Titolo: Frozen
Fandom: X
Personaggi: Subaru Sumeragi, Setsuka Sakurazuka
Parte: 1/1
Rating: NC17
Conteggio Parole: 3591 (LibreOffice)
Note: omosessualità, incesto, spoiler su X16 e 17. Odio ammetterlo, ma, a distanza di tutti questi anni, mi stupisce enormemente quanto io sia ancora legata al concept di questa storia, dovrei scriverne una versione nuova! ♥
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto…
(G. Ungaretti)
«Che ci fa uno sciamano giapponese in un cimitero cristiano?»
Subaru gettò un’occhiata noncurante alle proprie spalle, spegnendo la sigaretta sulle selci sconnesse e infestate dall’edera del vialetto, ai lati del quale si ergevano, nell’erba umida e incolta, lapidi sbrecciate, dai nomi scoloriti dalle intemperie, dal tempo o coperti da uno spesso strato di muffa. Davanti ai suoi occhi, croci di marmo sbilenche e angeli dall’aria torva scrutavano la nebbia con le orbite vuote e levigate. Avvertì un brivido di fastidio e si concentrò esclusivamente sulla sua esile accompagnatrice, a meno di dieci passi da lui. La morte l’aveva resa ancora più minuta di quanto doveva essere stata quando Seishiro poteva ancora toccarla. Era così eburnea da incutergli soggezione, avvolta in un leggero kimono bianco, poco appariscente. A renderlo oltremodo affascinante, ammise lui, vagamente piccato, bastava quella frusciante cascata di capelli neri, lisci come la seta, che ricadevano morbidamente su di lei, avvolgenti, e quel lieve sorriso così rosso e impercettibile da sembrargli dipinto.
«È sconsacrato.».
Seguitò a camminare, con le mani intirizzite nelle tasche. Lei fece altrettanto, mantenendo la propria andatura placida e silenziosa, eppure incredibilmente tangibile: non fluttuava, i suoi piedi toccavano il suolo senza rumore, con dinoccolata eleganza.
Subaru notò una vecchia panchina che costeggiava la stradicciola dissestata; era in marmo lurido e polveroso, sullo schienale era stata scolpita una testa di leone erosa dal tempo e inselvatichita da fitte venature di muschio, l’edera l’ aveva invasa, riempiendone le spaccature e aggrappandosi ai piedi. Il giovane vi prese posto senza tanti complimenti. Nonostante ci fosse spazio sufficiente per più di una persona, lei rimase in piedi al suo fianco, sbirciando quella sagoma smunta, ma intrisa del fascino che, quasi vent’anni prima, aveva suscitato il volubile interesse di Seishiro.
«In contemplazione della morte, Sakurazukamori-san?» domandò, con aria beffarda, nonostante la melodia della voce, mentre rivolgeva uno sguardo pigro all’ambiente circostante
«Pensavo che se verrò scaricato in un postaccio del genere, alla fine… allora preferisco i ciliegi.» replicò lui, scostante
«Naturale, è per lui.» cinguettò lei, con una risatina infantile. Il nuovo Sakurazukamori avvertì uno stiletto immergersi in quella ferita perennemente fresca nel centro del suo cuore.
«Andiamo a casa.» sbottò, alzandosi per raggiungere il cancello divelto e arrugginito all’entrata.
~*~*~
Oltre il genkan, lo attendeva il mal di testa, come al solito. Ignorandolo deliberatamente, Subaru si avvicinò alla finestra che dava sul giardino. L’aveva lasciata aperta, le tende si dondolavano nel vento gelato che gli mordeva le guance. Stringendosi nel soprabito, affondò con gli stivali nella coltre di neve che ricopriva il terreno e osservò le fronde rosate appesantite dal ghiaccio, uno spettacolo che riusciva a strappargli ancora il respiro dal petto. Accarezzò con una mano tremante il tronco che si snodava dalla neve e il requiem dei prigionieri si sollevò macilento nei suoi pensieri, ma le voci erano così numerose da impedirgli di sentire quelle di Seishiro e Hokuto fra le migliaia che affollavano l’Albero.
Forse, se avesse pianto, le lacrime si sarebbero congelate sui bordi delle ciglia.
«È inutile che cerchi di afferrarle, è come avere la pretesa di toccare un riflesso nello specchio. Io stessa ci ho provato, e più di una volta, senza ottenere niente.».
