[Ace Attorney: Justice For All] Till I’m gathered safely in

Titolo: Till I’m gathered safely in
Fandom: Ace Attorney: Justice For All
Personaggi: Phoenix Wright, Miles Edgeworth, Maya Fey, Pearl Fey et al.
Parte: 1/1
Rating: G
Parole: 3895 (LibreOffice)
Note: omosessualità, per la Crimsontriforce <3

Till I’m gathered safely in

Aprire la porta dello studio e inciampare nelle frasche sintetiche di un abete, con la caviglia presa al lazo da un cavo elettrico e il caffè preso da Starbuck’s che gli si allarga sotto il naso non è esattamente il modo ideale con cui Phoenix sceglierebbe di concludere la giornata.
«Ma che diavolo-»
«Sei in ritardo, Nick!»
Alzando gli occhi dalla pozza di caffè, il povero avvocato fissa con un po’ di genuina confusione le mani che Maya tiene sui fianchi in atteggiamento minaccioso.
Sospirando – e piangendo le sorti di giacca e camicia – Phoenix si rialza barcollando.
«Mi hanno bloccato in tribunale per spostare alcune cartelle vecchie di secoli… la polvere ci si era incrostata sopra, figurati! Avete già cenato?» domanda, appendendo il soprabito all’attaccapanni.
«Signor Niiiiiiick!» cinguetta la voce di Pearl, che si precipita a salutarlo dalla cucina strofinandogli addosso le guance spalmate d’unto e salsa piccante.
«Maya! Di nuovo hamburger?» brontola, rassegnandosi all’idea di fare un carico di panni in lavatrice. La ragazzina scrolla le spalle.
«Beh, nessuno di noi è andato a fare la spesa ultimamente, perciò ci siamo dovuti arrangiare!» replica la sensitiva con una risatina sorniona.
Phoenix sogghigna, arruffando i capelli della bambina che, nel frattempo, trotterella con lui in direzione bagno, ansiosa di gettarsi nello sgabuzzino alla ricerca di uno straccio.
La ricerca, nel caos che regna sovrano a casa Wright, è lunga ed estenuante, ma il pavimento viene prontamente asciugato. È in quell’istante che Phoenix, stanco morto, si trascina con Pearl sul divano. Maya li raggiunge giuliva con un thermos di cioccolata calda e tre bicchieri di plastica – nessuno ha voglia di lavare i piatti, ammonticchiati nel lavandino del tinello.
«Ma non avevi appena detto di aver cenato?» le chiede lui, perplesso dalla capacità dello stomaco di quella benedetta ragazza.
«Io sì, tu no però!» e gli versa una generosa porzione nel bicchiere. Il grugnito alquanto spaventoso del suo, di stomaco, è un ringraziamento eloquente «E poi cosa sono le repliche del Samurai d’Acciaio senza cioccolata calda?» aggiunge lei, impossessandosi del telecomando del lettore DVD.
«No! Ancora?!» protesta il padrone di casa: tre quarti della sua carriera forense hanno avuto a che fare con samurai assassini, per colpa di quel maledetto show, il che è abbastanza per causargli l’orticaria.
«Ma signor Nick! La mistica Maya ha detto che è suo dovere indottrinarmi ai programmi per bambini che stimolino il senso della giustizia!» s’infervora Pearl, sventolando le braccine ossute.
«Sì, come se non aveste avuto abbastanza esperienza pratica!» ride l’avvocato, in segno di resa. Lascia che tutte e due gli si accuccino a fianco sul divano sformato, srotolando due spessi plaid. Phoenix ammette a se stesso che scene del genere gli procurano degli accessi di tenerezza terrificanti: potrebbero chiedergli qualunque cosa, in questi momenti, e lui accetterebbe sfoggiando l’arguzia di un orsacchiotto di peluche.
A visione iniziata – ovvero nell’esatto momento in cui Maya comincia a recitare parola per parola l’intero episodio – Pearl si stiracchia.
«Mentre lei era in tribunale, la mistica Maya ed io abbiamo montato l’albero di Natale!» lo informa, orgogliosa.
«Oh!» e solo allora Phoenix fa effettivamente caso al fatto di aver travolto il proprio albero di Natale pronto all’uso «E immagino Maya ti abbia anche spiegato cosa sia, vero?»
«Certo, che domande! Abbuffate in grande stile, un sacco di regali e soprattutto… una grande festa!» e poco ci manca che cominci a saltare sul divano.
«Beh, penso che possiamo metterla così, in linea di massima…»
«… E ha detto che daremo una festa gigantesca per stare tutti insieme! Non è vero, signor Nick?»
«Ma certam–Cosa?!»
Dal bracciolo del divano, Maya si affretta a riempire di nuovo il suo bicchiere.
«Allora, Nick, è successo qualcosa di particolare oggi, in tribunale?»
Phoenix la fissa di sottecchi, ma sorride in un mezzo sbadiglio.
«Uhm… no, non direi.»

