[X] Warm

Titolo: Warm
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Seishiro Sakurazuka
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 4104 (LibreOffice)
Note: omosessualità, spoiler sul volume 16, e la me stessa di oggi direbbe OOC. La me stessa del 2005, invece, era convinta che tutto ciò fosse assolutamente legittimo.

Warm

Fissò con poco interesse la tazza mug piena di caffè bollente.
Fuori, i lati della strada bagnata erano tristemente chiazzati di una neve sporca che aspettava la prima pioggia per venire totalmente lavata via.
Era avvolto in un ispido plaid scozzese e il calore della ceramica arroventata gli si diffondeva placidamente nei palmi, tuttavia non riuscì a trattenere un brivido di freddo. La televisione, tenuta a bassissimo volume, bisbigliava dell’ultimo terremoto. Stanco, afferrò il telecomando e la mise a tacere, per poi rimboccarsi la coperta fino alle spalle.
Fate silenzio tutti quanti.
Il suo corpo, più debilitato del solito, non gradiva – a quanto pareva – il solo conforto dei cuscini sprimacciati del divano. Subaru sapeva che quello che ci sarebbe voluto era una dormita decente su un letto come si deve, questo avrebbe però significato sprofondare in molteplici sogni che la forza dell’abitudine e otto anni di distanza non avevano cancellato. Trasse un sorso dalla tazza che scottava fra le dita e subito la ritirò dalle labbra. Caffè, bleah. Bruciava da morire e il the era sicuramente meno forte. Abbandonò la tazza piena sul tavolino e si voltò dall’altra parte, verso la finestra. Una bambina saltellava tenendo la manina guantata nella mano nuda della madre. Rischiò di scivolare per un paio di volte sul marciapiede ghiacciato. Il ragazzo vide il rimprovero della donna, senza udirne la voce.
La Terra.
La Terra era uguale.
Salvezza o distruzione, Apocalisse o no. 1999 o 2000. Nella sua ottica, nulla del genere aveva un senso. Il mondo gli passava semplicemente attraverso, senza suono e senza colore.
La distruzione era un’ulteriore e più limpida trasparenza.
Si voltò da un lato, trascinando con sé l’involto di calda lana che lo avviluppava.
Ci mise qualche buio secondo per riconoscere il cinguettio elettronico del telefono. Si tirò a sedere, gettando via la sua unica fonte di calore, seppure con riluttanza.
«Sono Sumeragi. Come dice…? Sì, ho capito… Bene. Arrivo subito.»
Intirizzito e stordito com’era, non sarebbe uscito per nessuna ragione, se questa non avesse riguardato il lavoro, cosicché, con un pesante sospiro, si alzò dal divano e andò a recuperare il trenchcoat sulla cassapanca, uscendo poi fuori dal silenzio assordante del suo appartamento al piano terra in quella palazzina grigia.
Il freddo lo assalì con una folata di vento famelico che sapeva di pioggia o, peggio, di neve. Per arrivare a destinazione gli furono necessari due taxi e un tragitto in bus.
Tokyo, tsk. Se anni prima l’aveva amata, adesso vi vedeva solamente una frenesia priva di qualsivoglia logica. Persone che si lanciavano in un eterno inseguimento di aspirazioni sbiadite da tempo. Lui, invece, di tempo per questo non ne aveva mai avuto.
Non aveva aspirazioni, né tanto meno sogni. Aveva un desiderio solo, inutile per quanto riguardava il costruire un futuro migliore e, a pensarci, inutile a qualunque altra cosa.
Ma era suo.
Ed era curioso di sapere quale sarebbe stata l’espressione di almeno una persona se questa ne fosse mai venuta a conoscenza.
Sarebbe stata indifferente come al solito.
Al contrario, forse, sua sorella, se fosse ancora esistita, sarebbe andata su tutte le furie. Anzi, questo era certo.
Forse, se sua sorella fosse ancora esistita, lui non avrebbe avuto bisogno di nessun desiderio.
Avrebbe solamente desiderato che il tempo in cui lei lo svegliava la mattina con uno strattone giocoso, mentre il loro inseparabile autista, chaperon, veterinario, confidente, collaboratore eccetera eccetera spuntava dal gorgo di lenzuola, con la battuta sconcia e/o imbarazzante pronta a cambiare il pallore delle sue guance in un rosso vivo, durasse in eterno.
