[X, TYOB] Building a mystery

Titolo: Building a mystery
Fandom: X, Tokyo Babylon
Personaggi: Subaru Sumeragi, Seishiro Sakurazuka, Hokuto Sumeragi
Parte: 1/1
Rating: PG
Conteggio Parole: 3373 (LibreOffice)
Note: omosessualità, spoiler sul volume 7 di Tokyo Babylon, I guess?

Building a mystery

«Ma… ma la nonna non ci aveva detto di stare fermi ad aspettare senza muoverci?»
«La nonna ci aveva anche detto che c’erano le streghe nel suo oshiire.»
Subaru scoccò un’occhiata di rimprovero alla sorella. Quella faccia l’aveva vista spesso, l’ultima volta aveva procurato una punizione particolarmente esemplare ad entrambi. Però capiva benissimo che Hokuto si stava annoiando a morte. Non era molto divertente restare a girarsi i pollici guardando vecchie stampe di geishe appese al muro, o fissando i fusuma. Almeno, da bravo successore della famiglia, credeva di essere tenuto ad assistere a quel particolare esorcismo, ma la nonna gliel’aveva proibito: a detta sua, non era né facile né adatto agli occhi di un bambino, e poi Hokuto si sarebbe spaventata. Nonostante Subaru avesse forti dubbi al riguardo, obbedì come al solito, ma… uffa.
Hokuto continuava a fissarlo con quella faccia degna di un ritratto: occhioni da bambola, mani giunte, sorrisone che le arrivava da un orecchio all’altro e gli diceva tipregotipregotipregotipregotipreeeeeego!. Subaru le fece cenno di sì, perché, francamente, anche lui si era scocciato di stare lì dentro. Per poco Hokuto non lo soffocò di abbracci. Dalla finestra riluceva la neve, invitante e soffice, come da quelle parti non ce n’era mai stata, da quanto poteva ricordare. Era la prima volta che aveva l’occasione di vederla al di fuori delle fotografie. Un brivido di eccitazione infantile frizzò nelle punte dei piedi come una bibita deliziosa e lo spinse a cercare le scarpe senza fare rumore. Hokuto, che stringeva tutt’e due le paia fra le mani, lo trascinò per un braccio verso l’ingresso sul retro. Dopo aver annodato i lacci, aprì lo shoji e una folata di vento che sapeva di ghiaccio infilzò loro i polmoni. Subaru strinse il giaccone attorno al corpo che già si sentiva infreddolito per conto suo, ma lo spettacolo – che all’arrivo non aveva notato, perché la nonna aveva fretta – gli si spalancò trionfalmente davanti alla vista. Bianco e morbido, era un tappeto che prometteva giochi a volontà! Hokuto era pienamente d’accordo, a giudicare dal modo in cui le pupille fissavano la distesa nivea. Aveva le guance rosse come due ghiaccioli all’amarena e, mentre gli prendeva di slancio la mano, rischiò di rompergli l’osso del collo, tanta era l’energia con cui l’aveva tirato giù dal gradino.
Plonf! A faccia a terra nella neve.
Subaru sputacchiò e cercò di rassettarsi, ma un piumino rosa e una massa di capelli neri lo travolsero in pieno e lo fecero affondare ancora di più – e meno male la neve era fatta di neve morbida.
«Ouff! Ho… Hokuto-chan?»
«È tutto a posto, Subaru?» cinguettò sua sorella, scuotendo via i fiocchi rimasti appiccicati ai minuscoli, ispidi codini. Subaru annuì, ancora un po’ stordito mentre il sedere foderato di rosa lo lasciava respirare.
Si rimise in piedi, scrollandosi i pantaloni. Anche attraverso il giubbotto, la neve era deliziosamente fredda e bagnata. Hokuto si era appena raddrizzata, che suo fratello esplose in una risata gioiosa e ruzzolò sopra di lei, scaraventandola a terra con un soffice, bianco tonfo, poi si preparò a un ingresso da tuffatore, ed ecco Sumeragi che arriva!