Irritato, Subaru le prestò attenzione, i lunghi capelli toccavano appena terra, mentre i piedi, coperti solamente dai tabi, erano immersi nella neve fino alle caviglie.
«Cosa stavi cercando, tu?»
«Niente in particolare. Un Sakurazukamori non cerca mai nulla…»
«… o quasi.» terminò, prima che il ragazzo potesse obiettare.
~*~*~
La neve era così candida da brillare nitidamente anche quando la notte vi calò su, si apriva come l’occhio vuoto della terra, un fissare vacuo in direzione di quel cielo nero, sebbene una chiazza di sangue si fosse fatta strada su di essa, in un contrasto squisito e fiabesco.
Tremava di freddo, coperto dalla sola divisa scolastica, i bottoni rilucenti d’argento sotto la luce di quella luna azzurrina, sbiadita nel colore troppo denso del cielo buio.
Non sapeva perché non fosse tornato in casa da molto, molto tempo, come sarebbe stato saggio fare. Il suo fiato si condensava in vapore tremante.
Con un dito attento e infreddolito, scostò un ciuffo d’inchiostro che era rimasto appoggiato sulla guancia e che tornò al suo posto. Aveva l’impressione che stesse diventando più sottile di ora in ora. Il sangue si era rappreso in grosse macchie rugginose su quel kimono bianco come un abito da sposa – uno di quelli di quei film americani – e gli si era seccato sulle mani.
Si era data in sposa alla morte, il calore era scivolato via dal suo corpo e l’aveva resa neve, una creatura d’inverno, dalle guance di ghiaccio splendente e le ciglia fitte e lucide, gli arti mollemente abbandonati che lui le aveva ordinatamente raccolto lungo i fianchi minuscoli con amore fittizio.
Distinse per la prima volta la perfezione delle sue sopracciglia, aristocratiche e vezzose, tracciate con maestria.
Immaginò che le labbra baciate ore prima, sotto il rossetto che le ostentava ancora piene e vermiglie come rose di maggio, avessero assunto una tinta nerastra, livida, quella malsana della decomposizione. Ma sapeva anche di non voler conoscere la verità, non lo attraeva quanto la tinta viva che la donna stessa aveva disteso sulla curva seducente della bocca.
Nella brezza ostile di Dicembre, aspettava lo sgocciolio monotono e pastoso del tempo che avrebbe reso cave e lillipuziane quelle ossa d’avorio e disperso i bei capelli come fina fuliggine. Eppure tutto rimaneva immutato, il viso sereno come quello di una vergine addormentata, la pelle trasparente come acqua, il rialzo bambino del suo naso. Dei fiocchi caduti dal cielo le si erano impigliati nei capelli, e si erano sciolti.
Non smetteva di riempirlo di meraviglia.
Le strinse le spalle con più vigore, fragile e deliziosa farfalla essiccata.
Il vento gliela strappò di mano, sollevando un turbine polveroso di neve e petali di ciliegio che fluttuarono fuori dalla seta candida delle maniche, si disfacevano i begli occhi, la capigliatura di bambola, le braccia sottili.
Un petalo sgualcito indugiò attorno alle sue dita.
Lo seguì con lo sguardo, finché non divenne indistinguibile.
Addio, madre.
~*~*~
«Sono morta qui.» respirò lentamente, avanzando nel croccante biancore, sotto l’ombra dell’Albero, le calze bagnate. Si arrestò poco distante da quest’ultimo e si lasciò cadere, con uno strano, morbido tonfo. Subaru la monitorava con distacco.
«Proprio qui.» si mossero le labbra a forma di cuore, i capelli in disordine e imbiancati dai bruscolini di ghiaccio mentre, con ampi movimenti delle braccia, tracciava solchi simili ad ali di angelo. Con amarezza, il ragazzo prese pienamente coscienza di ciò che Seishiro aveva ereditato da lei; non tanto la perfezione somatica, quanto quell’innata, dolorosa inclinazione a mimare un’innocenza e un’emotività che non aveva mai posseduto e che nessuno gli aveva mai inculcato. Per loro, l’innocenza altro non era se non un optional adorabile.
Lentamente, il suo viso riaffiorò fra i suoi pensieri con una nitidezza di particolari tale da fargli più male del consueto. Ricordava ognuna di quelle soffici linee, dalla più insignificante alla più marcata, e il desiderio di poterlo sfiorare, almeno per un attimo, lo colpì come una stoccata in piena faccia, perché non l’aveva mai fatto e avrebbe voluto tante volte, tastare la pelle liscia tesa sugli zigomi, irretito dall’odore acre e sensuale della sua acqua di colonia, il cui profumo si spandeva in una lieve scia ad ogni suo passo.