E invece, tutto si era protratto per un solo anno.
Ad ogni modo, qualcosa l’aveva imparato.
Le cose più meravigliose sono anche le più false. E le più labili. Ma rimangono sempre meravigliose. È proprio questo che ti manda in bestia, perché potrai denigrarle e tentare di offenderle quanto ti pare, ma non ne sminuirai né la bellezza né il significato che hanno per te.
Tutto ciò che potrai fare per dimenticarle è inutile. Perciò, non pensarci.

Si maledisse per non aver portato con sé un paio di guanti. Strofinava furiosamente le mani arrossate l’una contro l’altra, senza ottenere nessuna vittoria nei confronti di quel Febbraio particolarmente inclemente dal punto di vista climatico.
«Shhh! Sumeragi-san!»
Subaru si riscosse all’improvviso, qualcuno l’aveva improvvisamente afferrato per un braccio, imponendogli di fermarsi a pochi metri dalla meta. Il giovane onmyouji si girò verso la fonte di quell’imprevisto.
Era un uomo allampanato, quasi completamente calvo. L’aria stanca dei suoi occhi cisposi era confermata dalle occhiaie e dal volto emaciato. A supplire la sua calvizie, però, due folti mustacchi color paglia. Indossava un lungo cappotto nero, pesante, ma che ne aveva passati di inverni, a giudicare dal taglio antiquato. Dalle lunghe maniche spuntavano mani nerborute, ma la cui pelle era resa tutta chiazze scure e venuzze bluastre dall’età.
«Con questo freddo, mi dispiace davvero molto farla rimanere all’aperto, ma… fra qualche minuto dovrebbero arrivare.» proferì in tono di scusa con la voce roca e imponente nella sua cortesia.
«Oh, lei è Kobayashi-san, quindi?» si informò, riferendosi al nome del cliente che l’aveva contattato prima.
«Sì. Non ce la faccio più a sopportare tutto… tutto questo. Oh, ecco, stia a guardare, eccole.»
Con grande sorpresa di Subaru, Kobayashi-san indicò due figure che il ragazzo riconobbe come quello sprazzo di famiglia felice che prima gli aveva provocato un’irritante sensazione di malinconia.
La mamma, scaldata dal piumino color pesca, portava una bitorzoluta sciarpa di lana marrone attorno al collo. I capelli, un biondo miele che tendeva più che altro all’arancione, liberi nel vento ghiacciato. Non aveva più un viso giovane, anche se il Sigillo lo trovò comunque gradevole. Aveva bellissimi occhi, di un deciso nocciola, valorizzati da lunghe ciglia. La bocca un po’ troppo larga rispetto al volto affilato rivolgeva un sorriso – fatto di denti rilucenti e diritti – alla bambina che le teneva, ancora, la mano. Al contrario della donna, era coperta da un cappello di lana grigia, da una lunga sciarpa nera, da un paio di guanti in tinta e da un cappottino di velluto rosso. Due treccine arruffate di quel biondo così particolare erano però ugualmente visibili attraverso tutti quei caldi strati di vestiario, mentre il visetto paffuto ne era sommerso. Spuntavano gli occhi azzurri e sporgenti, la curva lentigginosa delle guance infreddolite, il nasino a patatina.
Pur volendo, non sarebbe stato capace di descrivere la sensazione di dolcezza e rimpianto che la piccola, vivace sagometta gli ispirava.
Ad un tratto la stretta fiduciosa della manina si allentò, in una scena molto simile a quella a cui il medium aveva assistito da casa propria.
Nuovamente, la bambina cadde a terra.
«On.» scattò prontamente Subaru. L’aria intorno alla figura infantile prese a rincorrersi, a distorcersi e a turbinare.
«Bataei ya sowaka.» cantilenò, concentrato. Socchiuse gli occhi e deglutì, la madre della piccola aveva preso la mano guantata della figlia e la tratteneva nella sua nonostante lei fluttuasse in un vortice di aria calda che sollevava polvere, ghiaccio e cartacce. L’onmyouji recitò il suo incantesimo con cautela ancora maggiore, onde evitare di arrecare danno alla povera donna, ma aveva comunque paura che la situazione potesse sfuggirgli di mano, dato il contatto fisico fra le due.