*

Dal momento che, a ogni sua visita in tribunale, qualunque avvenimento strano, rocambolesco e vagamente assurdo fa capo a Edgeworth, Phoenix non si prende più neppure la briga di specificarlo.
Quella mattina, appunto, mentre correva in tribunale incespicando nella neve che gli arrivava alle caviglie, lanciando maledizioni al soprabito da quattro soldi con la fodera già zuppa, aveva spalancato la porta con la violenza disperata del ritardatario, e per poco non aveva atterrato il procuratore con una testata.
«B-buongiorno Edgeworth, ti chiedo scusa!» aveva gridato dietro le spalle, i lembi fradici del cappotto che svolazzavano nella corsa.
«Wright! Riuscirai mai a fare un’entrata da persona normale?» aveva sbottato l’amico, prima di dirigersi fuori – presumibilmente per tornare in procura. Soltanto spiandolo attraverso i vetri della porta Phoenix si era accorto del fatto che avesse dimenticato di coprirsi: la neve gli cadeva sulle spalle come un fiotto di farina. Per un maniaco della precisione e dell’ordine come Edgeworth, dimenticarsi di dettagli di quel tipo era fuori discussione.
Distratto dalle scartoffie – e dalla polvere – non ci aveva più pensato fino alla pausa pranzo, quando si era trovato solo davanti a un cheeseburger, con i gomiti sulla mini-penisola di un fast-food. Al primo morso, un Edgeworth col cappotto su un braccio e la ventiquattrore sotto all’altro, tremante di freddo e coperto di neve, si era lasciato cadere sullo sgabello accanto al suo e aveva ordinato un hamburger triplo e un caffè, con l’aria visibilmente affamata e stropicciata.
«Non pensavo ti avrei mai visto in un posto del genere!» aveva esclamato Phoenix, rimuovendo una foglia d’insalata dal ripieno del panino.
«Beh, se è il tipico posto in cui io avrei immaginato di trovare te, ci sarà pure un motivo…»
L’acredine della risposta non l’aveva intimorito – piuttosto, l’aveva preoccupato il modo in cui Edgeworth si era passato le dita fra i capelli, un gesto un po’ stanco e noncurante, decisamente poco adatto al tipo.
«Ehi… va tutto bene?» gli aveva chiesto, con voce un po’ più flebile, ottenendo un breve cenno col capo. Nel corso di quei mesi, aveva visto Edgeworth cambiare, lentamente e con piacere: il calore era una cosa che negli anni gli era certamente mancata, e non era certo una novità a cui si poteva acclimatare facilmente. Certamente, non con il peso di dieci anni in casa von Karma sulle spalle. Vederlo così cupo faceva tintinnare un campanello d’allarme, senza contare che sembrava decisamente poco in vena di confidenze.
«Lavoro, lavoro, lavoro. E non si può dire lo stesso di te, vedo.»
«Oh, risparmiati il sorrisetto. Non solo sono qui a spulciare scartoffie, ma un paio di clienti devono ancora pagarmi la parcella… Forse sarebbe convenuto anche a me fare il procuratore.»
«Fidati, Wright, hai il cuore troppo tenero» e, gettando una banconota da cinque dollari, si era allontanato dando un ultimo morso al panino, metà del quale giaceva abbandonato nel foglio di carta bisunto.
Lui era rimasto a guardarlo uscire, sbattendo gli occhi in un attimo di sacrosanta perplessità, e aveva trangugiato gli ultimi bocconi di pranzo con i suoi rovelli – accidenti a quel cretino!