Sbunf! brontolava il terreno imbiancato sotto di loro. Avevano passato troppo tempo della loro infanzia in posizione seiza, così tanto che l’occasione di scatenarsi in quel prato sommerso non potevano perdersela. E giù, allora, a nuotare nel bianco come bambini dell’asilo.
«Yaaah! Arrivo, Hokuto-chaaaaaaaaaaaan!»
Sbadaing!
«Fratello delinquente! Prendi questo!» replicò la bimba, tutta sogghigni, simile a una guerriera dei monti vestita di chewing-gum mentre seppelliva il gemello sotto una valanga, ma, come il più agile dei supereroi, Subaru sgusciava di qua e di là, sottraendosi ai proiettili gelati e rispondendo a questi con poca galanteria. Sua sorella, una volta ripulitasi dalla neve che le era scolata nel collo, si catapultò, ridendo, sul gemello, per poi atterrarlo di nuovo e restare spaparanzata su di lui, sottolineando così la sua vittoria. Gli mostrò un buffo sorriso di superiorità – nel quale si apriva la finestrella di un dente appena caduto – e, dal canto suo, Subaru le rispose con uno sguardo scettico talmente curioso che lei non poté rimanere seria. Gli rise nel naso, costringendolo ad appiattire la testa sul terreno.
Miseria, che freddo.
«Aaaanf.»
«Uh?» fece Subaru.
Hokuto si era stancata. Pur sospirando, non aveva la minima intenzione di levarsi di dosso, e lui, che ci teneva a non buscarsi un cazzotto in bocca, si guardò bene dal chiederglielo.
La testa nera e arruffata di lei si volse pigramente dall’altro lato. Lentamente, quella di Subaru fece lo stesso, e i suoi occhi videro il bianco sconfinato della neve e il torii rosso del tempio di fronte allo spiazzo, nel contrasto netto di una fiaba.
«Subaru?»
«… eh?»
«Facciamo gli angeli?»
*
Ascoltò la propria offerta che rotolava giù, un coinciso suono d’argento che incrinò il fiacco silenzio invernale di quella sera.
Tirò la corda della campana, senza chiedersi se il rimbombo avrebbe destato gli dèi, che già da tempo avevano smesso di dar credito alle sue preghiere.
Non sentiva più le mani.
Le batté.
Le giunse.
Non ti ho dimenticata.
Non che pregasse. Non aveva né qualcosa da chiedere, né un motivo per ringraziare.
Aveva bisogno fisico di rassicurare una figurina trasparente in un paese d’ombra che sì, era ancora nel suo cuore, sempre.
Quando uscì, inspirando l’aria algida e limpida, rimase accecato per un attimo dal non-colore del suolo, illuminato da quella luna sonnolenta e malferma, pensò che tutto, lì fuori, era uguale al suo cuore.
Dorme, sotto una coperta gelata.
Aspettando.
Invano.

Sui gradini si scivolava, e Subaru non tirò un sospiro di sollievo fino a che i suoi stivali non furono affondati nel terreno soffice.
La prima e unica volta che aveva visto così tanta neve era stato allora. In quello stesso spiazzo, dove sentiva il vento scorrazzare come un allegro fantasma. Lì, la casa in cui erano stati taceva, chiusa, infinitamente lontana, gli spiriti che l’avevano invasa si erano dissolti almeno una decina di anni fa, rugiada nel giardino dei suoi ricordi. Per un momento, un lungo momento, notò quanto sembrasse stupido ricordare un luogo – un corridoio, anzi – in cui era stato una volta, e decisamente poco volentieri.
Un corridoio poco illuminato, angusto, sovraccarico di pergamene raffinate, donne d’inchiostro alle pareti, scalpiccio femminile di una domestica scialba che era passata per un momento sotto uno spiraglio di luce che pioveva da uno shoji socchiuso.
Era una luce sottile, bianca, netta nella penombra.
E codini neri, rivolti altrove, che volevano andare a giocare.
Mentre nell’altra stanza pulsava furioso un cuore trasparente e sovrannaturale, contro cui la nonna stava scagliando tutta la propria forza.
Nella penombra, il silenzio, formule mormorate a mezza voce attraverso i quadrati di carta di riso, e quel che di spirituale che si dibatteva contro quell’energia che lo sovrastava senza pietà.