«On!» inspirò, ben determinato a non demordere. La bambina cominciò a farsi appena traslucida, mentre una goccia di sudore freddo scivolava nella maglia dello sciamano.
«Bataei ya sowaka!» e la piccolina divenne più simile ad un ologramma, per poi riacquistare di nuovo costanza. Subaru riprese fiato. La testa gli formicolava.
«On…» stavolta nel tono della formula c’era quasi supplica.
Fa’ che la bambina sparisca… ti prego…
«Bataei… ya sowaka.»
Chiuse gli occhi per scacciare il lieve senso di vertigine che avvertiva, proprio mentre la creaturina spariva in uno scintillio. Con gli occhi un po’ annebbiati, il Sumeragi si soffermò sulla madre del piccolo fantasma.
Per un attimo era rimasta attonita, poi si era ritratta come un pettirosso e aveva portato le mani agli occhi per coprirli. Subito dopo, era caduta sulle ginocchia, bagnando i jeans.
«Esattamente il 19 Febbraio di quattro anni fa, mia nipote è stata investita qui, È sfuggita di mano a sua madre.» confessò Kobayashi-san con aria grave, mentre si congedava con un breve inchino e si precipitava dalla figlia.
La felicità. L’ho detto, che non esiste.
A passi malfermi, Subaru ripercorse lentamente l’intrico di strade che aveva percorso per arrivare sul posto, perseguitato da un senso di stordimento a cui si aggiunse anche una feroce emicrania quando l’autobus sobbalzò un paio di volte. Sui vetri cominciavano ad esserci tracce di una pioggerellina sottile, la quale si trasformò in un vero e proprio nubifragio che lo inzuppò da capo a piedi. Finalmente a casa, esultò, con un colpo di tosse, nel girare la chiave nella toppa.
Non appena mise piede sullo zerbino, però, le sue narici lo misero prepotentemente in allerta. Aveva le percezioni offuscate, ma la scia di un odore estraneo e familiare allo stesso tempo si era infiltrata nell’aria casalinga senza alcun margine di dubbio. Liberandosi del soprabito fradicio, barcollò fino alla cucina, cercando il sostegno di una sedia.
«Finalmente! Al lavoro con questo tempaccio, suppongo.»
«E tu cosa ci fai qui.» esalò il padrone di casa. Si sentiva praticamente uno schifo e il fatto che Seishiro fosse seduto al tavolo della sua cucina, tutt’altro che fradicio e immusonito, non aiutava certo a farlo sentire meglio.
«Mai lasciare la porta di casa aperta quando esci. Adesso capisco perché Hokuto non ti lasciava le chiavi.»
«Potresti evitare di nominarla, per favore?» sibilò, aggrappandosi disperatamente allo spigolo di un mobile dietro di sé. Il pavimento gli ondeggiava sotto i piedi, se Seishiro si fosse avvicinato non avrebbe trovato la forza di respingerlo. Lo vide alzarsi in piedi e attraversare la stanza a larghe falcate. Senza che l’onmyouji potesse prepararsi, l’uomo lo prese con forza per un braccio e lo avvicinò a sé. Subaru si rifiutò di credere che quella sotto le labbra di lui fosse la sua fronte, il pensiero era fastidioso e destabilizzante.
«Hai la febbre, zuccone.»
«Adesso ti metti anche a….!» ma qualunque cosa avrebbe voluto dire, non ci riuscì.

Tutto quello che riuscì ad avvertire, infiniti minuti dopo, fu il materasso sotto le ossa doloranti e un cuscino sotto la testa. Sul comodino, accanto a un giallo consunto, un termometro e una ciotola di oden che diffondeva un odore caldo e corroborante. Seishiro apparve sulla soglia, riempiendolo di sdegno. Lo fissava dritto in faccia, armato del subdolo, odioso stereotipo di sorriso che non mostrava sollievo o affetto, bensì l’assenza di questi. Si esaminò. Contrariamente a quando era tornato a casa, indossava un pigiama asciutto. Alzò un sopracciglio in direzione del suo (sgradito) ospite.
«Spiacente, ma non ti è dato sapere da chi o dove io abbia imparato a infilare vestiti senza toglierne altri.» lo informò la voce di questi, con un’insopportabile sfumatura di saccenza.