*

Le sorprese – per così dire – non erano affatto finite: era riemerso dall’archivio solo dopo le cinque, con due occhi gonfi come palloni aerostatici, e si era aggrappato al tavolino del bar in un coro di starnuti, invocando un tè caldo (e un antistaminico, possibilmente) con la sua migliore – o peggiore? – aria da cane bastonato.
«Conosco quella faccia, signor Wright,» aveva borbottato una voce familiare. Pochi istanti dopo, un uovo avvolto in un ampio pastrano nero si era seduto al tavolo infilando le grosse mani brune nelle tasche «Fa un freddo tremendo, oggi!»
«V-Vostro Onore!» aveva balbettato lui, irrigidendosi sulla sedia in un riflesso incondizionato.
«Ssssh, Wright, non c’è mica bisogno di scaldarsi tanto! A differenza del signor Edgeworth, mica passo la vita incollato alla poltrona di un’aula di tribunale!»
«Pe-perché vi sentite tutti in dovere di nominarlo ogni volta che sono nei paraggi, me lo sa spiegare?» aveva domandato Phoenix, sgualcendo una bustina di zucchero fra le dita.
«E perché ogni volta che qualcuno glielo nomina lei si esagita a questa maniera?» l’aveva rimbeccato il giudice, sbirciandolo con gli occhi a fessura mentre si lisciava la barba.
«B-beh,» lui aveva esitato un istante, sospettando, fra le altre cose, di essere arrossito «perché quell’uomo è un idiota, e perché io non riesco a capirlo, malgrado tutti i miei sforzi!»
«È un’ipotesi possibile, infatti,» aveva ridacchiato il magistrato, bevendo a piccoli sorsi la cioccolata che gli era stata appena consegnata «ed è proprio di questo che avevo intenzione di discutere con lei.»
«Intende dire che ha intenzione di dissertare con me sull’idiozia del signor Edgeworth?» era stata la sua risposta. Il primo sorso di tè gli aveva ustionato la punta della lingua.
«Via, signor Wright, non sia banale,» aveva detto il giudice di rimando, agitando una mano «sto dicendo che, ultimamente, il suo amico ha la testa da tutt’altra parte, e che mi sembra decisamente… tetro. Anche troppo per la sua soglia massima. Se continua così, rischia di mandare alla deriva anche i processi di cui si sta occupando…»
«… E, alla luce del fatto che io trovi il signor Edgeworth un uomo a dir poco problematico e inintelligibile… io cosa c’entro?»
«Insomma, signor Wright, pensavo di essere io quello lento di comprendonio fra noi due! È chiaro che lei è l’unico con cui il signor Edgeworth ha qualche probabilità di aprirsi, e che questo non deve essere uno dei momenti dell’anno che preferisce… Non ha proprio la più pallida idea di cosa gli passi per la testa?»
«I-io…»
Certo era che, nella testa di Edgeworth, di brutte cose e brutti ricordi – giusto per trovare un’etichetta omnicomprensiva – ne passavano in abbondanza, e non stava certamente a lui snocciolarli di fronte al giudice, per amor di riservo. Quello che lo irritava, messo com’era in quella prospettiva, era il non riuscire a trovare un tarlo che giustificasse più di altri la sopracitata tetraggine. In fondo, era il problema perenne di chi, come Edgeworth, ignorava il significato di gioiosi motti quali lascia correre, per quanto Phoenix potesse trovare la tendenza più che comprensibile.
«… Chissà, forse ha problemi di cuore!»
«Vostro Onore!»
Troppo tardi Phoenix aveva realizzato, in successione, di averlo urlato, di averlo urlato con la faccia presumibilmente rossa come una decorazione natalizia, e, cosa non trascurabile, con il tè che fuoriusciva zampillando dalle narici.