Durante quell’anno passato a stretto contatto con la vera natura di lui, aveva potuto solamente immaginare quale fosse stato lo sguardo che gli indirizzava, attraverso le lenti degli occhiali da sole. Suppliva questa sua mancanza rievocando il momento in cui l’aveva visto con il cadavere di Hokuto fra le braccia.
Eccolo, allora, il vuoto derisorio di quell’espressione, che sapeva leggere nella sua anima solamente per ridurlo in pezzi.
Ma c’era stato un momento in cui era stato davvero suo. Gli aveva sorriso col sorriso di chi impara a farlo, schiacciando il dolore che gli bruciava nel petto con altro dolore abrasivo.
Sapeva di averlo, sapeva che, disperatamente, Seishiro stava cercando di riempirlo di ciò che gli era rimasto.
Sapeva anche di averlo perso. Sapeva che era tutto ciò che restava.
Sapeva che aveva parlato solo per lui, in punta di piedi, con l’ultimo – il più dolce, il più odiato, il più crudele – dei suoi respiri.
Lei non aveva tutto questo.
Cosa avrebbe dato per carpirglielo, per unirsi al suo segreto, per appoggiare le dita di spettro sul frammento di Seishiro lontano da lei?
«On»
Ammaliatrice di Seishiro e, in realtà, sua severa schiava, al cui cospetto anche il suo predecessore si era, in apparenza, piegato.
Eretta, pomposa, altera. Regina del suo mondo di neve al sole, dove Seishiro era un ragazzino e lei era, in apparenza, il centro del suo universo.
Ammesso che Seishiro ne avesse mai considerato uno, fuori dai suoi desideri, e dalle sue ossessioni.
Sebbene lei fosse cosciente di quella non-esistenza, vi si era prestata volentieri.
«Sakurazukamori.».
Le labbra di lei si mossero con velato scherno, con una sottile vena di disprezzo.
Fiero e vergognoso di portare il suo cognome, che li avvicinava e li teneva lontani allo stesso tempo, un filo di ragnatela oltre la morte, che li manteneva a distanza parallela.
Era il nome della morte di tutto.
Gli bastava che fosse il suo.
«Sai di non potermi portare via, io sono questa casa.».
Lo sapeva, infatti.
Ma se lei fosse sparita, se la sua piccola, minuta presenza ultraterrena si fosse sollevata nel cielo di piombo, non avrebbe dovuto prestare ascolto a tutti quei minuziosi resoconti che dissotterravano un Seishiro che ammirava infiorescenze ricamate sui kimono, che baciava splendide labbra di rubino e osservava inverni e primavere senza che questi attecchissero nel suo cuore.
Mai.
«Prenderai freddo.» mormorò lei.
«Bah.».
Subaru la guardò sollevarsi come una falena per seguirlo all’interno. Si sfilò finalmente gli stivali bagnati, con cui aveva calpestato i tatami una volta varcata la soglia di casa. Li gettò in un angolo, spostando lo sguardo sul pettinino che rosseggiava fra i capelli dello spettro.
Chissà.
Magari se l’era infilato una lontana mattina di tanti anni fa, con la consapevolezza che, entro qualche ora, avrebbe seguito il suo corpo inerme ai piedi del Sakura, trapassato da una mano che lei stessa aveva dato alla luce.
Quante volte aveva sentito quelle labbra sognanti elargirgli lo stesso avvenimento, con una sfumatura d’amore quasi infantile, ogni volta diversa.
La prima vittima non si dimentica mai.
Il primo amore non si dimentica mai.
Si chiese fino a quanto le due cose potessero coincidere.