«È la più grossa idiozia che sia mai uscita dalla tua bocca dopo “Tu mi piaci molto, Subaru-kun.”» ironizzò, velenoso, il malato, nonostante la voce fosse quanto di più simile a uno squittio.
«Per ricordare una simile scemenza, vuol dire che le avrai dovuto prestare almeno un minimo di attenzione, a suo tempo. Sbaglio, Subaru-kun?» incalzò il trentaquattrenne, calcando malignamente la voce sul vezzeggiativo.
«Dimmi che non sei qui per parlare di questo.» biascicò il ragazzo, con una mano sul capo che si andava a reclinare per sfuggire all’unico occhio d’ambra del Sakurazukamori.
In tutta risposta, questi andò a sedersi sul bordo del letto, porgendo all’onmyouji la ciotola con la pietanza lasciata a raffreddare.
«Pesi come una pagliuzza. Mi stupisce che tu ci sia arrivato vivo, a casa.»
«I fenomeni atmosferici non sono parenti della disoccupazione, non devi preoccuparti.»
«Credi che sarei capace di far fuori un cosino febbricitante tutto pelle e ossa?»
«Hai ucciso una ragazza di sedici anni in perfetta salute insieme a un numero infinito di altre vittime, ragion per cui, sì, Seishiro-san, lo credo.»
«Mangia gli oden.»
«Mi fanno schifo gli oden.»
«Non è vero.»
«Sì invece!»
«Uff!»
«Oh, insomma! Credi di poter esercitare così tanto controllo su di me?»
«Sei deliziosamente troppo per i miei nervi, questo di te non lo ricordavo affatto!»
«Non contento, ti lamenti anche! Tutto quel che sono adesso è colpa tua…»
«Non puoi incolparmi per il tuo spirito di emulazione, sai?»
«Tu non puoi chiamare “spirito di emulazione” il mio desiderio, invece!»
«… E quale sarebbe…?»
«… Cosa ci fai, qui?»
«…»
«Prima che tu risponda che hai il diritto di esserci, in quanto mio cacciatore, io ti rispondo che non è assolutamente vero
Per la prima volta, Subaru assaporò la sensazione di uscire vittorioso da uno scontro con il suo avversario, psicologicamente parlando.
Questi, però, non smise di sorridergli in una maniera ancora più dolce. Il ragazzo sentì una stizza incredibile montargli nell’animo mentre le belle labbra di lui si schiudevano, ilari, come se il tempo in cui Subaru si fidava ancora di quell’espressione non fosse mai svanito.
Il pensiero lo annientò più di ogni altra cosa, in quella stanza dove non si coricava quasi mai, odorosa di febbre, sudore, inverno e di una sfumatura di acqua di colonia che aveva da sempre riempito i suoi sogni in una maniera orribilmente piacevole, ma che nella realtà aveva fatto, semmai, l’esatto contrario.
La voglia di piangere gli si incastrò senza preavviso fra gola e polmoni quando Seishiro gli scompigliò i capelli, ostentando la perfetta imitazione di ciò che il ragazzo avrebbe voluto da lui.
Cadaveri, spazzatura, sono tutti uguali. Tutti uguali.
«Misuriamo la febbre?»
«… »
«Subaru-kun…?» l’ex-veterinario cercò di richiamare l’attenzione degli occhi verdi fissi sulla specchiera in cui il giovane spiava il suo riflesso.
«Smettila.» sentì mormorare, quando si era ormai arreso all’idea di non ricevere alcun cenno da parte di lui.
«Non comportarti come se io contassi più di un sacco di spazzatura, per te.» continuò, in un soffio
«Perché, è un paragone troppo puzzolente?» ridacchiò il Messaggero. Certamente, non si aspettava che il suo rivale ridesse. Effettivamente, Subaru si limitò a fissarlo con severo rimprovero.
«Perché sai meglio di me che non è vero.» sillabò, diaccio, il tredicesimo capofamiglia dei Sumeragi.
«Dormi.» bisbigliò, alzandosi dal materasso e chinandosi sul suo viso. Il giovane uomo trattenne il respiro mentre l’altro gli baciava la fronte e si allontanava, chiudendo la porta della camera dietro di sé.