*

Come da copione durante ogni maratona di Samurai d’Acciaio, la mattina dopo Phoenix si sveglia acciambellato in un angolo del divano, annodato in una delle coperte e, come se non bastasse, con Maya e Pearl sulla schiena. Non sarebbe poi un problema, se Maya non pesasse tutti gli hamburger che mangia.
Lentamente – e con una certa fatica – scolla le palpebre quel tanto che basta a mettere a fuoco l’albero di Natale ancora spoglio, il retrogusto di sonno e cioccolata calda che ancora indugia sul palato.
Non gli è possibile muoversi senza che le due ragazze crollino sul bracciolo opposto come due tesserine del domino, ma il loro sonno è così profondo e rilassato che nessuna di loro si sveglia, anzi. Pearl si raggomitola su Maya, che ronfa di gran carriera a braccia spalancate, e l’avvocato, sorridendo, stende su di loro le coperte e si avvia in bagno per lavarsi e appallottolare il completo della sera prima nel cesto dei panni sporchi. Tutto questo, naturalmente, mentre il suo cervello si contorce nello sforzo di capire cosa diavolo stia succedendo a Edgeworth. Ci sono due motivi per cui ultimamente infesta le sue preoccupazioni così di frequente – uno ha a che fare con la fiducia reciproca, e l’altro… e l’altro? Decide di non indagare troppo a fondo, ma sa che, se veramente si sono guadagnati l’uno la stima dell’altro con tanta fatica, questo significa che una qualche chiave di lettura ce l’avrà pure, quell’uomo allucinante – e con certa gente solo l’approccio diretto è passibile di risultati certi.

*

«Ehi, Scrooge!» Phoenix arriva di gran carriera per dargli un colpetto dietro la nuca con la valigetta «Cos’è quel muso lungo mentre tutta Los Angeles si accende di lucine intermittenti cantando Jingle Bells?»
«Santo Dio, Wright, ti pagano gli elfi di Babbo Natale per venirmi a fare volantinaggio, adesso?»
Messo a confronto con il suo tono seccato, Phoenix sente il sorriso spegnerglisi in faccia.
«Edgeworth… hai la faccia di chi è andato a molteplici funerali, negli ultimi giorni. Mi spieghi che ti è preso?»
«E ti sconvolgi per così poco?» Edgeworth fa rimbalzare il commento facendo spallucce, ma non basta: al suo fianco, l’avvocato aggrotta la fronte e prende a inseguire il ritmo sostenuto dei suoi passi.
«Non cominciare a bluffare con me, è una causa persa fin dal principio. O mi dici cos’hai, o giuro che passerò le mie giornate a esasperarti almeno fino a Santo Stefano!»
«Umph,» sbuffa lui, in quel modo tutto suo, che sa di smorfia finto-sostenuta, e a cui Phoenix ha imparato a non credere. Infatti, come a dargli ragione, Edgeworth rallenta il passo.
«Detesto il Natale.»
«Non è un mistero, da quel che ho visto in questi giorni…»
«Complimenti, signor Wright…» e quello sembra persino un rimprovero «Tu più di tutti dovresti sapere il perché.»
Tu più di tutti. In modi di cui Phoenix non è del tutto conscio, queste pretese di esclusività gli fanno affluire un sacco di sangue alle orecchie, e spera che Edgeworth non abbia l’idea di guardargli dietro la nuca: non è abituato a sentirlo parlare con tutta quest’enfasi.
«Bah, lascia perdere» taglia corto, il che dà all’avvocato una nozione dell’imbarazzo che gli si può leggere in faccia. Dannati procuratori.
«È solo che… beh, due anni fa questo è stato un periodo infernale,» e no, stavolta Phoenix non ha bisogno di altri riferimenti specifici, perciò si limita ad annuire comprensivo «e se torno ancora più indietro col tempo, io…»
Si interrompe, e a nulla vale il sopracciglio inarcato dell’amico che lo incoraggia a proseguire.
«Non preoccuparti. Non è nulla d’importante, davvero.»
Di nuovo, Phoenix si rassegna a guardarlo andar via con un bagaglio di cose trattenute che, per quanto gli riguarda, è quasi visibile ad occhio nudo.
Almeno – magra consolazione – stavolta la sua espressione sembra essersi raddolcita un po’.