«La prima volta che rividi Seishiro, fu nove anni dopo la sua nascita. Non avevo nulla della sua primissima infanzia, se non il ricordo del suo corpicino viscido e urlante che avevo stretto fra le braccia, ancora caldo del mio ventre. Mi stupii, perché quel fagottino di carne fragile, che, ancora sporco del mio sangue, strillava a pieni polmoni, era cresciuto a dismisura. Non cambiai idea sugli esseri umani, che restano pur sempre stupidi e fatiscenti, ma lui era già bellissimo, allora. D’altronde, non poteva essere altrimenti, aveva il sangue di suo padre, e mio. Da lui ha preso gli occhi, grandi e color miele… non posso essere sicura di altro, perché credo di averne dimenticato addirittura il volto… ma questo a Seishiro non è mai interessato. Lui aveva me. Mi andava bene, questo. Lo riconobbi quasi immediatamente, vestiva un completo occidentale, in velluto nero. Camminava a passi tranquilli verso di me, nonostante non gli avessi lasciato nessuna fotografia… Doveva essere a causa dello stesso motivo per cui io stessa mi ero accorta di lui senza averne presente alcuna descrizione. Mi chinai a baciargli la guancia e gli chiesi come avesse fatto a rendersi conto che io fossi sua madre. Lui mi ha risposto dicendomi che gli era stato spiegato più volte che sua madre era bellissima. Gli ho proposto di andare a casa, a gustarci un bel bicchiere di mugicha, così lui mi ha preso la mano e mi ha seguita, senza dire niente. Puoi immaginare quanto fosse stupendo?» concluse, con un accento di altezzosa nostalgia, mentre si accomodava pigramente accanto al basso tavolino in legno, senza smettere di esaminare minuziosamente Subaru con i grandi occhi felini.
Subaru ebbe l’impressione che potesse vedere il Rainbow Bridge cedere all’infinito nei suoi occhi, avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma
«Il tuo occhio destro è suo.»
scappare da lei
«Sì.»
non era molto diverso dallo scappare da suo figlio.
«È tutto quello che è rimasto del suo cadavere.» riferì il ragazzo, citando inconsciamente Fuuma. Lei si alzò all’improvviso e si eclissò dietro uno shoji, lasciandolo, solo, ad aspettare… ad aspettare cosa?
I secondi si accavallarono l’uno sull’altro come fotocopie sbiadite, fino a quando non vide l’ovale trasparente del suo viso fare capolino dalla sottile porta di carta, nella maestosa cornice dei suoi capelli, che ricadevano sinuosamente verso il basso. Con un lieve, gelido cenno, la donna gli ordinò di raggiungerla, cosa che Subaru fece meccanicamente, scacciando ogni emozione via dal volto.
Stupidamente, si ritrovava ad assecondare il fantasma con una sorta di rigida riverenza, animato da un senso di rispetto che gli ispiravano i lineamenti di immacolata bambina. Immaginò che quello fosse lo stesso effetto che la donna aveva su Seishiro, che, nonostante tutto, non poteva rifiutare nulla di ciò che proveniva dalle labbra materne.
Scivolò nella stanza e solo allora prestò attenzione all’entità spirituale che studiava i particolari del suo viso, le manine infantili incrociate in grembo.
Una candela ardeva appoggiata sulle stuoie, gettando riflessi aranciati sulla seta del kimono scarlatto come una camelia in fiore, su cui erano stati mirabilmente ricamati dei fiori e un imponente dragone che si attorcigliava intorno alle ginocchia e risaliva fino al petto. La beltà di chi lo portava indosso non ne risultava in alcun modo oscurata; al contrario, la donna contribuiva ad ampliare la sensazione di principesco e intoccabile suggerita dal ricco abbigliamento.
Subaru non tradì sorpresa o ammirazione, limitandosi a fissarla con una lunga, algida occhiata di mare in tempesta, nel momento in cui lei si sedette con un lieve fruscio sul lenzuolo rosso cupo, per poi distendersi su di esso come la più splendida e anemica delle fanciulle.
«Abbiamo fatto l’amore proprio qui. Era una giornata di primavera.» gli sorrise, come una Madonna, illuminata da una luce vermiglia, malsana, insopportabile. Un fremito di rabbia salì dal profondo di Subaru, il quale contrasse i lineamenti in una smorfia e tentò in tutti i modi di dominare il tremito che si era impossessato della sua mano.
Quando si ricordò dell’intangibilità di lei, quel polso era già intrappolato nella morsa furiosa delle sue dita. Trasecolato, scoccò alla donna un’occhiata di puro sbigottimento che lei stessa, dal canto suo, ostentò, con un lieve sbattere di ciglia.
Il fragile, irregolare delinearsi del suo osso emanava un gelo che sembrò penetrare nei suoi polpastrelli. Paralizzato dall’entità della propria scoperta, il ragazzo risalì con le dita per esplorare con un lieve, timoroso tocco, la morbida rilucenza della sua guancia, candida come neve, mentre lei ritrovava il suo equilibrio e si raddrizzava.