Per un attimo, il ragazzo, immerso nella penombra, non osò nemmeno respirare, poi, vinto dalla febbre che saliva, pensò che chiudere gli occhi per un momento non fosse affatto una cattiva idea, dubitava fortemente che Seishiro avesse deciso di concedergli il lusso di passare dal sonno alla morte, dopo un semplice bacio sulla fronte, no…

Quando riaprì di nuovo gli occhi, aveva i brividi ed era madido di sudore. Così infagottato nelle spesse coperte di lana, aveva la sgradevole sensazione di essersi immedesimato in un roast-beef lasciato a rosolare in una casseruola. Batteva i denti senza controllo, rincantucciato su un fianco. Ne aveva già quattro, ma che avrebbe dato per un’altra coperta! Lentamente, si puntellò sulle braccia per mettersi a sedere sul materasso, il cranio pesante – ad occhio e croce – di quindici chili in più rispetto a ciò che ricordava. Fece un respiro profondo finché non fu riuscito a buttare le gambe giù dal letto, il trauma raggiunse l’apice quando le piante nude dei piedi toccarono il pavimento gelato. Per poco il corpo sfibrato non cadde lungo lungo sulle mattonelle, ma, sempre tremando come una foglia, l’onmyouji riuscì a muoversi appoggiato ai muri, mentre le ginocchia e i denti sbattevano come nacchere.
Seishiro se lo ritrovò così, davanti agli occhi: letteralmente avvinghiato allo stipite della porta della cucina, scosso da tremiti così forti da far scommettere al sicario che, tempo dieci secondi al massimo, sarebbe ruzzolato incosciente ai suoi piedi.
«Ma sei stupido, eh?» sbottò, raggiungendolo e sorreggendolo prima che rotolasse sul serio a terra.
«Ma ti pare…» fece, sollevandolo in braccio come un bambino e ripercorrendo il corridoio che il malato aveva attraversato con così tanta fatica «… di essere in condizione di alzarti dal letto? Un altro po’ e ti ritrovavo stecchito!» sbuffò. Subaru non disse niente, gli circondò il collo con le braccia e gli appoggiò la testa contro il petto. In fondo, quella dell’influenza era un alibi inattaccabile. Era passata un’eternità da quando Seishiro aveva fatto la stessa cosa. All’epoca, fortunatamente, Subaru non si era reso conto di quanto l’uomo fosse realmente confortevole.
Venne appoggiato sulle lenzuola ancora umide. Gli girava la testa e non prestò nemmeno attenzione ai movimenti di lui, mentre gli misurava la febbre e decretava un “trentanove, pezzo di deficiente”. Dannazione, Sakurazukamori, con il faccino da sballo che hai e i tuoi modi da camionista, avresti uno stuolo di infermiere pronte a suicidarsi per te, semmai ti dovesse venire in mente di fare il medico… ma…
Ahhh, no, i pensieri sconci non adesso, Amaterasu santissima…
L’uomo disciolse un analgesico in un bicchiere d’acqua, glielo fece ingoiare e gli cambiò le lenzuola, dopodiché lo seppellì di nuovo sotto la montagna di coperte. Minuti dopo, tornò di nuovo reggendo un tazza di the bollente. Subaru avvertì un’immotivata ondata di insopportabile gratitudine nei suoi confronti, si augurò, quindi, di tornare al più presto in salute.
L’aspirina aveva comunque dato un minimo degli effetti sperati: adesso, almeno, i suoni avevano smesso di rimbombargli nel cervello con la potenza di una mitraglietta.
«Una volta da bambino ho avuto la febbre. È stata un’esperienza isolata, ma ricordo bene che mamma mi gettò sopra un sacco di coperte e la temperatura tornò quasi normale dopo una giornata. Non avrei mai pensato che imitarla mi sarebbe tornato utile, un giorno, per accudire te.».
Nella sua annebbiata confusione, il ragazzo rabbrividì quando il Sakurazukamori fece accenno alle sue origini davanti ai suoi occhi resi vacui dal raffreddore. In tutta onestà, nemmeno nei suoi più brillanti momenti di lucidità avrebbe immaginato un piccolo Seishiro ridotto a un corpicino bollente e tremante.
«… Hai ucciso tu tua madre, vero…?» domandò, con un filo di voce.
«Sì. Anche se è stata lei a chiedermelo, non posso dire che la cosa mi abbia parecchio dispiaciuto.»
«Cosa…?»