*

Sulla via di casa – più precisamente, mentre struscia le scarpe coperte di neve sullo zerbino ispido – Phoenix è ormai completamente convinto che Edgeworth sia un’idiota doppio, e che gli idioti doppi vadano sollevati dei loro pesi. Ragion per cui, al suo rientro, Maya e Pearl lo sorprendono mentre, con sguardo più o meno perso, fissa l’abete nella sua nudità sempre più deprimente, considerando che mancano due giorni alla Vigilia.
«Sapete, ragazze… potremmo decorare l’albero tutti insieme. Dopotutto, se non si fanno a Natale, le feste, quando?»
«Stai diventando un vecchio sentimentale e malleabile, signor avvocato difensore!» ride Maya, sovrastando gli urletti estatici della cuginetta che saltella attorno al padrone di casa.

*

Forte di questi propositi, la pausa pranzo del giorno seguente – se si esclude la polvere degli archivi, sempre più molesta per la sua vista – è più affrontabile. A quanto pare, per tacito accordo, hanno di nuovo scelto lo stesso fast-food (non è così male, alla fine), e adesso si stanno scrutando con due facce esitanti che sono tutte un programma.
«Allora…» Phoenix si stringe nelle spalle «Come sta andando, oggi?»
«Mah,» Edgeworth pungola con la forchetta di plastica la sua tristissima insalata da sette dollari «non male, direi.»
«Quantifica non male?»
«Wright, ma tu non molli proprio mai?»
«E io che pensavo mi conoscessi!»
Edgeworth reprime un sorriso con evidente fatica.
«Si tratta di Franziska» si arrende a confessare, con piglio un po’ riluttante.
«In che senso?» incalza l’altro, sfoderando due occhi enormi mentre strappa un boccone di panino.
«Nel senso che non si fa sentire da quel pasticcio con Engarde e Shelly de Killer… e un tempo le cose non erano così, specialmente sotto Natale.»
«Intendi dire…»
«Sì,» annuisce «quando abitavo in casa di Manfred von Karma.»
Proprio quando Phoenix aveva confidato di potergli estorcere qualcosa che potesse alleggerirlo, il silenzio si fa abbastanza immobile: conoscendolo, sa che non gli dirà altro, non sul piano unto di un fast-food.
«Uhm… Edgeworth?»
«Sì?»
«Domani è la Vigilia, e mi chiedevo se… beh, ecco… Maya e Pearl vogliono decorare l’albero… tutti insieme. Sai, Pearl non ne ha mai addobbato uno, e scommetto le farebbe piacere se… uhm, se ci fossi anche tu» tossicchia, un po’ titubante nello sforzo di cercare le parole più adatte «Suppongo.»
Edgeworth arriccia le labbra.
«… Una festa di Natale?»
«… Mhh.»
«A d-decorare l’albero.»
«Così parrebbe.»
«Supponi.»
«Già.»