Non mi piace.
Per la prima volta in vita sua, Subaru prese piena coscienza di quel pensiero che, quel giorno, nella sua percezione infantile della realtà, non era riuscito a focalizzare, e che avrebbe intaccato gli anni a venire della sua vita. Essere intrappolato in qualcosa per cui non si sentiva affatto portato, carico di un onere che la sua fragilità d’animo non era capace di sostenere. A quello ci avrebbe pensato il suo senso del dovere.
Lo ricordava, come quelle tre parole erano scaturite dalla sua mente, naturali e chiare. E una mano cercava di tirarlo via.
Spettri da bandire in una soffocante stanzetta odorosa di tatami, armati di un incantesimo vecchio di mille anni.
Il sunto più efficace dei suoi ventiquattro anni. Un’eternità tutta uguale.
«Buonasera.»
… Sottobraccio all’unico momento che aveva avuto il potere di sconvolgerla. E di renderla policroma e invivibile. Perché gli unici colori che vedeva erano i suoi.
Si scostò lentamente dalla mano appoggiata sulla sua spalla e andò ad afferrare il pacchetto di sigarette che custodiva sotto l’impermeabile. Se non avesse avvertito l’odore acre delle Mild Seven, si sarebbe voltato ad offrirgliene una.
Non si mosse.
« Che cosa ci fai, qui?» preferì domandare, con tranquilla indifferenza.
«Non so, quello che ci fai tu, suppongo… Qualunque cosa sia.»
«Non avrei mai creduto che un giorno avrei potuto tacciarti di mancanza di personalità, sai?»
Seishiro ridacchiò in un anello di fumo.
«Ti assicuro che è l’ultimo dei miei problemi, al momento.»
«Il solo accostare la parola “problemi” a te è una barzelletta.»
«Mi sono sempre considerato un uomo con il senso dell’humor.» replicò lui, con aria affabile
«… Nero.»
«… Mpf.» fece l’uomo, dopo una breve pausa, scuotendo la cenere grigia sul bianco che ammantava il suolo.
«Beh, lieto che sia rimasto qualcosa di piacevole nei nostri incontri.» borbottò Subaru, incrociando le braccia e fremendo di freddo.
«Sei tu che ti ostini a non voler trarre nulla di piacevole, dai nostri amabili rendez-vous, oserei dire.»
«Seishiro-san.» inspirò il ragazzo, con malcelata irritazione «siamo in un’area sacra. Se questo è un tentativo di corteggiarmi, mi hai appena conferito la licenza di uccidere…»
«Alt, mio irreprensibile ministro…» rise l’assassino, con aria di scherno, tendendo un dito sulla pelle serica e fredda del collo di Subaru, mentre questi provava, invano, a sottrarsi. « … Siamo di un passo oltre il torii. Ergo,» mormorò, abbassando la voce e chinandosi fino a toccargli il collo con la punta del naso «posso esercitare i miei sacrosanti doveri senza suscitare la collera divina.»
«G… Gli dei non chiudono gli occhi davanti a un torii.» sospirò Subaru, il gelo e il tocco che gli strappavano con veemenza il respiro.
«Gli dei non ti hanno mai salvato da me.» constatò Seishiro, lapidario.
Né da me stesso, non poté risparmiarsi dal pensare Subaru.
«Que-Questo non è un buon motivo per lasciarti vincere!» riprese fiato, come in uno scatto di ribellione
«Ma tu lo vuoi
«Perché dovrei?» chiese Subaru, una crepa nell’impenetrabilità della sua voce
«Perché…» sussurrò l’uomo, sfoggiando un sorriso che il ragazzo fece appena in tempo a vedere, voltandosi verso di lui.
Perché io sono tutto ciò che ti resta.
Perché mi ami.
Perché sai di essere mio.

Bruciava di una rabbia prostrata dal tempo, ma i suoi occhi erano ugualmente scuri e senza fondo, come la notte sopra di loro. Solo, senza stelle. Senza luce. Esclusa quella di un breve lampo di stizza, simile a un astro morente, che acceca con prepotenza per poi spegnersi l’attimo dopo.