«Era meravigliosa. Bianca come la neve. Appena la toccavi rischiavi di spezzarti. Le sue mani erano minuscole, ma erano sempre macchiate di rosso, una cosa così stupefacente da darti i brividi ogni volta che la guardavi negli occhi. Sorrideva come una dea. Rimanevo ore a guardarla mentre si spazzolava i capelli davanti allo specchio, erano così lunghi che ogni tanto mi ha chiesto di aiutarla. E l’ho uccisa io.» sussurrò l’assassino con un’aria sognante di cui Subaru non riusciva a capacitarsi.
«Aveva detto che nessun altro avrebbe potuto farlo, a parte me.».
Nel sentirglielo dichiarare, lo sciamano intravide l’ombra sincera di un sorriso sui lineamenti di lui, ma diede la colpa alla penombra. In quel momento, ebbe la certezza che Seishiro non era capace di scindere la dolcezza dalla perversione o dalla cattiveria. Per lui era semplicemente naturale considerarli come la stessa identica cosa.
«Seishiro… san…»
«… Mh?»
«Mi piacciono gli oden. Ne voglio un po’.»
«Ne ho lasciati un po’ di là, arrivo subito.» gli assicurò, mentre il giovane annuiva lentamente.
Erano davvero niente male, considerò, non appena li ebbe assaggiati. Magari erano le sue papille gustative ad essere intontite, o, ancora più semplicemente, aveva solo voglia di provare la sensazione di mangiare qualcosa di cucinato appositamente per lui, senza badare davvero al gusto. Ad ogni boccone, lo stomaco gli si chiudeva per la nostalgia. Non riuscì a mandare giù più di metà di quello che gli era stato posto davanti, così, cedendo la ciotola a Seishiro, si spinse con la schiena fra i cuscini e guardò in silenzio l’uomo che, invece, spazzolava per intero la scodella che si era preparato, poi affondò nel materasso, in posizione fetale, desideroso di riposare un altro po’.
Avvertì il lieve tintinnio della ceramica che veniva appoggiata da qualche parte, poi la rete del letto cigolò, compressa sotto il peso del ginocchio dell’uomo.
Ancora una volta, Subaru sentì il respiro svanirgli dal petto quando lui si accomodò completamente al suo fianco e gli posò una mano sulla testa. Timidamente, il ragazzo riaprì gli occhi, per spiare il viso di Seishiro, ma si stupì di scoprirlo già addormentato in una maniera anche abbastanza serena. Nel sonno, i lineamenti distesi mantenevano comunque un curioso atteggiamento di serietà. Era già un uomo fatto, ma aveva guance morbide e capelli sottili e soffici, di un castano scuro e lucente, sparpagliati sul cuscino, qualche ciuffo della frangia ricadeva sulle palpebre abbassate, dalle quali si rivelavano la forma elegante degli occhi e le ciglia nerissime. Era un sacrificio sull’altare della bellezza: non c’era tratto di quel volto che non fosse di una sensuale e quasi infantile perfezione.
Quello stesso uomo trattava le persone come una bambina avrebbe trattato le sue bambole rotte.
Sorrideva a un cadavere o a un uomo con la stessa fittizia cortesia.
Con la stessa avvelenata dolcezza.
E intanto, dormiva tranquillo come un pargoletto, accarezzandogli pigramente i capelli con un dito.

Sognò.
Sognò camelie che cadevano infinite sulla neve.
Come teste umane.
Rabbrividì di paura e si accucciò contro l’assassino.

Quando questa volta si raddrizzò, la mente era sgombra dal peso della febbre alta.
«Nh…» il profumo di Seishiro era troppo forte, si era diffuso sulla stoffa del pigiama e gli dava un leggero senso di nausea. Voltandosi, lo vide ancora addormentato, due bottoni della camicia slacciati, una mano sul viso, i calzini bianchi sotto ai pantaloni neri.
Innervosito, infilò le pantofole, scese dal materasso senza svegliare il suo ospite e si trascinò in cucina.
I piatti sporchi erano nel lavandino, il bollitore mezzo pieno sul fornello spento. Si abbandonò rabbiosamente su una sedia.
Quanto di “Seishiro-san” c’è in “Sakurazukamori”?