*

Phoenix non sa perché, ma, quando apre la porta per invitare Edgeworth a entrare, nota che è rosso in faccia, e che la neve mezza sciolta che gli arruffa i capelli gli dà l’aspetto sperduto di un pulcino bagnato.
«Ciao, Wright. B-Buon Natale» borbotta, e la temperatura del riscaldamento, unita all’effluvio di zucchero che arriva dalla cucina, lo fa quasi barcollare.
«Buon Natale!» gli fa eco Phoenix con un largo sorriso.
Senza aggiungere altro, Edgeworth gli scarica una serie di pacchetti fra le braccia e si appresta a svolgere la sciarpa dal collo.
«Ma cos—»
«Non potevo certo piazzarmi in casa tua a mani vuote, no?» lo interrompe lui, brusco e vagamente bordeaux, oramai. Il sorriso di Phoenix invade praticamente tutta la faccia, sempre per motivi che l’avvocato stesso non è sicuro di voler sviscerare.
«Grazie.»
«Signor Edgeworth!»
Le facce felici di Pearl e Maya si sporgono dalla cucina – una cerca di portare le formine di cioccolata sul grosso tavolo rivestito di carta colorata, e l’altra di mangiarne il più possibile prima che ciò avvenga, mentre Gumshoe («Ehi, signor Edgeworth! Buon Natale!») alza il braccio dal divano in segno di saluto.
Hanno fatto le cose in grande: il tavolo straripa di fritti, dolci fatti in casa e bastoncini di zucchero, la casa brilla di lucine colorate. Il vischio e l’agrifoglio spuntano un po’ dappertutto, e lui non ha esattamente il tempo di contemplare ogni cosa, dato che Wright lo trascina per un braccio e gli fa gettare il cappotto su una sedia.
«Fra poco arriva il tacchino, perciò mettetevi comodi!»
«Questa mi giunge nuova, da quand’è che sai cucinare?»
«Da quando Maya ha cominciato a scaldare le cose del catering dall’altra parte della strada!»
«Ah, ecco…» e lo osserva mentre lancia da un lato la giacca del completo e, rimboccandosi le maniche della camicia, va in cucina a passo di marcia.
Ovviamente, giungono così rumori di colluttazione dalla porta socchiusa del tinello, la cui violenza fa pensare a Edgeworth che sia tempo di dare una mano.
«No, ragazzi, le patate possono stare un altro p—Wright! Tieni ferma Maya prima che le mangi tutte!»
«Facile a dirsi!»
«Ehi, è questo il modo in cui ci si rivolge a una signora?»
«Dove sarebbe la signora?»
«Signor Nick, non sia cattivo con la mistica Maya!»
Gumshoe ne approfitta per accendere lo stereo su Jingle Bells Rock, nonché per accorrere a dispensare dolcetti fra i cuochi affamati. I ringraziamenti, per una volta, si sprecano.
Quando finalmente escono sgomitando, reggendo il tacchino in processione trionfale, la fame si tasta nell’aria. Tutti prendono posto con particolare fretta, e Wright si avvicina solenne, facendo rombare il coltello elettrico per il primo taglio, quando l’arnese si sbizzarrisce al primo, timido contatto con la carne.
«Ehi!» annaspa Phoenix, mentre il dannato coso gli sguscia via dalle mani «Qualcuno mi aiuti a fermare quest’aggeggio!» e un trenino di ospiti ormai prossimi alla morte per inedia risponde al suo richiamo.
«Accidenti a te, Wright! Ma questo trinciapollo elettrico non ce l’ha una sicura?»
«È un coltello elettrico, Edgeworth, e no, non ce l’ha, contento?»
«Oh, quel che è!»
«Piantatela di litigare, voi due, e recuperatelo!»
«Ben detto, ragazzina!» s’intromette Gumshoe, e la caccia continua per lunghi minuti, fino a che gli invitati, grondanti di sudore, non possono che sedersi a divorare la propria porzione, ampiamente meritata.
È in questo clima di acuta sonnolenza post-cenone che Phoenix, tutt’a un tratto, salta in piedi.
«Bene, gente, che ne dite di decorare l’albero?»
Pearl si lancia entusiasta, il che costringe il resto della combriccola ad appollaiarsi ai piedi dell’abete per caricarlo di lustrini, in un cicaleccio di borbottii e canzoni, finché non lo guardano scintillare – è una visione che dà anche a Edgeworth occasione d’impettirsi felice, mentre aggancia una delle ultime palline.
«Dai, Pearl,» sussurra Phoenix, prendendola in braccio «l’ultima tocca a te!» sorride, tendendola in vista della cima, con un ridicolo cappellino di cartone in testa.
