo dei jeans.
Subaru rabbrividì, raggelando la pelle imperlata di sudore, il fremito che sembrava correre su un filo fatto di terrore e desiderio.
Ma erano i baci a dargli il vero sapore di quello che gli stava accadendo intorno e addosso: era di fame che gli parlavano, perché Seishiro affondava nella sua bocca in un ritmo di carezze e sospiri completamente scoordinati, e il coltello sembrava alleggerire la pericolosità del proprio peso, mentre l’assassino assaggiava Subaru col curioso, ghiotto abbandono di un ragazzino.
«Certo che non mi serve, la tua mano a guidare la mia,» soffiò fra le sue labbra, rafforzando il tocco sulla sua mano e sull’elsa «ma ammetterai che non è poi così male.»
«Tu sei uno stronzo» mormorò lui, senza abbastanza fiato in corpo per provarci, gli occhi socchiusi mentre Seishiro temporeggiava giocherellando appena sotto l’orlo dei pantaloni. Si decise a recidere il bottone che ne chiudeva la lampo, baciando in un piccolo morso quell’angolo che spuntava dall’asola orfana, ridacchiando di Subaru che sospirava di sollievo, piantando le unghie nella sua giacca per sfilargliela il prima possibile.
Seishiro si rigirò brevemente il coltello fra le mani, prima di incidersi un polpastrello.
L’attimo successivo, Subaru era in piedi davanti all’ingresso del proprio appartamento. Seishiro raccoglieva il kanji con la punta della lingua. Sembrava lasciasse su quella porzione di pelle lucida un marchio – un altro – ben più pesante, che lo inchiodava lì sulla tavola di truciolato della porta, le chiavi mezze girate nella toppa e Seishiro così addosso che Subaru si sentì soffocare, nello scattare della serratura.
Con il naso fra i suoi vestiti, inspirò il fumo delle candele impregnato nel tessuto, l’unico odore che un onmyouji respirasse come l’aria tutta la vita, e lasciò che Seishiro glielo succhiasse via dalla punta della lingua, scoprendo la pelle liscia sotto gli indumenti come si sbucciava un frutto, o un cadavere, o la memoria di un uomo. Chiuse un gemito silenzioso contro la sua bocca, le dita di lui libere attorno all’incavo dell’ombelico, la stanza un giro confuso di labbra e mobili spigolosi sulla carne nuda, prima che arrivassero a inciampare fra le lenzuola sgualcite della camera da letto.
Schiacciato sul suo, il corpo di Seishiro aveva un altro peso, le bende in cui era fasciato un’altra consistenza – lasciavano lo stesso prurito addosso a tutti e due, e Subaru sentiva un cuore battere convulso fra le cuciture al disotto. Seishiro, dal canto suo, ingoiava il dolore: cercava di coprire quel ritmo con tutto quello che aveva, con i denti, le labbra, le dita, passando sui suoi nervi come un fuoco, come a distrarlo, allentando la sua concentrazione su qualunque cosa non fosse quell’ingranaggio di carne solida aggrappato ai suoi fianchi, o il sudore che si ghiacciava nello spazio vuoto fra il materasso e il suo bacino.
E Subaru si lasciò andare, come se il suo corpo fosse un taglio adatto a contenerlo, come una vittima in un cerchio di incantatori che si assopisse consapevole del rischio.