Seishiro non concluse la frase, come se l’ombra scivolata sul viso di Subaru si fosse invischiata nel suo palato. Si limitò a una smorfia leziosa, che sembrava sagomata sui pensieri del giovane.
Sarebbe bastato girare i tacchi, venne in mente a Subaru, sarebbe stato come schiaffeggiare Seishiro in pieno viso.
Vittoria.
«Sei un bastardo senza spina dorsale.» sibilò, invece, freddo e decisamente monotono.
«Piantala, potrei lavarti la bocca col sapone.» ribatté lui, ma la sua nonchalance si trasformò in una sfumatura sorpresa quando, spenta la sigaretta nella neve, Subaru si separò di prepotenza dalle sue carezze distratte e fuorvianti, cominciando ad allontanarsi a passi misurati.
Nessuno di questi l’avrebbe condotto molto lontano da lui, o dal passato sopito in quel fazzoletto di terreno brullo e coperto di bianco, Subaru lo sapeva. Esattamente come sapeva che, lontano da Seishiro, era la neve a prendere il sopravvento, e non la sua volontà.
Solo il freddo. E il vuoto.
Un vuoto ancora più infinito della voragine che Seishiro gli aveva aperto nel cuore.
Tuttavia, in mezzo minuto, il suo orgoglio fu libero di scatenarsi in fondo a quella valle di sterminato grigiore.
In quel mezzo minuto, voleva che Seishiro fosse niente, che si sentisse niente, senza di lui.
Mai sentito tanto cattivo in vita su-
Splonf.
Qualcosa di friabile e gelido urtò il suo soprabito.
Sembrò congelarlo, nonostante lo strato di abiti che lo avvolgeva.
Si voltò con un rumore impercettibile e sbalordito, non riuscendo a nascondere lo sfavillio incredulo che aveva negli occhi. Seishiro esibiva un sorriso sornione, e non si era mosso dal punto in cui Subaru l’aveva lasciato. Aveva una mano umida del colpo che aveva sferrato. Seishiro e una palla di neve era senza dubbio alcuno l’accostamento più inverosimile della serata.
Si avvicinò a passi esitanti e strascicati. Non gli venne in mente di raccogliere un mucchietto di neve da terra per contrattaccare e, una volta nel mirino dell’avversario, cercò di scrutare nei suoi occhi atoni con una sorta di caparbia concentrazione.
Avrebbe dovuto saperlo, però: non avrebbe trovato più di ciò che lui avrebbe voluto mostrargli, e Seshiro era sempre stato bravo, in questo gioco. Meno furioso e più ponderato di lui. Baciato da una perfezione diabolica, disumana, anche nel modo di tagliare Subaru fuori dalla sua vita, per poi riammetterlo solamente a seconda dei propri comodi.
E Subaru era così impegnato nel tentativo di avvilire quell’imperturbabilità insopportabile da non accorgersi che Seishiro era passato all’offensiva. A tradimento (ma Subaru non poteva aspettarsi nulla di diverso), aveva appiattito una generosa, fredda manciata sui sottili capelli neri, facendolo quasi sobbalzare.
Convenendo che fosse troppo tardi per capirci qualcosa, d’istinto il ragazzo sospinse il corpo ammantato di nero sul suolo, intenzionato a dare battaglia. Fu tutto un pesticciare sbuffare rotolare insultare parlare fra i denti sputare neve e infuriarsi, lembi di soprabiti innevati, anfibi e mocassini che scalciavano con pari energia arrenditi non a te ma se sono io a volerlo tu lo farai vai all’inferno tu verrai con me magari ti raggiungo più tardi non credi che ahia Hokuto-chan potrebbe arrabbiarsi vedendoti ouch cough all’inferno fa’ silenzio tu non credi nell’inferno io credo solo in me stesso e so che anche tu continuerai a fidarti di me non importa ahia cosa io possa… On!