Da parte di Subaru, le attenzioni digitali sul viso di ceramica di lei furono così indugianti e meravigliate da indolenzirgli le dita per via del freddo, che s’insinuò nella sua cassa toracica, come a voler incrinargli le ossa, l’animo, la memoria.
«Ma…» mormorò… Lei prese un inutile respiro. Non diede a Subaru possibilità di fuga e soffocò fra le labbra un mormorio che non riuscì a comprendere.
Fu come mordere morbido cristallo rosso, mentre il gusto dell’inverno scivolava nel suo palato come bruma sottile. Quello non era un kimono, si accorse Subaru, ma una semplice vestaglia, che lei cominciò a svolgere dai fianchi per permettergli di tastare ciò che la seta rossa si ostinava a celare.
Seishiro aveva assaggiato quelle stesse labbra, quando il tepore della vita le animava ancora, era fuggito fra gli stessi capelli, ad aspirare lo stesso, vago profumo. Era tutto ciò che rimaneva a rammentargli che, un tempo, lei era stata viva: se il suo corpo era inodore come acqua di sorgente, fra le ciocche di soffice, lucente inchiostro persisteva invece una fragranza di legno e camelie. Gli stessi capelli di Seishiro, scuri come ali di un corvo, sicuramente così morbidi al tatto, fruscianti come la seta dell’obi abbandonato sul lenzuolo.
Le dita dello spettro dietro la nuca, algide, asciutte, come un sigillo, scivolarono lungo le vertebre, provocandogli un fremito ghiacciato lungo la spina dorsale, sotto, oltre i suoi abiti, mentre le labbra gli sfioravano la palpebra destra.
Cieco in mezzo alla tormenta.
Subaru, il respiro risucchiato da un fremito infreddolito, gli occhi rigorosamente serrati, discese lungo lo sterile ventre di bambola, la bocca a contatto con la pelle, come mangiare neve, con la speranza di inseguire il calore fatuo delle labbra di Seishiro, il semi-invisibile disegno dei suoi baci, la scia inavvertibile del suo odore, il segno fantasma delle sue carezze, il sussurro mai udito della sua voce.
Ma rinveniva solo livido ghiaccio, abbracciato alla sua carne ancora irrorata dalla vita, insinuarsi in lei era come sprofondare nelle liquide profondità di un lago a Dicembre, i sensi occlusi, sulle labbra di lei impigliato il nome che Subaru stesso sentiva dibattersi nella memoria.
Il collo giocattolo si abbandonò sul cuscino.
Subaru si allontanò da lei, rabbrividendo e raggomitolandosi nel lenzuolo purpureo, desideroso di rifuggire l’aura invernale che si spandeva dalle fattezze al suo fianco. Lei aveva chiuso gli occhi e se ne stava lì, immobile, un’orientale Biancaneve intorpidita dalla passione che scemava.
Quando parlò, il tono era lento, misurato, quasi proveniente dall’altro capo del mondo. Continuava a brillare della luce riflessa del cielo grigiastro, ammantata nei suoi capelli, gli apparve ancora più inconsistente e cristallina del solito.
«Prenderai freddo sul serio, stavolta.».
Per tutta risposta, Subaru raccolse la propria biancheria ai piedi del letto e si accinse a indossarla di nuovo. Vestito solamente per metà, si distese di nuovo sul materasso.
«Che differenza farebbe?»
«Per me, tu bruci. È il difetto del non essere né donna né spirito. Credo tu apprezzeresti di più il tuo attuale modo di percepire, se non fossi propriamente vivo.» rispose la donna, imperturbabile. Subaru fece per ritrarsi quando la mano di lei raggiunse il suo petto e fu seguita dal suo orecchio, che si accostò per sondare i battiti del cuore, come un fiocco di neve che gli mozzò il respiro.
«Un essere umano smette di vivere solamente nell’attimo in cui il suo cuore cessa di battere.».
Fissò il ragazzo con intensità, sollevando il capo dal suo torace.
«Questo corpo… è solamente l’incarnazione del mio rimorso, della mia nostalgia, del rimpianto per ciò che ho perduto… e che non ho mai avuto per me. Ciò che puoi toccare, che hai davanti ai tuoi occhi, è un surrogato in cui il Sakura ha racchiuso la mia anima.»
Tacque.