*

Subaru sputò il coagulo di dentifricio e saliva nel vortice d’acqua del lavandino, evitando di fissarsi nella condensa dello specchio, in cui già si rifletteva la camera da letto, con la porta mezza socchiusa come una palpebra e il piumone malamente accartocciato sul letto. Seishiro ne era sfuggito in silenzio, e se ne stava appoggiato contro lo stipite, vestito di tutto punto.
«Beh?» il sorriso brillò per un attimo nella cornice.
«Se pensi di avermi fornito una risposta, mi sento in dovere di informarti che dovresti rivedere le tue posizioni al riguardo» commentò freddamente Subaru con una scrollata di spalle.
«Sai, se posso permettermi una critica… un altro dei tuoi problemi è sempre il finire ad aspettartene una a dispetto delle premesse.»
Subaru chiuse per un attimo gli occhi in un discreto, eloquente sfoggio di esasperazione.
«Tu insisti a confondere una risposta con una speranza, e posso assicurarti che è rimasto ben poco candore da demolire, con buona pace della soddisfazione.»
«E allora cosa—»
Subaru sollevò lo sguardo sul suo riflesso e lo vide mordicchiarsi l’interno del labbro.
«Non eri neppure sicuro che quello fosse lo spettro di tua madre, ma hai voluto prendere delle precauzioni. Hai cercato di schermarti con qualunque magia perché non trovasse te… e incrociasse me. Mi ha mostrato cose che non avrei dovuto vedere, vero? Che tu non avresti mai voluto mostrarmi. Tu temevi che lei mi trovasse.»
Poi, tacque. Si concesse un attimo di silenzio talmente profondo che Seishiro si chiese se per caso Subaru non si aspettasse di vederlo rabbrividire. Decise di incrociare le braccia e aspettare il resto.
«E non mi hai ucciso» aggiunse con fermezza.
Seishiro rise.
«Neanche tu hai ucciso me, per quanto mi risulta.»
Nella sua amarezza, il sorriso di Subaru era sincero, e gli aleggiava ancora sulle labbra, come uno spettro dell’adolescenza, quando si voltò a guardarlo.
«Ho sempre temuto di essere cristallino, rispetto a te, in merito a simili questioni.»
«Lo sai, ho i miei limiti su questo genere di cose. Che vuoi farci!» recitò lui, allargando le braccia con finto rammarico «Adesso hai abbastanza precedenti per pensare a me come a un uomo d’azione, se non altro.»
«Giusto per salvare la tua dignità in calcio d’angolo, non osare farmi credere di essere quel tipo di serial killer che gioca con le proprie vittime e si permette di soddisfare l’impulso di un attimo.»
Seishiro inarcò un sopracciglio con aria ostentatamente interdetta.
«Usi l’onmyoudo come me, Seishiro-san, al pari delle mie capacità. Mi vergognerei considerevolmente, se stentassi a riconoscere un maestro d’illusione che tenta di distrarmi con un po’ di carezze dal nocciolo della questione…»
Seishiro lo fissò con sincero, sorpreso interesse.
Subaru restituì l’occhiata.
«Seishiro-san… non hai mai accennato a un vero rito di successione, e sarebbe mio diritto sapere qual è la mia parte. Dici che non significo niente, eppure sono ancora qui.»
«Fossi in te, mi concentrerei sulle attenzioni che ti sei guadagnato e mi rassegnerei a non indagare oltre.»
«Hai detto a tua madre di essere in grado di adattarti ai cambiamenti… ma non a me, a quanto sembra.»
«Subaru-kun, accidenti a te,» Seishiro si avvicinò ridendo e scuotendo la testa, la mano appoggiata appena sulla sua guancia «giuro sul mio onore che il cambiamento ci sarà, questo posso garantirtelo…» e si interruppe per sostituire un rapido bacio al tocco delle dita e ridacchiare nel suo orecchio «… ma quando ti toccherà affrontarlo… beh, sarà solamente affar tuo.»
E le labbra di Subaru erano ancora aperte per replicare, nel momento in cui Seishiro aveva deciso di svanire in una cascata di petali di ciliegio, lasciando il suo viso solo nello specchio, fra le gocce di umidità che si diradavano.
Mentre il fax strepitava inascoltato all’ingresso, Subaru andò a stringersi al piumone stropicciato, le mani allacciate dietro la nuca, una pessima tazza di caffè sul comodino, accanto all’acqua ossigenata e alle garze che Seishiro aveva deliberatamente ignorato prima di rivestirsi.
Ripensò all’alone di sangue indelebile sul divano, ai piatti sporchi nel lavello, alla camicia malandata di Seishiro appallottolata in fondo all’asciugatrice, al tanto lanciato chissà dove sulle stuoie di Kobayashi-san, al profumo mescolato senza scampo fra le coperte.
Sembrava che l’unico modo di misurare la grandezza di un cambiamento consistesse nel valutare l’entità del vuoto che si lasciava alle spalle.
Senza sapere perché, Subaru rabbrividì.

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A/N 5 agosto 2010, ore 20:15. Non ho alcuna voglia di mettere note, ma ho il vago sentore che non riuscirò mai più, se non lo faccio adesso, dopo quasi cinque mesi di fatica sulla shot più lunga della mia vita, il cui plot mi è rimasto impresso a fuoco in testa fino a che non l’ho buttato giù, e di cui, esclusi i momenti di secca, ho scritto in media mille parole alla volta. Quando parlo di questi due sono fatta così, e spero di non avervi annoiati troppo. Beh. Il titolo è un verso dal De contemptu mundi di Bernardo di Chiaravalle, che Eco ha citato alla fine de “Il Nome della Rosa”. Per intero recita “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Vi risparmio tutta la noiosissima dissertazione filosofica che segue e vi dico solo che significa bene o male “La rosa primigenia esiste nel nome, e i nomi soltanto sono quel che ci restano”. La storia penso che parli abbastanza da sola, e scrivere una convivenza domestica senza dimenticare di chi mi stessi effettivamente occupando è stato il mio sogno di fanwriter per anni ç_ç, e ringrazio chi ha creduto in questa fic e l’ha amata dandomi la voglia di macinarne venti maledette pagine. Self is too happy for words, seriously. Spero vi sia piaciuta. Oh, e dimenticavo, lo “pseudonimo” di Setsuka non poteva significare altro che “camelia”! 🙂

Juuhachi Go.