«Che diamine…?» provò a raccapezzarsi Seishiro, liberandosi dalla neve che gli impolverava viso e capelli e tentando, contemporaneamente, di schermarsi dagli ofuda che Subaru gli stava riversando contro. Uno di quegli incantesimi doveva averlo colpito di striscio, perché i muscoli facciali sembravano intorpiditi e cedevoli, il punto focale del fastidio era lo zigomo destro, quasi completamente insensibile. Afferrò l’ofuda nero e oro caduto al suo fianco e sibilò un controincantesimo che spedì il ragazzo lungo disteso al suo fianco per un paio di secondi che gli sarebbero stati sufficienti per trionfare in grande stile. Un’altra pergamena stretta nel pugno e pronta a sancire la sua supremazia, ma gli shikigami di Subaru si rivelarono ancora più fulminei, e uno stormo di uccelli lo abbagliò in un volo confuso e rumoroso.
Prostrato al suolo.
Sbatté le palpebre. Stava fissando il viso diaccio, meraviglioso, inflessibile di Subaru che gli aveva imprigionato il bacino con le gambe e si teneva saldamente ancorato sopra di lui puntellandosi con le braccia.
Con un braccio.
Nell’altra mano stringeva convulsamente un pugnale acuminato, che Seishiro poteva sentire pungolargli la gola con l’estremità fredda e letale. I lineamenti erano contratti, esacerbati da una determinazione e da una disperazione che li rendeva ancora più ultraterreni, col riflesso della luna che si adagiava leggiadro sulle spalle gracili e incorniciava il viso di uno scintillio d’argento niente male.
Deglutì lentamente.
Subaru.
«Fallo.»
Sorriso temerario, o più probabilmente, noncurante e provocatorio.
Profondo, velato sospiro dalle labbra altrui.
«Correggimi se sbaglio, ma… non sei tu adesso, a poter decidere di me?»
Avrebbe potuto annegarlo in una pozza di sangue, paralizzare il sorriso che gli riempiva le labbra, e sparire.
Fine.
Di chi resta.
Senza addolcire il fermo biasimo che gli irrigidiva il viso, Subaru allentò la presa sul manico del coltello e lo lasciò scivolare a terra, come se il suo braccio fosse stato improvvisamente assalito da un’ondata di stanchezza. Inerte, sprofondò al fianco di Seishiro con un rumore ovattato, poi restò immobile, gli occhi chiusi e il respiro di piombo, come stremato.
Nemmeno Seishiro dava segno di voler alzarsi, i capelli imbiancati, l’aria gelida che gli soffiava sul viso e sulle palpebre abbassate, il cappotto disteso sotto di lui come le ali di un corvo.
«Facciamo gli angeli.»
«Che cosa?!» mormorò Seishiro, senza guardarlo
«Gli angeli.» sillabò di rimando il ragazzo, senza mostrare un’impazienza di cui l’orecchio di Seishiro – così abituato alla sua voce – notava benissimo le avvisaglie.
«Di’ un po’,» fece, stavolta degnandosi di inarcare un sopracciglio e di sbirciarlo con la coda dell’occhio «hai proprio intenzione di farmi fulminare da Amaterasu o è solamente una mia impressione?»
«Allarga le braccia.» sussurrò il ragazzo, senza prestargli attenzione, con un accento rapito nella voce, ricordando i solchi che mani infantili avevano impresso sul suolo niveo. «… Così, esatto. Adesso le gambe.» impartì, con una sorta di indolente delicatezza, imitando Seishiro a sua volta.
Descrissero angeli nella neve, descrissero la curva stilizzata e perfetta di due paia di ali, finché gli avambracci di entrambi non rimasero allargati, svuotati di ogni convinzione.
«… Credo di non essere tagliato per queste cose.» rifletté Subaru, ad alta voce, rivolto più al bambino seduto a gambe incrociate nel suo cuore che all’uomo sdraiato vicino a lui.
«Non dirlo a me…»
Riabbassarono le palpebre, inspirando di nuovo a pieni polmoni l’aria pungente, Poi Subaru, tutt’a un tratto, spiò il cielo, attraversato da rade lucciole minuscole e bianche, sbatacchiate nel vento pigro.
«Nevica.»
«Mh.»
«Ne hai mai vista così tanta in Giappone, in posti come questo?»
«Sì, se non sbaglio… forse tu eri troppo piccolo per ricordarlo.»