«Seishiro non mi appartiene più.» riprese. Mentre lo ammetteva, appoggiò la splendida cervice sui guanciali, il seno scoperto, come una discinta principessa
«Credo non appartenga più nemmeno a me.» le disse Subaru, con sommessa amarezza. Quello che le vide negli occhi fu quasi scetticismo.
In ogni Sakurazukamori che aveva incontrato, non aveva mai potuto riscontrare la vivida presenza di un’emozione completa. Solo quasi.
«Davvero non sai com’è che può morire un Sakurazukamori?» si sorprese la donna, sbattendo le palpebre. Davanti alla perplessità di lui, desistette, con un mezzo sorriso di superiorità.
«Allora va bene così.»
«… »
«In ogni caso, conoscendo mio figlio, so che tornerà, come ho fatto io. Se non vado errata, la portata di ciò che si è lasciato indietro è di gran lunga maggiore della mia. Sarà costretto a spiegarti molte cose.».
Fu, con ogni probabilità, la prima volta in cui vide gli occhi del nuovo Sakurazukamori prendere vita sul serio, scuotere via il torpore e la malinconia che si stendevano sul colore ineffabile del suo sguardo, che assunse una tonalità incredibilmente… limpida.
Chi l’avrebbe mai detto che un occhio di Seishiro l’avrebbe mai fissata in una simile maniera.
«Ma il toccarlo ti provocherà la stessa sofferenza che hai avuto modo di sperimentare oggi.» lo ammonì, recuperando la fermezza della voce.
«Lo aspetterai comunque?»
«Sì.» scandì Subaru. Né esitazione o tristezza interessarono in alcun modo la sua risposta.
«Bene.» tagliò corto lei, rincantucciandosi per bene fra le coperte. Lui non le fece domande, anche se dubitava del fatto che un fantasma potesse conoscere il sonno.
Furtivamente, il ragazzo giunse le mani.
«On.»
Credeva di aver dimenticato quanto il vibrare di una sola sillaba si potesse spandere solennemente nell’aria, diffondendo le onde ultraterrene e luminose della liberazione.
On, il filo sottile che restituiva la morte alla morte.
Lei gli sorrise.
«On.»
Ancora e ancora.
Polvere alla polvere, e la sua carnagione nivea si perdeva nell’aria come luce. L’incurvarsi sereno delle sue labbra offuscò Subaru ancora per qualche istante, facendogli pensare a due gocce di sangue in un campo di margherite. Quando quella strana sensazione lo abbandonò, lasciò spazio al più incredulo degli sguardi.
Sul cuscino scintillava un teschio di cristallo, grande esattamente quanto uno umano. Sulla superficie danzavano riflessi iridescenti, così guizzanti da risultare quasi grotteschi se abbinati a qualcosa di così macabro. Le orbite cieche sembravano rivolgersi a Subaru in una mesta supplica.
Tese il braccio, con timore, fino a che il suo indice non raggiunse, per una frazione di secondo, la curva del cranio. Non fu nemmeno sicuro di averlo toccato, perché esplose in un fine pulviscolo che cadde ad inargentare il lenzuolo.
Subaru raccolse le ginocchia contro il petto, osservando con inerzia il ciliegio innevato visibile dalla finestra.
L’inverno sarebbe stato ancora lungo.
Sorrise.
~
A/N 26 Ottobre 2005, 16:19. Avevo promesso un nuovo capitolo di “Flesh”, sono una persona orrenda ;_;! Anyway, questa è il mio personalissimo regalo di compleanno per Harriet, che ha dimostrato un amore e una dedizione per questa fanfiction che mi hanno commossa ;_____;! La ringrazio infinitamente per tutto! Mi ha confermato la sensazione di “freddo” che volevo comunicare.
L’ultima ventina di righe sono state tutto un lambiccarsi di cervello @-@ e spero vivamente che costituiscano un bel finale @____@. Altra cosa sovrumanamente faticosa XD è stato il non nominare Setsuka nemmeno una volta… credetemi, i fantasmi sono una bella gatta da pelare (>_<)! Chi non ha letto la sidestory del sedicesimo numero di X troverà un po' di difficoltà, forse. Forse perché avrà gli occhi gonfi, dato che avrà pianto per tutto il volumetto, maledicendo Seishiro in aramaico... è meglio non mangiarsi il fegato per colpa delle CLAMP, non fa bene. Anche se ricresce XD. Vado a correggere gli errori di battitura! Juuhachi Go.