Era una domanda che non smetteva di infastidirlo, da quando l’aveva incontrato a Nakano. L’aveva ferito con noncuranza, come se in realtà avesse dovuto parlargli di un cagnolino arrivato alla Clinica Veterinaria Sakurazuka, se questa non fosse stata chiusa da tempo.
L’atmosfera del sogno si mischiò all’odore prepotentemente maschile sui suoi vestiti, facendolo fremere di inquietudine.
Quelle camelie che cadevano sulla terra innevata, la loro aura macabra, come se quel sogno non gli appartenesse affatto.
«Ti sei ripreso?» si informò la voce assonnata dell’uomo che faceva il suo ingresso nella stanza.
«Perché mi fai questo…»
«… lo prendo per un sì, Subaru-kun?» rise. In realtà aveva fatto un sogno, una mano immersa di sangue fino al polso, mentre qualcuno chiedeva cosa fosse successo. Si era svegliato con la certezza di saperlo.
«Basta con le chiacchiere.» sbottò il ragazzo, alzandosi in piedi.
«…»
«Ho passato otto anni a chiedermi perché tu non sia venuto a uccidermi… Ho capito che tu non hai mai avuto bisogno di farlo. La tua cattiveria, con me, diventa un milione di volte più sottile. Ti basta infondermi il tuo profumo e sorridermi come se niente fosse, vero? Sai di uccidermi milioni di volte e di allontanarmi sempre di più da te. E… come al solito, non è questo che voglio. Non ho mai potuto avere ciò che voglio, ma credevo che almeno stavolta coincidesse con ciò che volevi tu. Non credi che sarebbe stato tutto più facile se tu mi avessi ucciso? Avresti accontentato il tuo ciliegio, sarei diventato uno dei tanti che gli è stato dato in pasto, ma… quel ciliegio ha te. Io ho te. Mi hai spezzato, offeso, marchiato, distrutto. Non è rimasto niente, di quello che ero. Potrei almeno avere la consolazione di diventare parte di quel componente della tua vita. Non mi ami e nemmeno mi odi, ti dimenticheresti subito di me, ma io sarei
«Io però non potrei raggiungerti.»
Cadono, cadono le camelie.
“Non c’è niente di più bello che essere uccisi dalla persona a cui si vuol bene.”
«Hai avuto innumerevoli possibilità, non le hai mai sfruttate. Non credo che tu stia parlando sul serio e non mi interessa verificarlo. Credo che non provare sentimenti sia davvero comodo, vero? Non rischi di venirne sopraffatto, anch’io lo vorrei, perché… Seishiro-san… io…»
Seishiro, avvicinandosi al tavolo, vi appoggiò le mani per sporgersi in avanti. Le labbra accarezzarono quelle di Subaru in una piccola pressione.
«Buon compleanno, Subaru-kun.»
Note… 9 Agosto 2005, ore 14:37. Strana ma – per me – abbastanza soddisfacente fic °_°! Buon compleanno, NH4C! Questa fanfiction per celebrare il primo, piccolo anniversario del mio archivio, con l’aiuto di un ascolto ossessivo di “Mad World” di Gary Jules, a cui ho fatto anche involontario riferimento parlando di Tokyo (ascoltatela mentre leggete, perché vi aiuta molto con l’atmosfera!!). È un periodo molto, molto, mooooolto prolifico per la sottoscritta: una oneshot tirata fuori in soli due giorni di fervida attività *_*, yatta! Pare proprio che ogni capitolo di ‘Flesh’ sia seguito da una piccola fic, yuk yuk! Beh, è una piccola cosa tenera e un po’ malinconica, che mi dà una strana sensazione. Un paio di note per far capire certe parti! Prima di tutto, il sogno di Subaru è ispirato al Character File di Seishiro, a detta di Setsuka, infatti…
“Amo i fiori di camelia che cadono.
Cadono sul terreno. Con un lieve tonfo…come una testa umana…”

e, da qui, credo che sia più chiaro anche il resto del finale, con una citazione da X16 sempre di Setsuka. Mi duole ammettere che Seishiro sia stato OOCizzato più del previsto, in alcuni punti. Tuttavia, sempre tentando di non usare il suo punto di vista (non è nel suo stile ù____ù;), ho cercato di riportarlo sulla retta via col finale… beh, più o meno… ma volevo che questa cosa si concludesse con un bacio >__

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