In disparte sul divano – e, cosa più importante, non visto – Edgeworth si lascia sfuggire un sorriso impercettibile mentre lo osserva: stasera, in maniche di camicia e con un guanto da forno ancora addosso, Wright ha gli occhi che gli brillano. Vorrebbe dire che sembra un’altra persona, ma non ne è del tutto sicuro: piuttosto, gli sembra più lui che mai, ed è una di quelle cose che un po’ gli scaldano il cuore e un po’ lo fanno sentire un imbecille.
Apriti Cielo, Wright decide, appunto, di voltarsi proprio nel momento in cui lui ha abbassato la guardia, con un sorrisone da trentadue denti da cui Edgeworth distoglierebbe volentieri l’attenzione, se non avesse – vergogna! – le guance come due mele, e non fosse convinto che tanto, ormai, peggio di così non può andare.
Quando Pearl smette di ammirare l’abete, la testa le ciondola da un lato, e lei muore di un sonno genuino e contento. Spostandole un ciuffo di capelli, Phoenix la adagia su uno dei cuscini del divano. La bimba si rannicchia mugugnando, e lui si siede, stanco e contento, accanto a Edgeworth, ascoltando Maya che si impossessa dello stipendio di Gumshoe in una concitata partita a poker, di là nella cameretta di Pearl.
«Sai, Wright, io…»
«Mh?»
«… Non festeggiavo davvero il Natale da quando avevo otto anni, e in questo momento mi sento così… beh, così.»
«Lei mi delude, signor procuratore!» lo punzecchia Phoenix, ma lui non sembra ascoltarlo.
«Penso che Franziska sia stato l’unico bruscolino di Natale che io abbia mai avuto, prima che partisse per la Germania, e… ecco…»
Quando il grazie gli esce effettivamente di bocca, lo sente perdersi da qualche parte nel colletto della camicia del padrone di casa. Per cinque secondi, si tratta di un momento tecnicamente imbarazzante – perché beh, insomma. Phoenix, però, sente la schiena di Edgeworth rilassarsi nel nodo un po’ maldestro delle sue braccia. Lo sente chiudere gli occhi contro la sua spalla – che si sia addormentato sopraffatto dalla vergogna? Preso da un attimo di ragionevole panico, si scosta appena per verificare di non avergli massacrato l’orgoglio.
«Miles—» esita, e la risposta, qualunque essa sia, parte dalle labbra di lui in un farfuglio falsissimo e finisce in un balbettio di bocche che si cercano di sghimbescio.
Occorre una manciata di secondi perché il bacio acquisti una parvenza di stabilità, e loro, presi in contropiede dalla goffaggine del tutto, smettano di oscillarsi addosso come birilli.
A operazione conclusa, con uno zigomo che affonda nello schienale consunto del divano e la punta del naso che tocca quello di lui, Phoenix si permette un sospiro che spera con tutto il cuore passi inosservato. Alza gli occhi e gonfia le guance in una risata: sopra di loro, attaccato a un filo di nylon, penzola un ramo di vischio un po’ frusto.
«Non sperare che ti dia il permesso di chiamarmi per nome in tribunale!» mormora Edgeworth con un ghigno.
«Non sperare che te l’avrei chiesto!» ribatte Phoenix, ridacchiando sempre più.
Gli risponde un orrendo cuscino patchwork in mezzo alle sopracciglia.

~

A/N 3 luglio 2011, ore 0:51. Ho scritto tre quarti di fic in una giornata, roba che non mi capitava da anni *potere della fine degli esami*, il che credo mi fornisca una valida ragione al fatto che tale fic, oltre a essere indubbiamente idiota e fuori stagione, sia stata scritta con Alvin and the Chipmunks in sottofondo, mi abbia divertita un sacco e OMG la scena col giudice XDD, scriverla è stato un piacere, e lo devo anche all’incoraggiamento della povera Crim a cui è dedicata. Sarà il caldo che mi fa scrivere roba piena di neve fino al midollo XDDD… Titolo preso da un mezzo verso di” Dance me to the end of love” di Leonard Cohen… Ah, e aggiungo che non ancora ho giocato a T&T, perciò prendete i riferimenti a Franziska – e generalmente a tutto – come molto random e muniti di crimsoniana benedizione XD.

Juuhachi Go.

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