Il vento vibrò nella sua testa come lo strascico di un abito da sposa che solcava quello spiazzo luccicante.
Un rumore così morbido da essere non-rumore, come un sogno luminoso ad occhi aperti.
«Lo senti?»
«Mh.»
Passi. Leggeri.
Con un movimento curioso, molto simile a quello che faceva la mattina uscendo dal letto, si tirò in piedi, aiutando Seishiro a fare lo stesso, stringendogli la manica della giacca. Rimasero così, entrando nella casa oramai disabitata, verso la quale il rumore si srotolava come un filo sottile.
Il corridoio lo attendeva, reso ancora più angusto dal buio della sera, contrastato solo da qualche sparuto raggio di luna, che rendeva visibili le stampe di geishe e damigelle, solo più impolverate e consunte rispetto a quindici-vent’anni prima. Si appoggiò alla parete, come se la concentrazione sovrannaturale della stanza potesse schiacciarlo contro il pavimento, poi guardò in direzione dell’ingresso sul retro.
Se ne stava ritta nel caldo piumino rosa, ritti i codini nerissimi, acuto lo sguardo che squadrava entrambi. Occhi grandi, verdi come mare. Rosa il fuseaux, rosa i bordi dei calzini.
Seishiro si sentì tirare. La mano di Subaru gli stringeva la manica del cappotto con una veemenza tale da fargli temere che il tessuto si sarebbe lacerato da un momento all’altro.
Lei lo vide, questo. E fu raggiante.
«Finalmente lo avete capito!»
Subaru non rispose, la gola dolorosamente ostruita. Avrebbe voluto farle un cenno qualunque, ma non ce ne fu bisogno: con l’andatura gaia di tutte le bambine, lei gli si avvicinò e gli tese le piccole braccia. Esitando, lui fece lo stesso, separandosi da Seishiro, e vi intrecciò il corpicino, più voluminoso del normale per gli spessi e caldi vestiti. Le mani infantili trovarono appiglio dietro al suo collo e, così sistemata, la piccola gli si rannicchiò con la testa sul petto.
Non si accorse della lacrima di lui che pioveva nei suoi capelli, né delle mani che glieli accarezzavano con aria assorta, con una tenerezza che Subaru stesso credeva di aver dimenticato da molto tempo. Appoggiò le labbra contro la testa.
«Avrei voluto insegnarvi a giocare.» confessò la limpida vocina, con un’inflessione amareggiata.
«Lo so.»
Stettero in silenzio per dei secondi che non passavano più.
Fu Subaru a dischiudere ancora le labbra. Chiunque, eccetto le persone presenti in quel corridoio, avrebbe giurato che ciò che il ragazzo stesse cantando fosse una vecchia ninnananna.
«On bazara darma kiri ya sowaka.» sussurrò nel suo orecchio, come a confidarle un segreto. Parole antiche che Subaru stava modulando su un’altra melodia, quella che, quando erano bambini, la nonna canticchiava la sera per conciliar loro il sonno.
«On, bataei ya sowaka.» e Hokuto-chan ne rise, quasi fosse stato uno scherzo.
Piccola piccola piccola.
Fino a che le sue braccia non ne furono vuote.
Se le strinse lo stesso al torace, forse l’aria tratteneva ancora qualcosa.
Ma no.
Ma sussultò quando dita reali, e vive, e calde, presero possesso del suo polso, distraendolo dai tatami lisi sotto i suoi piedi.
«Andiamo.»
«Sì.».
E tutte le ombre uscirono in punta di piedi.
~
A/N: 2 Aprile 2006, 22:53. Pensavo che la canzone portante della fic fosse Building a Mystery di Sarah McLachlan, invece è finita che è diventata Centrefolds dei Placebo. Mah. O_o. In sintesi, è una presa di coscienza di Subaru che si dipana da un ricordo. Per tutta la fic o quasi sono i soliti stronzi, fino a che il gesto estremo XDDDD di Subaru non stressa tutti e due. Grazie a Michiru per i suo prezioso supporto! Least but not least, un bacino speciale a mia moglie Milako! ^*^!
Juuhachi Go.

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